29.5.18

Lu disìu (di fimmina 'ncinta). Una celebre poesia siciliana di Nino Martoglio (Belpasso,1870 – Catania,1921)

Nino Martoglio

- Tuttu dipenni dalla circustanza
ca ci ammatti alla donna ’ntirissanti.
Mintemu: àvi un disìu di ’na pitanza,
comu fussiru funci... e fa un liafanti.

O puramenti si tocca la panza
mentri ca guarda un pezzu di ’gnuranti:
ci nasci un figghiu ca, diminiscanza,
è sceccu, vita natural duranti.

Per cui il disìu di donna in gravitanza
- mi spiegu? - è l’occhiu di la simpatia.
- Giustu, la spiega è facili abbastanza:

Mintemu una ch’è ’ncinta guarda a tia,
si ’mprissiona e, parrannu ccu crianza,
sbròccula un sceccu di Pantiddaria!

La voglia. - Tutto dipende dalla circostanza / che capita alla donna interessante. / Mettiamo: ha voglia di una certa pietanza, / per esempio funghi, e fa un elefante. // Oppure si tocca la pancia / mentre guarda un pezzo di ignorante / le nasce un figlio che, Dio me ne scampi, / è asino, vita natural durante. // Per cui la voglia di donna in gravidanza 7 – mi spiego? - è l'occhio della simpatia./ - Giusto, la spiegazione è facile abbastanza: // Mettiamo una che è incinta e guarda te / si impressiona e, parlando con creanza / scodella un asino di Pantelleria! (si diceva che in quell'isola vi fossero somari giganteschi)

da Centona, Clio, Catania, 1993

Achille e Tersite, Nausicaa e Clitennestra. Buoni e cattivi nella Grecia precittadina (Eva Cantarella)

Non sei più mio padre è il titolo di un libro di Eva Cantarella pubblicato da Feltrinelli nel 2015 ed avente come sottotitolo Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico
La Cantarella, già prestigiosa docente a Milano di Diritto greco e romano, non è nuova a sondaggi nella storia delle mentalità e del costume nell'antichità ed è autrice di libri importanti su temi come la sessualità, il ruolo della donna, i supplizi capitali. 
Tra le fonti che con più sistematicità ed acume utilizza c'è la poesia. Il brano che segue, brevissimo, efficacemente sintetizza il carattere educativo della poesia epica in Grecia prima della nascita della “polis”. Del libro, la cui lettura vivamente consiglio, metterò in circolazione anche altri brani, dedicati a temi più specifici. (S.L.L.)
Eva Cantarella
Era la poesia, nella Grecia precittadina, che insegnava e ribadiva incessantemente le qualità che facevano di un uomo un “uomo forte e nobile” (agathos), e insegnava a disprezzare chi tale non era. Era la poesia che incitava a “essere sempre il primo e distinto fra gli altri”, secondo l’insegnamento dato da Peleo al figlio Achille, prima della partenza per Troia (Iliade, XI, v. 784), e dal re dei Lici Ippoloco al figlio Glauco (Il., XI, w. 207-208). E in quel mondo, in quel contesto culturale, essere “il migliore e il più bravo” significava essere, in primo luogo, il più forte.
Nel mondo omerico, valori come collaborazione e giustizia non avevano ancora fatto la loro comparsa. Le virtù necessarie per godere della considerazione sociale erano dunque quelle che consentivano di vincere - per non dire di sopraffare con la forza fisica e il coraggio - in guerra. Ma non solo. Per affermarsi nella vita comunitaria, l'agathos doveva convincere i concittadini ad accettare le sue proposte, imporre le sue opinioni nelle assemblee: doveva essere anche “buon parlatore”. Erano queste le qualità culturalmente valutate e socialmente premiate nel mondo omerico: la capacità di imporsi con la forza fisica, con il coraggio, con la parola. Solo chi le possedeva poteva comportarsi secondo i canoni eroici, che in primo luogo imponevano di non tollerare le offese. In quel mondo, a ogni atto offensivo si doveva rispondere con la vendetta, una necessità a cui non si sfuggiva, fondamento dell’equilibrio sociale tra i gruppi familiari. L’ottica nella quale la società eroica percepiva la necessità della vendetta era quella dell’onore.
Questo era il compito dei poeti, oltre alla funzione non meno importante di trasmettere la memoria dei modi in cui si svolgevano gli atti e i riti della vita sociale come le assemblee, i sacrifici agli dèi e i matrimoni. Ed era per questo che, nel raccontare le storie, proponevano all’uditorio modelli di comportamento sia positivi sia negativi: tra i personaggi da ammirare - e nei limiti del possibile imitare - in primo luogo Achille, il migliore degli achei, e poi Agamennone, Menelao, Aiace, Ulisse e via dicendo. In campo femminile, inutile a dirsi, mogli come Penelope e fanciulle come Nausicaa, la perfetta ragazza da marito. Sull’altro versante, quello dei personaggi da disprezzare e deridere: gli uomini del popolo che, come Tersite, invece di obbedire a chi occupava una posizione sociale più alta - come sarebbe stato loro dovere - si permettevano di contraddire i nobili, urlando con voce ineducata e sgradevole. E anche Paride, nobile di nascita, bello, bellissimo: ma gli mancava il coraggio. A nulla serviva la bellezza a chi, come lui, era vile in guerra e vanesio (“bellimbusto,” lo apostrofa un giorno il fratello Ettore, il modello dell’eroe in campo troiano). Quanto alle donne da disprezzare, il posto d’onore spettava a Clitennestra, sul cui poco encomiabile comportamento ci soffermeremo tra breve: attenzione, ammoniva la storia di Clitennestra, una donna adultera può facilmente essere anche un’assassina.
Questa, la fondamentale funzione sociale della poesia, in quei secoli, dalla quale discende (al di là dell’insuperabile valore letterario) quella di insostituibile documento storico.

Classi e lotta di classe. Movimento politico e movimento sociale (Karl Marx)

Un certificato di appartenenza al sindacato dei fonditori di Inghilterra, Irlanda e Galles, formato nel 1809

