Visioni doppie, tremori,
difficoltà di movimento, un bisogno irresistibile di dormire in
qualsiasi momento e, in quasi la metà dei casi, paralisi e morte.
Subito dopo la prima guerra mondiale un morbo inquietante,
l’encefalite letargica, flagellò prima l’Europa e poi il resto
del mondo. Decine di migliaia di persone, secondo alcune stime
addirittura un milione, furono colpite da una sonnolenza persistente
contro la quale all’epoca non esistevano rimedi. Durò circa dieci
anni, poi praticamente più niente: la “malattia del sonno”
misteriosamente tolse il disturbo così come quasi dal nulla era
comparsa. Se si escludono alcuni casi sporadici è infatti dal 1924
che non ne viene segnalata la comparsa in forme epidemiche. Eppure,
come descritto in un articolo apparso su “Scientific American”
all’inizio di questo mese, l’encefalite letargica, provocata da
un virus tuttora sconosciuto, ci ha insegnato molto di quello che
sappiamo oggi sul sonno, attività che riguarda indistintamente tutto
il regno animale ma su cui rimane aperta la questione centrale:
perché dormiamo.
Fu soprattutto l’acume
di un aristocratico neurologo di origine greca, Constantin von
Economo, formatosi nella tradizione culturale asburgica, a fornire in
una monumentale monografia la migliore descrizione dell’encefalite
come un’infiammazione del cervello. «L’impatto dei suoi studi
sulla nostra disciplina», commenta a pagina99 Ugo Faraguna,
neurofisiologo del sonno all’Università di Pisa, «si può
paragonare a quelli di Einstein nella fisica». Così come
continuiamo a trovare conferme sperimentali della teoria della
relatività – vedi ad esempio la recente rilevazione delle onde
gravitazionali – «decenni di lavori istologici non hanno fatto
altro che confermare quanto von Economo aveva ipotizzato analizzando
la sede dell’encefalite letargica, in particolare l’esistenza di
interruttori del sonno e della veglia».
Nonostante siano passati
circa novant’anni dai lavori del neurologo viennese, sono ancora
tutt’altro che chiare le ragioni per cui dormiamo. Di sicuro
sappiamo che il sonno fa bene, ma al momento attuale disponiamo solo
di ipotesi riguardanti i meccanismi con cui agisce, con non poco
disagio da parte degli studiosi. Nicola Cellini, ricercatore
all’Università di Padova esperto del rapporto tra sonno e memoria,
afferma che «per alcuni dei maggiori esperti a livello
internazionale la funzione del sonno è oggi la domanda più
imbarazzante per le neuroscienze». Secondo Cellini, che interverrà
la prossima settimana sia a Padova che a Trieste alla Settimana
del Cervello, una ricorrenza annuale con eventi in tutto il mondo
per aumentare la consapevolezza pubblica nei confronti della ricerca
nel settore, «probabilmente il sonno svolge più funzioni
contemporaneamente, dalla rimozione delle neurotossine accumulate nel
cervello durante il giorno, alla ristrutturazione delle memorie.
Questo approccio è differente rispetto al passato. Per diverso tempo
si è pensato ad esempio che dormire servisse a conservare o
recuperare le energie cerebrali spese durante il giorno. Nel sonno
però il nostro cervello non è affatto meno impegnato. Anzi, consuma
quasi le stesse risorse usate quando siamo svegli».
Negli anni il quadro
della ricerca sul sonno è cambiato sensibilmente. Le ipotesi sono
aumentate e diventate più complesse. Una delle possibilità
accreditate più di recente è quella secondo cui il sonno
funzionerebbe da “spazzino”, servirebbe cioè a liberare il
cervello da scorie potenzialmente neurotossiche, in particolare certi
residui di proteine, accumulate durante la veglia. La funzione di
ripulitura del cervello è stata mostrata nei topi in uno studio
pubblicato sulla rivista “Science” nel 2013 a firma di un gruppo
di ricercatori dell’Università di Rochester, negli Usa, guidati
dalla neuroscienziata danese Maiken Nedergaard. Se un simile
meccanismo dovesse agire anche nell’uomo si potrebbe capire meglio
l’associazione tra i disturbi del sonno e malattie
neuro-degenerative come il morbo d’Alzheimer, in cui l’accumulo
di una proteina chiamata beta-amiloide sarebbe il principale
sospettato del danneggiamento e della morte delle cellule nervose.
Una seconda tendenza
molto considerata attualmente vede come protagonisti due ricercatori
italiani, anche se da tempo trasferitisi negli Stati Uniti. Si tratta
di Chiara Cirelli e Giulio Tononi, dell’Università del Wisconsin,
che nel corso degli anni hanno messo a punto la cosiddetta ipotesi
dell’“omeostasi sinaptica”. In un importante lavoro di rassegna
della letteratura presentato sul giornale specialistico Neuron nel
2014, i due autori hanno prospettato che, diversamente da quanto
affermato da teorie più tradizionali, il cervello dormiente non
consolida le connessioni neurali utili ad esempio a fissare quanto di
importante abbiamo imparato nella fase di veglia. Anzi, quando
dormiamo le connessioni neurali si indebolirebbero, perché viceversa
il cervello si affaticherebbe troppo. Come spiega Faraguna, per
diversi anni collaboratore di Tononi negli Usa, «questa ipotesi
postula la necessità del sonno come momento in cui le sinapsi, vale
a dire i punti di contatto tra le cellule nervose, vengono potate. Se
durante la veglia le sinapsi fioriscono, durante la notte vengono
tagliate. Si eliminano così le informazioni che non servono più e
si liberano spazio ed energie per l’apprendimento di nuove
informazioni il giorno seguente». Il sonno sarebbe il dazio
necessario per lo svolgimento di questo processo. Perché dormire non
è privo di inconvenienti. Anzi. «Da un punto di vista evolutivo»,
continua Faraguna, «il sonno è pericolosissimo poiché espone le
prede a rischi facilmente immaginabili. Ma tutti gli animali dormono,
senza eccezioni. Come ha affermato Allan Rechtschaffen, uno dei
pionieri della ricerca in questo campo, se il sonno non avesse alcuna
funzione allora si tratterebbe del più grande errore
dell’evoluzione. Ma non è così. Dormire è il prezzo da pagare
per imparare. E questo è in fondo un punto che su cui diverse
ipotesi possono concordare».
Pagina 99, 12 marzo 2016
Nessun commento:
Posta un commento