L’Inghilterra, dove l’industria ha raggiunto il massimo grado di sviluppo, ha le coalizioni operaie più numerose e organizzate. In Inghilterra non ci si è fermati a coalizioni parziali, di quelle che perseguono solo lo scopo di un effimero sciopero e scompaiono con esso. Si sono formate delle coalizioni permanenti, delle trades-unions che servono agli operai da baluardo nelle loro lotte con gli imprenditori. Ed attualmente tutte queste trades-unions locali fanno capo alla National Association of United Trades, il cui comitato centrale risiede a Londra e che conta già ben 80.000 iscritti. La formazione di questi scioperi, coalizioni, trades-unions è andata di pari passo con le lotte politiche degli operai che costituiscono adesso un grande partito politico sotto il nome di Chartistes.
È sempre sotto la forma delle coalizioni che sorgono i primi tentativi dei lavoratori per associarsi tra di loro. La grande industria agglomera in un sol luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide per contrasto di interessi. Ma la conservazione del salario, questo comune interesse che esse hanno contro il padrone, le riunisce in uno stesso proposito di resistenza - coalizione. Così, la coalizione ha sempre un duplice fine: far cessare la concorrenza tra gli operai per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Essendo lo scopo originario della resistenza quello della conservazione dei salari, man mano che i capitalisti si riuniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, prima isolate, si raggruppano e, nel confronto col capitale sempre unito, la conservazione dell’associazione diventa più necessaria di quella del salario. E ciò è tanto vero che gli economisti inglesi esprimono grande meraviglia nel vedere gli operai che sacrificano una buona parte del salario in favore di quelle associazioni che agli occhi di essi economisti sono sorte solo in difesa del salario. In questa lotta - autentica guerra civile - si fondono e si sviluppano tutti gli elementi necessari ad una battaglia che verrà. Una volta giunta a questo punto, l’associazione assume un carattere politico.
Le condizioni economiche avevano trasformato dapprima la massa in lavoratori. Il dominio del capitale le ha creato una situazione comune, degli interessi comuni. Ed ora questa massa è già divenuta una classe di fronte al capitale, ma non ancora per se stessa. Nel corso della lotta, di cui abbiamo segnalato solo qualche fase, questa massa si riunisce e si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta fra classi è lotta politica.
Nella borghesia, dobbiamo distinguere due fasi: quella durante la quale si costituì in classe sotto il regime della feudalità e della monarchia assoluta, e quella in cui essa, già costituita in classe, rovesciò la feudalità e la monarchia per trasformare la società in una società borghese. La prima, di queste fasi fu la più lunga e quella in cui occorsero i maggiori sforzi. Anche la borghesia aveva cominciato con delle coalizioni parziali contro i signori feudali.
Si sono fatte molte ricerche per tracciare le diverse fasi storiche percorse dalla borghesia, dal comune fino alla sua costituzione come classe. Ma quando si tratta di rendersi esattamente conto degli scioperi, delle coalizioni, e di tutte le. altre forme con le quali i proletari vanno compiendo, davanti ai nostri occhi, la loro organizzazione in classe, gli uni sono presi da un reale timore, gli altri esibiscono un disprezzo trascendentale.
Una classe oppressa è la condizione indispensabile di ogni società fondata sull’antagonismo classista. L’affrancamento della classe oppressa indica perciò necessariamente la creazione di una società nuova. Perché la classe oppressa, possa affrancarsi è necessario che i poteri produttivi già acquisiti, ed i rapporti sociali già esistenti non possano più coesistere. Di tutti gli strumenti di produzione, il potere produttivo più grande è proprio la classe rivoluzionaria. L’organizzazione degli elementi rivoluzionari come classe suppone l’esistenza delle forze produttive che potevano generarsi in seno alla vecchia società.
Ciò significa che dopo la caduta della vecchia società ci sarà una nuova dominazione di classe, che si concreterà in un nuovo potere politico? No.
La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi, così come la condizione e l’affrancamento del terzo stato, dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gli ordini.
La classe lavoratrice, nel corso del suo sviluppo, sostituirà all’antica società civile una forma di associazione che escluderà le classi ed il loro antagonismo e non vi sarà più potere politico propriamente detto, in quanto il potere politico è proprio la sintesi ufficiale dell’antagonismo nella società civile.
Nel frattempo, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, una lotta che, spinta alla sua espressione più alta, è una rivoluzione totale. D’altronde, c’è da meravigliarsi che una società fondata sull’opposizione delle classi, porti ad un contrasto forte, ad un corpo a corpo finale?
Non dite che il movimento sociale esclude il movimento politico. Un movimento politico che non sia al tempo stesso sociale, non esiste.

Da Miseria della filosofia, Paperbacks marxisti Newton Compton – trad. Enzo Agozzino

“Guerra e pace”, anatomia di un capolavoro (Cesare G. De Michelis)

Ritratto dello scrittore da vecchio

Nel 1862 Stepan Sevyrev e Giuseppe Rubini presentavano al pubblico italiano Lev Tolstoj con queste parole: "Per una certa grazia nello stile narrativo, per vivacità e fecondità non prolissa si distingue il conte Leone Tolstoj". L'anno dopo egli cominciò la stesura del romanzo che conosciamo come Guerra e pace: annunciato molto tempestivamente in Italia sulla “Rivista contemporanea nazionale italiana” di Angelo De Gubernatis (1869) con l'articolo Il conte Leone Tolstoj e il suo romanzo "La pace e la guerra", apparve assai più tardi (dopo Anna Karenina, nel 1891) sulla scia della moda europea inaugurata da Le roman russe di Eugène-Melchior de Vogue (1886). Erano gli anni in cui la fama di Tolstoj-romanziere veniva offuscata da quella di Tolstoj-predicatore sociale e religioso, ottimamente ricostruita da Antonella Salomoni (Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia. 1886-1910, ed. Olschki), così sintetizzata da Giovanni Pascoli: "Ed e' vestì la veste rossa e i crudi/ calzari mise, e la natal sua casa/ lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli,/ e per la steppa il vecchio ossuto e grande/ sparì" (1911). Ma altre traduzioni si susseguirono a breve distanza (di E.W. Foulques, Napoli 1904, di E. Serao, Napoli 1906, di F. Verdinois, Milano 1915), sicché anche in Italia il nome di Tolstoj rimase legato soprattutto a Guerra e pace.
Alla fine della Grande guerra il romanzo fu tra l' altro presentato in un compendio antologico compilato da Giuseppe Prezzolini sulla base della versione di Verdinois. La "prima versione integrale e fedele" apparve solo dieci anni dopo, nel 1928, e fu condotta da Enrichetta Carafa Capecelatro, duchessa d' Andria, per la "Slavia" di Torino diretta da Alfredo Polledro: tale versione fu poi rivista nel 1941 (altro anno di guerra, e questa volta contro la Russia!) da Leone Ginzburg che si trovava al confino per ragioni politiche, e quando Einaudi la pubblicò fu bollata da “Il popolo d' Italia” di "giudaica scrupolosità da forastiero". Adesso viene riproposta in un tascabile (L. Tolstoj, Guerra e pace, 2 volumi, Einaudi, pagg. 1445) che affianca alla breve, densa "Prefazione" di Ginzburg (1942) una "Introduzione" di Pier Cesare Bori. È un' edizione pressoché esemplare (giusto la traslitterazione non è stata uniformata ai criteri moderni); in particolare, l'ampio saggio introduttivo (pagg. XI-LVIII) rappresenta a mio avviso quanto di meglio sia stato scritto in Italia sul romanzo.
Bori non è slavista di professione (insegna filosofia morale), ma da anni lavora con competenza professionale su Tolstoj facendosi interprete delle sue dottrine etico-religiose, come testimonia il volume L'altro Tolstoj (il Mulino, pagg.166) che si richiama in qualche modo all'ultimo libro d'un altro "non addetto ai lavori", il grande storico e filologo russo recentemente scomparso Jakov Lurje (Dopo Leone Tolstoj -, S. Peterburg 1993), dedicato alla concezione tolstojana della storia. L'idea avanzata da Bori in quella sede, che "l'elemento letterario e quello teorico siano profondamente intrecciati, in Tolstoj, prima e dopo il 1880", trova nell'"Introduzione a Guerra e pace" il terreno ideale di verifica e conferma. Egli articola il saggio in quattro punti: storia della composizione del romanzo, analisi delle sue fonti, storia dell'interpretazione, riflessione sulla guerra e sulla pace, e lo conclude con una commossa ricostruzione dell'edizione di Ginzburg basata sui materiali dell'Archivio Einaudi: "Colui che aveva proposto una lettura antieroica di Guerra e pace morì come sappiamo", lasciando parole intrecciate "tra sentire domestico e qualcos'altro, che è difficile non chiamare eroismo".
Tolstoj cominciò a pensare a un vasto romanzo storico dopo la guerra di Crimea, nel 1856, quando i decabristi (promotori della rivolta del dicembre 1825) tornarono dalla deportazione, e ne scrisse tre capitoli, I decabristi, appunto. Il protagonista doveva essere uno di loro, sicché "dal presente passò senza volerlo al 1825. Ma nel 1825 il suo eroe era un uomo già fatto (...), per capirlo doveva trasportarsi all'epoca della sua giovinezza, e quest'epoca coincideva con quella gloriosa per la Russia (nella campagna contro Napoleone) del 1812". Per far questo bisognava risalire ancora indietro, alla generazione che aveva "fatto" il 1812, sicché il romanzo prese inizio dal 1805, e anziché un romanzo sul "decabrista di ritorno" si ebbe dapprima Tutto è bene quel che finisce bene (in questa redazione Andrej e Petja non morivano e lo scioglimento contemplava un duplice matrimonio) e poi Guerra e pace. Queste trasformazioni implicano un discorso di merito così riassumibile: "Tolstoj voleva scrivere un romanzo nobiliare e voleva compensare la coscienza dei suoi contemporanei per la sconfitta di Crimea" (Sklovskij); solo che "il primitivo antistoricismo" (della "cronaca familiare") fu sostituito da "un nuovo genere che risultava dalla combinazione di "azione romanzesca, materiale storico e discorso filosofico" (Ejchenbaum). Guerra e pace risulta così come "una lingua compenetrata in un' altra lingua, come se, per esempio, il vocabolario fosse romanzo ma la grammatica slava o germanica" (Sklovskij).
La discussione aperta dai formalisti e proseguita dalla Zajdensnur (che rivendica l' unità poetica del romanzo) implica quella sull'uso delle "fonti" extraletterarie, introducendo nel vivo della "fattura" del testo e sfociando nella questione "della pertinenza e dell'attendibilità delle sezioni teoriche". Quanto ai realia extraletterari, due episodi valgono meglio di lunghe disquisizioni a intendere la complessità del "laboratorio" tolstojano. Alessandro d' Ancona narra che, quando si convinse d'aver identificato in Scipione Piattoli "l'italiano autore di un disegno politico di pace universale" che s'incontra all'inizio del romanzo col nome di abate Morio, si rivolse a Tolstoj per una conferma: "Ma o la lettera andò perduta, o lo strano autore, nella sua nuova metamorfosi, era allora tutto assorto a guidare bovi o a cucirsi le scarpe. Il fatto è che non ebbe nessuna risposta".
Il romanziere russo s'era forse infastidito che l'erudito italiano fosse entrato nella sua "cucina"? Quando anni prima (1865) la principessa V. gli aveva chiesto chi fosse nella realtà il principe Andrej, le aveva risposto: "Andrej Bolkonskij non è nessuno, come ogni personaggio d'un romanziere, e non ha niente a che vedere con le conoscenze e i ricordi dello scrittore. Mi sarei vergognato di venir pubblicato, se tutto il mio lavoro fosse consistito nel fare ritratti".
E tuttavia, come ricorda Bori, "alle origini del romanzo (...) v' è anzitutto una tradizione famigliare", in base alla quale "le immagini del padre e della madre confluirono in quelle di Nikolaj Rostov e della principessa Marija Bolkonskaja" (la sorella di Andrej, nel romanzo), come il padre di Andrej deriva dalla figura di uno zio di Tolstoj per parte di madre, Sonja rispecchia il carattere d'una lontana parente governante a Jasnaja Poljana, e Natasa Rostova, la splendida Natasa che alla fine sposa Pierre Bezuchov, "proviene in parte dalla moglie”.

“la Repubblica”, 28 marzo 1999

Fase anale. Una poesia umoristica di Attilio Mangano


Com’era bello farla sul vasino
seduto come su un trono regale
complimentato per il mio odorino
da una cameriera un po’ speciale,

scatologica forse, benevolente,
che mi lasciava a lungo fino a quando
non finiva il lavoro suo più urgente
e puliva il mio culo canzonando.

Non so se si trattò di fase anale
Ma la soddisfazione era speciale.

dal sito "Poesia e Multipoesia"

Leopardi “in esilio” a Roma (Francesca Giuliani)


L'unico aneddoto vagamente ilare sui giorni romani di Giacomo Leopardi riguarda un funerale, quello sontuosissimo di Antonio Canova, nella chiesa dei Santi Apostoli, dove un tale abate Missirini tenne un' orazione che il poeta, la stessa sera, al cospetto di altri commensali, giudicò "di nessun valore". "Gaffe" irreparabile giacché l'abate medesimo era presente a quella cena ma senza essere stato introdotto al resto della tavolata dal padrone di casa, Angelo Mai. In un battibaleno la faccenda fa il giro di "tutta Roma letterata" e Giacomo stesso, che col suo giudizio perentorio si era conquistato l'approvazione dei presenti, la racconta divertito al padre Monaldo in una delle quasi ottanta lettere scritte nei giorni in cui soggiornava nella casa degli zii Antici, nelle sale del palazzo di via Caetani, quello col cortile disegnato da Carlo Maderno. È il febbraio del 1823, primo soggiorno del poeta a Roma.
Questa "bagattella" è, a guardar bene, la sola nota appena spensierata di quei mesi, del primo - e per la critica, il più importante - dei tre viaggi che fece nella capitale, per "sgabbiarsi" da Recanati. Ma Leopardi è "diverso", lo sa e lo dice per primo lui, di se stesso: è "diverso" nel vedere cose di cui altri non s'accorgono, nell'ignorare quel che gli altri ricercano. A Roma, poco più che ventenne imbevuto di studi classici, ma già autore di alcune tra le sue poesie più conosciute, si aggira spossato fra le rovine che incantano i viaggiatori del suo tempo in quella stagione centrale del grand tour in cui Roma è soprattutto un luogo letterario. Leopardi è orripilato dai salotti che contano, disgustato in mezzo a prelati e potenti, schifato dalle manfrine delle ragazze che incontra nelle case altolocate.
Ora, al poeta di Recanati, nella ricorrenza del bicentenario della nascita, Roma dedica una buona messe di manifestazioni, "Roma per Leopardi", coordinate dall'assessorato alle Politiche culturali. […] Occasione imperdibile dunque per cedere alle "rimembranze" di cui davvero nessuno meglio di Leopardi stesso è fonte: la ricorrenza offre spunto per ripercorrere le storie romane del poeta, studiate approfonditamente da generazioni di critici, l'ultima volta nel convegno Leopardi e Roma, organizzato dalla Sapienza nell'88. Da qualche settimana, al lavoro su questo specifico aspetto documentario è un gruppo di giovani ricercatori, coordinati da Luigi Trenti, che sta preparando una mostra per le sale - adattissime - del Museo Napoleonico, ad aprile. Lettere in mostra, e che lettere: Leopardi arriva a Roma e subito, dal 23 novembre 1822, comincia a scrivere. Scrive, scrive, scrive al padre Monaldo, al fratello Carlo, alla madre Adelaide di cui soltanto qui, in tutta la sua vita, ha nostalgia. Da Recanati, Giacomo porta la propria esistenza, in una stagione in cui non ha neanche la poesia a dargli quella "felicità provata nel momento del comporre". Arriva e si sistema cercando un modo per liberarsi del famoso "natio borgo selvaggio": è tutt'altro tormento, l'opposto stato d'animo dai letterati stranieri in pellegrinaggio in città, tra cui Goethe, Shelley, Chateaubriand, tutti sedotti dall'estetica delle rovine, sospiranti ai chiari di luna, di fronte al Colosseo, alla tomba di Cecilia Metella, ai Caravaggio e ai Michelangelo. Ma Leopardi è diverso: il suo è il rifiuto della interpretazione letteraria del mito classico della scena, della storia di cui Roma è teatro e barocchissima scenografia. Scrive: "Andato a Roma, la necessità di convivere con gli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente". E la vertigine più dolorosa la prova immerso nello spazio urbano: dopo aver visto piazza san Pietro, definisce la città "spazio gettato tra gli uomini", un luogo dove le distanze abissali lo infiacchiscono. Scrive: "Delle grandi cose ch'io vedo non provo il menomo piacere perché conosco che sono meravigliose ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno". Come se non bastasse, anche la vita dagli Antici ("persone vacue, ciarliere") gli è insopportabile: trova i suoi parenti frivoli, confusi, chiassosi e giudica la loro casa mal riscaldata tanto da procurargli i geloni che lo terranno a letto per duecento ore di sofferenza contate e, naturalmente, messe per scritto. Anche lo zio protesta perché Giacomo non sa tener conversazione, è noioso, maldisposto. Eppure - è documentato - la società letteraria romana non mancherà di apprezzarlo. Tra le sue poche consolazioni, la festa del Carnevale dopo il Capodanno romano, le serate a teatro, in particolare al vicino teatro Argentina di cui racconta al fratello e a Monaldo, "una cosa stupenda". E c'è una visita memorabile, quella al sepolcro del Tasso, vicina ai giorni in cui cataloga i codici greci della Biblioteca Barberina. A Carlo Leopardi, scrive: "Questo è il primo e l'unico piacere provato in Roma", apprezza "l' umiltà di quella sepoltura" confrontata ai "superbissimi mausolei" che sono dovunque e che fanno dimenticare le persone a cui sono intitolati. Unica, momentanea consolazione in una città che deprime la fantasia, la libertà, la capacità di rivelare sé stessi. Scrive, nel 1831: "Io considero la mia dimora in Roma un esilio. Non miro che al ritorno".

“la Repubblica”, 19 gennaio 1998

28.5.18

I santi nell'armadio. Il cattolicesimo sociale dell'Ottocento secondo Sergio Quinzio (Filippo Gentiloni)

San Giuseppe Cafasso tra i carcerati

Hanno avuto coraggio le edizioni del Gruppo Abele a confrontarsi con un tema particolarmente scottante, dato il loro impegno, i grandi santi «sociali» del Piemonte ottocentesco.
Torino è ancora piena del ricordo — soprattutto delle grandi opere — di don Bosco, del Cafasso, del Cottolengo. Oggi si va riempiendo, invece, delle opere e dei giorni di gruppi del tipo del gruppo Abele, ormai padre di molti figli. È passato poco più di un secolo, ma sembra un millennio. Il confronto, d’altronde, è inevitabile: meglio affrontarlo senza reticenze.
Allora si diceva «carità», oggi «condivisione»: è o non è la stessa cosa? Ieri analfabeti, storpi, i mostri del Cottolengo, i condannati a morte del Cafasso; oggi drogati, spastici, alcolisti: è la stessa cosa? Diversi rivestimenti di un’identica miseria e di un identico cristianesimo? La società produce nei diversi secoli forme quasi identiche di emarginazione, per la «gioia», si potrebbe dire con sarcasmo, delle «anime belle» che vi trovano palestre per i loro «esercizi» di pietà?
Solo una mano leggera come quella di Sergio Quinzio poteva affrontare il confronto (Domande sulla santità. Don Bosco, Cafasso, Cottolengo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986). Una mano che dubita, interroga, lascia in sospeso. Che parla soltanto di storia; il confronto con l’oggi resta implicito, lo farà il lettore. Ma lo farà inevitabilmente e inesorabilmente. E, pur con molte attenuanti, il giudizio sarà duro per il cattolicesimo sociale del passato. Tanto più duro quanto più non soltanto cortese, ma anche accorato. Quinzio ricorda la sua giovinezza fra i salesiani, ma molti di noi ritrovano nei tratti dei santi sociali qualche cosa di una infanzia insieme vicina e lontana. Panni, sporchi o puliti, ma comunque di famiglia: non soltanto il gruppo Abele, ma tutto il cattolicesimo italiano deve rivisitarli. Con coraggio ma anche con affetto, proprio come fa Quinzio.
Quante contraddizioni! Le loro «opere» parlano ancora: basti pensare al lavoro dei salesiani in tutto il mondo o al Cottolengo di Torino (vi si sta spegnendo, fra gli altri poveri, il cardinale Pellegrino, il più grande fra i vescovi «conciliari» italiani). Un po’ meno gloriose le opere del «santo della forca», il Cafasso, eppure fra i tre il Cafasso regge meglio degli altri il confronto con l’oggi. Ma dalle pagine del libro le loro figure escono piuttosto deboli, esili, non grandiose né eroiche.
Ma ad essere debole era soprattutto il Piemonte dell’800: legato ad una monarchia piuttosto provinciale, ad una cultura chiusa, estraneo ai venti che dall’illuminismo in poi avevano cominciato a «criticare». Il Piemonte baluardo della Controriforma, affinché dalle valli valdesi e da Ginevra l’aria dell’Europa «moderna» non scendesse verso il Po. «Don Bosco dà giudizi tanto perentori quanto ingiusti (sulla base delle polemiche accuse controriformistiche, soprattutto ricalcando S. Alfonso de’ Liguori) su Lutero e Calvino, presentati come viziosi, impudichi, dissoluti, corrotti... Nella sua Storia ecclesiastica scrive, ad esempio, che Lutero morì ’’vomitando orribili bestemmie”» (pag. 33). Nell’opinione dei santi sociali, i protestanti stanno insieme con gli atei, i politeisti, i musulmani...
Si legge, con un certo raccapriccio la lettera di don Bosco all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe perché si muova a ristabilire il potere temporale del papa (pag. 47): altro che Santa Alleanza!
Cafasso consola, sì, con eroica bontà, i condannati a morte, ma «a quel che risulta non ha mai trovato qualcosa da ridire contro una legge così dura, e che usava ben altro metro per misurare le colpe dei nobili, dei ricchi e dello stesso clero sottratto alla giurisdizione ordinaria e sottoposto al benevolo foro ecclesiastico» (pag. 44). «L’universo mentale — commenta mestamente Quinzio — restava quello di Joseph de Maistre, ambasciatore di casa Savoia in Russia» (pag. 45). Eppure, è sempre Quinzio a osservarlo, non era mancata nella storia del cattolicesimo e della stessa Controriforma un’altra tradizione di santi, sociali anch’essi, ma di diverso livello culturale (San Camillo de Lellis, all’inizio del ’600; San Vincenzo de’ Paoli, San Giovanni Battista de La Salle, ecc.). Era stato «San Vincenzo de’ Paoli, sul letto di morte, a insegnare a una sua novizia il dovere di farsi anzitutto perdonare dal povero o dal malato al quale si porge un piatto di minestra, perché il gesto implica fatalmente l’umiliazione di chi lo riceve» (pag. 24).
Quinzio sa bene che i santi sociali sono figli del loro tempo e del loro Piemonte, nel bene e nel male. I loro limiti non sono certamente nel campo della buona volontà, ma, caso mai, in quello culturale. E la loro grandezza? Quinzio, coerentemente con tutto il discorso cristiano che sta portando avanti da anni, la trova là dove generalmente non la si va a cercare, nei loro aspetti più negativi, o, se si preferisce, crocefissi: «La precoce e pietosa vecchiaia di don Bosco... il sentirsi dell’infelice Cafasso “una mezza creatura” e un “prete da forca”... il sorridere del Cottolengo nel considerarsi un “cavolo di Bra”; il loro modesto bagaglio culturale ed intellettuale, nel momento in cui il distruttivo irrompere del moderno nella cristianità avrebbe richiesto risposte storiche di ben altra potenza (siamo negli anni del Manifesto di Marx), li venero come segni di vera santità» (pag. 86).
Nessuna esaltazione, dunque, per i loro ben noti e anche strepitosi successi, per le loro «opere». Ma neppure, conclude Quinzio, per le aperture dialoganti di oggi. I tentativi di «puntellare» ancora una volta la declinante cristianità, compiuti con parecchia ingenuità dai santi sociali dell’800, fallirono e oggi ci paiono eroici ma anche un po’ patetici. Ma i nostri tentativi di oggi e di domani? Quinzio non risponde se non con il segno chenotico, ma tutt’altro che negativo, della croce, che «non è il nulla» (pag. 88).

"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1986

La poesia del lunedì. Vincenzo Cardarelli (1887 - 1959)

Vincenzo Cardarelli

Idillio
Per una stradetta ombreggiata
fra due muri di pietre rugginose
da cui spuntavano pampani
soleggiati,
vidi un giorno, in Liguria,
(oh incontro inatteso!)
una giovane contadina
ritta sul limite del suo vigneto.
Era la via romita,
l'ora estuosa.
Mi guardò, mi sorrise,
la villanella.
Ed io le dissi, accostandomi,
parole che udivo salire
dal sangue,
da tutto il mio essere, in lode
di sua bellezza.
Sotto il rossore del volto imperlato
dall'interrotta fatica
la bocca sua rideva luminosa.
Era scalza. Una scaglia
d'argilla dorata
rivestiva i suoi piedi usi ai diurni
lavacri della fonte.
Gli occhi, infocati e lustri,
di gioventù brillavano,
solare e profonda.
E dietro a lei, così terrosa e splendida,
l'ombre cognite e fide
della domestica vite
parevan vigilarla.
Tutto era pace intorno
e silenzio agreste.

Poesie, I Meridiani Mondadori, 1981

Il vero incubo era Collins. Per Dickens (Anna Maria Crispino)


L’autorevole Pelican Guide alla letteratura inglese colloca Wilkie Collins tra quei sette o otto vittoriani di qualche genio — «grandi» o no — cui viene riconosciuto il merito di aver dato un contributo significativo nell’ambito del romanzo. Ma Collins «grande» non fu, o almeno non tanto quanto il suo amico e patrono Charles Dickens, cui fu legato da un ventennio di viaggi ed escursioni, di visite a pub, clubs e bordelli, da progetti editoriali ed esperienze teatrali di cui furono appassionati. Una amicizia forte, che la misoginia di entrambi favori e rafforzò.
Il legame e insieme la subalternità del bravo artigiano Collins al genio del maestro Dickens furono poi sancite da T.S. Eliot in un saggio notissimo (Wilkie Collins and Dickens, in Selected Essays, London, 1934). Ci si è spesso chiesti se la fama di Collins non fosse, almeno in parte, dovuta alla sua amicizia col Maestro ed al fatto che molti dei suoi romanzi furono pubblicati a puntate proprio sulle riviste di Dickens — “Household Words” prima e in seguito “All the Year Round” su cui uscì The Woman in white (tr. it. La signora in bianco, Mondadori) a partire dal 29 novembre 1859. O se, al contrario, la grandezza indiscussa — e fino a qualche decennio fa indiscutibile — di Dickens non abbia gettato un'ombra eccessiva su uno scrittore di tutto rispetto.
Certo è che la fama di Wilkie Collins è arrivata fino a noi e per diverse buone ragioni. Innanzitutto era un narratore eccellente, uno «story-teller» di grande fascino e consumata esperienza, tanto che almeno due dei suoi romanzi si leggono ancora con grande piacere: il già citato La signora in bianco e la La pietra di luna (tr. it. da Mondadori).
Poi era un osservatore d’eccezione tanto che alcuni dei suoi personaggi sono tuttora citati tra i migliori esempi di caratterizzazione.
Queste doti sono riconoscibili anche in L’albergo stregato che gli Editori Riuniti hanno appena tradotto per i Misteri d’Autore. Pubblicato nel 1879, quando il suo periodo migliore era finito e la sua vita già diventava quella di un malato irreversibile e laudano-dipendente, questo lungo racconto è certamente un testo minore. Ma vi si scorgono alcune «innovazioni» che influenzano non poco la struttura del testo.
Se la caratteristica dei romanzi più lunghi — quelli per intenderci sulla lunghezza dei tre volumi — è quella di aver saputo abilmente introdurre il mistero nei tranquilli interni vittoriani — come ne La signora in bianco — e di inventare la figura dell’investigatore con il Sergeant Cuff in La pietra di luna, ne L’albergo stregato i termini tornano a dividersi. È vero che una misteriosa e inquietante signora, la contessa Narona, non solo ha un nome italiano ed una origine incerta come nella migliore tradizione gotica, ma si presenta anche alla porta del più vittoriano dei medici di Londra, ne viola la sacra privacy sconvolgendogli le inveterate abitudini e poi sparisce nel nulla lasciandosi dietro una scia di domande che è un irresistibile invito alla investigazione. Ma poi l’azione si sdoppia: l'Inghilterra ridiventa sicura e domestica mentre il mistero e il delitto si spostano altrove. Dove? In Italia, naturalmente, in omaggio alla buona signora Radcliffe.
La novità? Il luogo del delitto: che è prima un palazzo simile ad un maniero con stanze abbandonate, lunghi corridoi e le immancabili segrete sotterranee. Che poi si trasforma in un vero hotel, un business per turisti danarosi e di gusti approssimativi come gli americani. Qui i tasselli della soluzione devono infilarsi tra le prenotazioni di stanze e le legittime preoccupazioni del direttore. Una situazione da giallo moderno, non c'è che dire. A libro chiuso, poi, vi accorgerete anche che il narratore vittoriano, il deus ex machina è quasi sparito: il fuoco del racconto è mobile e si sposta, come una cinepresa, dal medico alla fidanzata al fratello del Lord. Ma è un trucco, e non lo si scorge che alla fine quando ci si chiede che fine abbia fatto il medico.
Niente, è rimasto al suo club.

“il manifesto”, ritaglio senza data, probabilmente 1985

27.5.18

Stati differenti d'America (Claudio Gorlier)



«L'America non è un Paese perfetto. Spesso è un Paese imbarazzante. Ma è un grande Paese, ed è molto diversa dagli altri». Così scrive nella sua conclusione di Happy Days. Questa è l'America David Brooks, grande giornalista e autorevole editorialista americano. Naturalmente, Brooks parla del suo Paese, gli Stati Uniti, per i quali si continua a usare, in nome di una inveterata semplificazione, o appropriazione, il termine America. Brooks esamina gli Stati Uniti dall'interno, e penso che in un momento di crisi a livello mondiale dell'immagine degli Stati Uniti, o addirittura di messa sotto accusa del cosiddetto impero americano, valga la pena di ascoltarlo.
Molto opportunamente, Brooks cita uno degli studiosi radicali più significativi negli Stati Uniti, Sacvan (pensate, un rimando esplicito a Sacco e Vanzetti) Bercovitch: «Solo "America", fra tutte le designazioni nazionali, assume la forza dell'escatologia e dello sciovinismo assieme». In altre parole, fin dagli inizi della storia americana si fondono il verbo idealistico - sia politico sia religioso - di una salvifica verità e la tentazione non soltanto di farlo gelosamente proprio, ma di propagarlo nel mondo. Il più rappresentativo poeta americano, Walt Whitman, dopo la fine della guerra civile sebbene turbato da una congiuntura persino cupa del suo Paese, scommetteva fiduciosamente sul futuro, dichiarando che la democrazia americana sarebbe divenuta «l'impero degli imperi, creando una nuova storia». L'ottimismo autenticamente democratico e popolare di Whitman, nella prospettiva di Brooks, conserva nonostante tutto una sua validità, senza per questo cancellarne le contraddizioni.
Brooks compie un viaggio attraverso gli Stati Uniti e, ora che essi paiono soffrire di un momento di «declinismo», ci addita le varie facce di «un Paese segmentato». Non si può lecitamente delineare un'immagine univoca del Paese, e il merito di Brooks sta nel raffigurare la molteplicità della società urbana nei suoi particolari più ordinari, o nello spingersi a Ovest nelle piccole comunità rurali. Proprio la rappresentazione della quotidianità sostanzia il libro, fino ad episodi in apparenza banali ma esemplari, come la mania di chi si imbarca su un aereo tenendo stretto fino all'ultimo il cellulare, talismano rassicurante.
Per Brooks, la scommessa americana sull'avvenire si riconduce ancora al messaggio di Withman, anche se, confessa, «abbiamo difficoltà ad adattarci alle circostanze della realtà». Ma esiste un percorso tragico nella storia degli Stati Uniti, fin dalla guerra civile e dall'assassinio del presidente Lincoln. Non è un sinistro privilegio americano, sia ben chiaro, ma scandisce momenti cruciali della sua storia. Sotto questo profilo, un contributo prezioso ci viene da Omicidi americani, una raccolta di servizi giornalistici, dovuti tutti a premi Pulitzer, curata da Simone Barillari e con una efficace prefazione di Giancarlo De Cataldo. Si inizia già nel 1924, quando alcuni rapitori uccidono un giovane mentre il facoltoso padre tenta di pagare il riscatto. Naturalmente, i due capitoli più stringenti riguardano l'uccisione del presidente Kennedy e la strage nella scuola di Columbine, «strage dell'innocenza americana», perché proprio i valori additati da Brooks vengono barbaramente strangolati. Michael Moore ne ricaverà un film culto.
L'assassinio di Kennedy rimane avvolto dal mistero, mentre la strage della Columbine tradisce una scelta insieme gratuita e sinistramente sacrificale, perverso stravolgimento di quella dimensione religiosa che Brooks sottolinea quale costante peculiarmente americana.
Come guarda l'Europa ai miti americani? Caterina Ricciardi e Sabrina Vellucci propongono una serie di penetranti contributi in Miti americani oggi, ove si indaga sull'immaginario dell'intero continente americano. Qual è il rapporto tra storia e mito, la loro ibridizzazione, «dalla sfera domestica allo spazio pubblico». Andiamo dal leggendario bandito Billy the Kid al sogno mitico dell'emigrazione, oggi più che mai al centro della società «etnica» degli Stati Uniti, fino alla necessità di pervenire a un'identità non condizionata dai miti o dalle imposizioni della cultura dominante. Suggerirei di affiancare questo ricco volume a Identità americane: corpo e nazione, un'altra raccolta di saggi a cura di Camilla Cattarulla. L'originale prospettiva di questo volume si incentra su un'indagine figurativa che, partendo dall'esame di dipinti, fotografie d'arte, album di famiglia, mette a fuoco «il corpo fisico quale metafora di una nazione». Questo immaginario visivo rimanda alla cultura, alla società, alla molteplicità etnica, dagli indiani agli afroamericani.
Diamo spazio ai viaggiatori, ai moderni esploratori europei degli Stati Uniti. Penso a due libri per molti versi paradigmatici: Viaggio al termine degli Stati Uniti, di Flavio Baroncelh, e Diario americano di Giulio Sapelli. Entrambi i volumi, piacevolmente leggibili, rivelano da un lato la preziosa disposizione a leggere, direi a conquistare, la realtà americana, dall'altro, nel caso di Baroncelli, a distanziarla. Sapelli apprezza giustamente la visibilità del sistema americano, fino magari alla corruzione o al cattivo governo, in contrasto con la «patologia invisibile del sistema» peculiare dell'Europa. Il sottotitolo del libro di Baroncelli si indirizza al perché «gli americani votano Bush e se ne vantano». Domanda ambiziosa e provocatoria cui ho trovato, francamente, una risposta, più umorale che politica, ma ho apprezzato la rappresentazione diretta, immediata, deliberatamente partigiana, di quel Paese segmentato, limpidamente raccontato da Brooks. Non esiste una sola chiave per capire gli Stati Uniti - scusate l'America.

“Tuttolibri – La Stampa”, 26 agosto 2006

9 settimane e mezzo in stile Belle Epoque. Umberto Boccioni e Vittoria Colonna, un amore breve e segreto (Chiara Beria Di Argentine)

Vittoria Colonna a un ballo di beneficenza (1898

La più appassionata lettera di un amour fou rimasto segreto per quasi un secolo è datata 7 agosto 1916. Soldato di stanza a Verona nel 29° Artiglieria di campagna, il pittore futurista Umberto Boccioni scrive alla principessa romana Vittoria Colonna di Sermoneta, moglie di Leone Caetani principe di Teano, in vacanza sul Lago Maggiore nella suggestiva quiete dell’Isolino di San Giovanni, la più piccola delle Borromee: «Quello che c’è tra noi è una profonda realtà, è nato come realtà. Per quanto poco prima ci siamo conosciuti poi simpatizzato, poi... poi c’è il nostro segreto quel meraviglioso crescendo che ci ha condotto di castità in castità alla nostra casta voluttà! Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore, il tuo smarrimento, il mio terrore la nostra infinita comunione di corpo e di spirito. Divina Mia, lo sento che mi vuoi bene, un po’ di bene, un po’ più di quando me lo misuravi con il ditino... Rammenti? Come sono tuo! Come ti sono fratello e amico, come ti ammiro, sempre, ad ogni respiro, sempre! Sempre!».
Amore e morte. È la storia di una passione bruciata dal destino in poche settimane: Boccioni, ospite nella villa sul lago dei marchesi Casanova per ritrarre il maestro Ferruccio Busoni, aveva incontrato la principessa il 6 giugno. «Un intervallo luminoso» (scriverà lei); un sogno impossibile consumato tra pergolati di rose e soffici «cuscini futuristi» nel fascino segreto e assai passatista dell’Isolino che i Borromeo affittavano ai Caetani per 5 mila lire l’anno. Rifugio anche estetico, lontano dallo sfarzo barocco dei palazzi romani per Vittoria, 35 anni, dama di bellezza e gran stirpe, dalle eccelse frequentazioni mondane nella Belle Epoque (corteggiata da Edoardo VII e dal giovane Winston Churchill, sommersa da casse di orchidee inviate dall’Aga Khan), con solo il Veronal per placare i fantasmi di una «vita scucita ed errante» con un matrimonio alla deriva e un unico figlio malato.
Boccioni soldato nel 1916 a Verona
Sensuale, magnetico, geniale e spiantato, Boccioni a 33 anni è un interventista deluso (nel 1915 con altri futuristi si era arruolato nel Battaglione lombardo dei Volontari ciclisti), un artista in tormentata ricerca di un linguaggio nuovo: «Vi ho incontrato in un momento di crisi nei metodi, negli amici, in tutto!». S’innamorano, Vittoria e Umberto, in quell’estate di guerra che decimava nel fango e nel sangue un’intera generazione. «Spenta la speranza immediata di un mondo sfavillante, ottimista e tecnologicamente avanzato (il grande sogno dei futuristi), non restava che il presente, con la sua fragile e complessa umanità», scrive Marella Caracciolo Chia in Una parentesi luminosa (dal 7 maggio in libreria per Adelphi), l’affascinante storia dell’amore segreto fra Umberto Boccioni e Vittoria Colonna in un mirabile affresco, per cura e ricerca anche di profumi e dettagli, di un’epoca di perduta memoria e fascino.
Inizialmente Marella Caracciolo era stata incuriosita dalla parabola di Leone Caetani, l’aristocratico d’immensa fortuna (il feudo di famiglia s’estendeva per migliaia di ettari nella Pianura Pontina), stimato accademico dei Lincei (gli Annali dell’Islam, l’opera più apprezzata), politico riformista (nel 1911, in Parlamento, si era battuto contro l’annessione della Libia) che nel 1921 avrebbe lasciato tutto per rifugiarsi a Vernon (Canada occidentale) con una giovane donna e la loro bambina: per anni aveva invano cercato in molti archivi e fino in Canada le lettere tra il principe orientalista e Vittoria. Nell’autunno 2006, la scoperta. Prospero Colonna, nipote di un cugino della principessa, parla a Marella di un baule di lettere di Vittoria che ha da poco ritrovato e mandato alla Fondazione Cateani, in via delle Botteghe Oscure. «Sembra incredibile. Quello che avevo tanto cercato era in un palazzo nel cuore di Roma», dice l’autrice di Una parentesi luminosa, che tra migliaia di lettere scritte da Vittoria al marito in vent’anni di matrimonio (divise per anno, legate da un nastro color pervinca), inviti a feste e balli, ritrova il carteggio, 19 lettere, tra la principessa e l’artista.
Nel plico, legato da un pezzo di corda, ci sono anche foto della principessa all’Isolino e del pittore nel suo studio, un pezzo di stoffa, un ritaglio di giornale. Molto più che una semplice trama d’amore. A Vittoria il pittore descrive i contadini mandati in trincea, l’ignoranza dei sergenti, il rimpianto per quei giorni sul lago («Vedo i lumi di Stresa, il Mottarone e le isole addormentate. Vedo verde e azzurro! Sono i colori della mia pittura»). Intimità, illusioni. Il 17 agosto 1916, Umberto Boccioni muore per una banale caduta da cavallo; nel suo portafoglio l’ultima lettera, datata 6-7 agosto, dell’amante.
Mentre Leone è al fronte, la principessa, sfidando ogni convenienza, ha ospitato per una settimana Boccioni all’Isolino. Ora teme uno scandalo. Racconta all’artista che una cartolina «troppo buffa» speditale da Giacomo Balla (Boccioni l’aveva conosciuto a Roma, all’inizio del secolo) era stata intercettata dalla suocera, Ada Caetani, già sospettosa di una nuora che giudicava «terribilmente fast», di facili costumi, incapace di dare un erede sano (nel 1901 le nozze tra Leone e Vittoria avevano segnato la pace dopo 400 anni tra i due potenti casati). Poi, solo silenzio. Gli ultimi giorni di Boccioni sono segnati dal tormento. «Non ho neanche la forza di stare a cavallo... In che cosa ho mancato?», le chiede l’artista. «Anima a balzi», dirà di lui Filippo Tommaso Marinetti. «Sensibilità vulcanica. Piena inondante di un fiume geniale». Anni prima Umberto Boccioni aveva scritto: «Io credo all’amore come un’idea assoluta che si integra con il salto nell’infinito...».
Quel 17 agosto, ancora ignara della tragedia e della posta mai arrivata al «soldato lontano», la principessa Colonna lo rassicura dei suoi sentimenti; spedisce personalmente la lettera invece di affidarla al precettore di casa Cateani. Troppo tardi. «Sulla busta che ancora la contiene troviamo le parole "Arrivata dopo la sua morte"», scrive Marella Caracciolo. Il 19 agosto, Vittoria Colonna legge sul giornale la notizia della morte; va a Milano e riempie lo studio di Boccioni, a porta Romana, di fiori dell’amato Isolino. È un amico di Boccioni a recuperare le sue lettere. Vittoria Colonna muore nel 1954; a un cugino fidato lascia un baule chiuso a chiave con la disposizione di non aprirlo prima di 50 anni.
Amore romantico, amore mai svelato; unico indizio, dei fiori. Moglie di un artista di fama, Sandro Chia, Marella Caracciolo di Castagneto scrive: «Nelle mostre e nei cataloghi postumi dedicati a Umberto Boccioni troviamo spesso delle foto del suo studio milanese. Sono state scattate dopo la sua morte. Nelle stanze, bianche e luminose, notiamo la presenza di fiori secchi appoggiati qua e là sui tavoli, sui cavalletti e sulle ultime sculture in gesso, molte delle quali sono andate perdute. Oggi sappiamo che quei fiori provenivano dall’Isolino. Che li aveva portati Vittoria in un ultimo gesto di tenerezza per il suo giovane amante».

L'enigma di Lawrence (Henry Miller)

All'inizio del 2007 “la Repubblica” pubblicò come “anticipazione” da un volume di inedite riflessioni su letteratura, pittura, cinema e politica (Il giudizio del cuore, Christian Marinotti, 2007) un brano del libro di Henry Miller sul mondo di David Herbert Lawrence, risalente al 1941. Lo riprendo qui come “post”. (S.L.L.)

Per avvicinarsi al mondo di Lawrence occorre avere bene a mente due cose: primo, la natura del suo temperamento individuale e, secondo, la relazione tra un tale temperamento e i suoi tempi. Poiché Lawrence è stato singolarmente unico e allo stesso tempo una figura rappresentativa della nostra epoca. Emerge tra le costellazioni come una minuscola stellina scintillante; luccica più splendente mano a mano che comprendiamo la nostra epoca. Se non fosse stato così perfettamente il riflesso del suo tempo, sarebbe stato già dimenticato. Così, la sua importanza aumenta con il tempo. Non che diventi più grande o che si avvicini alla terra.
No, rimane dov'era all'inizio: rimane come un esile puntino sopra l'orizzonte, come una stella della sera, ma quando sopraggiunge la notte - perché è proprio la notte ciò che ci viene addosso con sempre maggior forza - diventa più brillante. Lo capiamo meglio quanto più avanziamo nella notte.
Ho sparsi davanti a me gli appunti dai quali nascerà questo libro su Lawrence. Sono un mucchio enorme, sconcertante. Alcuni di essi non li capisco più nemmeno io. Altri li vedo già sotto una nuova luce. Gli appunti sono pieni di contraddizioni. Lawrence era pieno di contraddizioni. La vita stessa è piena di contraddizioni. Non voglio imporre nessun ordine più alto sull'uomo, sul suo lavoro, sul suo pensiero di quanto non lo imponga la vita. Non voglio stare fuori dalla vita, giudicandola, ma dentro di essa, sottomettendomi a essa, riverendola.
Parlo di contraddizioni. E immediatamente mi sento obbligato a contraddire quello che dico. Per esempio, voglio che sia chiaro dal principio che un uomo come Lawrence aveva ragione, aveva ragione in tutto quello che diceva, in tutto quello che faceva, anche quando ciò che diceva o faceva era ovviamente sbagliato, ovviamente stupido, ovviamente prevenuto o ingiusto. (Fa del suo meglio per provare quello che dico in opere quali i suoi studi su Poe e su Melville). Lawrence era contro il mondo come esso è. Il mondo è sbagliato, è stato sempre sbagliato e lo sarà sempre. In questo senso Lawrence aveva ragione, ha ancora ragione e l'avrà sempre. Ogni essere sensibile, consapevole del proprio potere, del proprio diritto, sente questa opposizione. Il mondo, comunque, c'è e non sarà negato. Il mondo dice NO. Il mondo scuote eternamente il capo per dire NO.
La figura più importante dell'intero mondo occidentale è stata per duemila anni l'uomo che era la quintessenza della contraddittorietà: Cristo. Era una contraddizione per sé e per il mondo. E tuttavia, coloro che erano contro di lui, o contro il mondo, o contro se stessi, hanno compreso. E compreso da tutti, ovunque, anche se rifiutato. E forse perché è stato una contraddizione? Non rispondiamo immediatamente. Teniamo questa domanda in sospeso. Qui, toccando questo punto, siamo molto vicini a qualcosa che ci riguarda tutti profondamente. Ci avviciniamo quasi all'enigma da dietro. Riflettiamo un istante con calma. Ci fu Cristo, la figura splendida e luminosa che ha dominato tutta la nostra storia. Ci fu anche un altro uomo - San Francesco d' Assisi. Fu secondo a Cristo in ogni senso. Fece una tremenda impressione al mondo - forse perché, come i Bodhisattva che hanno rinunciato al Nirvana per aiutare l'umanità, anche lui scelse di rimanere vicino a noi. Ci sono state queste due luminose figure, dunque. Ce ne sarà una terza? Ci può essere? Se mai ci fu uomo nel corso dell' epoca moderna che raggiunse quasi questo culmine, fu D. H. Lawrence.
Ma la tragedia della vita di Lawrence, la tragedia del nostro tempo, è questa - che se egli fosse stato questa terza grande figura, non l'avremmo mai saputo. L'uomo non è mai pienamente nato - perché non è mai stato opposto fino in fondo. E un busto perpetuamente impantanato nell'acquitrino. Alla fine il busto sparirà comunque.
Lawrence scomparirà con il tempo che ha così magnificamente rappresentato. Anche lui lo sapeva. Ecco perché la speranza e la disperazione alle quali ha dato voce sono così elegantemente equilibrate. Consumatum est, ha gridato verso la fine. Non sul letto di morte, ma sulla croce, mentre era vivo e in pieno possesso delle sue facoltà. Proprio come Cristo sapeva in anticipo cosa vi era in serbo per lui, accettando il suo ruolo, così anche Lawrence sapeva e ha accettato. Ognuno è andato incontro a un destino differente. Cristo aveva già svolto il suo dovere quando fu messo in croce. Lawrence si inchiodò alla croce perché sapeva che il compito non poteva essere assolto - né il suo compito né quello del mondo. Gesù fu ucciso. Lawrence fu obbligato a commettere suicidio. Ecco la differenza.
Lawrence non fu il primo. Ci furono altri prima di lui, per tutta l'epoca moderna, che dovettero farsi fuori. Ogni suicidio fu una sfida. Rimbaud, Nietzsche - tragedie che accesero quasi una scintilla. Appare Lawrence e non succede niente. Vende meglio, e questo è tutto. Ho detto un momento fa che la contraddittorietà di Cristo ci ha portati molto vicino a qualcosa di vitale, a una paura che ci attanaglia. Lawrence ci ha reso di nuovo consapevoli di ciò - sebbene sia stata quasi istantaneamente congedata. Quale è l'essenza di questo enigma? Essere nel mondo senza essere del mondo. Approfondire la concezione del ruolo dell'uomo. Come si fa?
Negando il mondo e proclamando la realtà interiore? Conquistando il mondo e distruggendo la realtà interiore? In ogni caso vi è sconfitta. In ogni caso vi è trionfo, se volete. Sono la stessa cosa, sconfitta e vittoria - è solo questione di cambiare la propria posizione.
C'è un mondo della realtà esteriore, o azione, e il mondo della realtà interiore, o pensiero. Il fulcro è l' arte. Dopo lungo uso, dopo infinite altalene, il fulcro si logora. Allora, quasi fossero elette divinamente, sorgono figure, solitarie e tragiche, di uomini che offrono le loro nude spalle come fulcro per il mondo. Periscono sotto il peso opprimente di questo fardello.
Ne nascono altri, sempre più numerosi, fino a che dai molti sacrifici eroici si costruisce un fulcro di carne viva che può di nuovo tenere in equilibrio il peso del mondo. Questo fulcro è l' arte, che all'inizio era carne grezza che era azione, che era fede, che era il senso del destino.
Oggi il mondo dell'azione è esausto, e così anche il mondo del pensiero. Non c'è senso storico né una realtà interiore, metafisica. Nessun uomo, oggi, può chinarsi a offrire le proprie nude spalle come supporto. Il mondo si è dilatato a tal punto che la schiena più possente non sarebbe ampia a sufficienza per sostenerlo. Oggi sta albeggiando su uomini che, se vogliono trovare la salvezza, devono tirarsi in piedi solo con le proprie forze. Devono scoprire da sé un nuovo senso di equilibrio. Ognuno deve, per se stesso, ritrovare il senso del destino.
In passato una figura come Cristo poteva creare un mondo immaginario abbastanza potente nella sua realtà da renderlo la leva del mondo. Oggi ci sono milioni di esseri disposti al sacrificio, ma non abbastanza forza in molti di loro per sollevare un granello di sabbia. Il mondo è guasto, e gli uomini, individualmente, sono guasti. Siamo sulla strada sbagliata, tutti noi. Un gruppo, quello più numeroso, insiste nel cambiare il modello esterno - la configurazione sociale, politica, economica. Un altro gruppo, molto piccolo ma di maggiore potere, insiste nello scoprire una nuova realtà. Non c'è speranza in alcun modo. L'interiore e l'esteriore sono una cosa sola. Se ora sono separati è perché un nuovo modo di vita sta per essere introdotto.
C'è un solo regno nel quale l'interiore e l'esteriore possono ancora essere fusi, ed è il regno dell'arte. La maggior parte dell'arte rifletterà la morte che sta avendo luogo, ma solo gli spiriti più precoci possono fornire un' indicazione della vita che verrà. Proprio come i popoli primitivi continuano in mezzo a noi la loro vita di cinquanta o centomila anni fa, così gli artisti. Stiamo affrontando una condizione di vita assolutamente nuova. Un cosmo interamente nuovo dev'essere creato, e dev'essere creato dalle nostre isolate, separate parti viventi. Siamo noi, i bocconi indistruttibili di carne vivente, a formare il cosmo. Il cosmo non è fatto nella mente, da filosofi o metafisici, né è fatto da Dio.
Una rivoluzione economica non lo creerà certamente. E qualcosa che portiamo dentro di noi e che costruiamo intorno a noi: noi siamo parte di ciò e siamo noi che dobbiamo trasformarlo in essere.
Dobbiamo capire chi e che cosa siamo. Dobbiamo portarlo a compimento, sia nella creazione sia nella distruzione. Quello che facciamo la maggior parte del tempo è negare o desiderare. Mai, dall'inizio della nostra storia, della nostra storia occidentale, siamo stati desiderosi che il mondo fosse qualcosa di diverso da quello che è. Ci modifichiamo per adattarci a un' immagine che è stata un miraggio. Questa volta è giunta a esaurimento nel dubbio supremo. Siamo paralizzati; roteiamo sul perno del sé come dervisci ubriachi. Niente ci libererà se non una nuova conoscenza - non la veggenza socratica, ma l' accorgimento, che è conoscenza divenuta attiva.
Infatti, come Lawrence ha predetto, stiamo entrando nell'era dello Spirito Santo. Stiamo per abbandonare lo spirito del nostro io morto e stiamo per entrare in nuovo campo. Dio è morto. Il Figlio è morto. E noi siamo morti proprio perché questi ci hanno abbandonato. Non si tratta, in realtà, di vera morte, ma di Scheintot. Di Proust è stato detto da qualcuno che «era il più vivo tra tutti i morti». In quel senso siamo ancora vivi. Ma gli assi si sono rotti, i poli non funzionano più. Non è né notte né giorno. Né è crepuscolo. Siamo trasportati alla deriva con il flusso.

“la Repubblica”, 5 gennaio 2007

L'invasione morbida e le Vie della Seta. La geopolitica della Cina (Guido Santevecchi)


Riporto qui un ampio stralcio da un articolo denso di informazioni e interrogativi, di certo utile anche a chi non condivide tutte le diffidenze dell'articolista. (S.L.L.)

La Cina vuole dominare il mondo? O vuole «costruire felicità, pace e armonia» per chi la seguirà, come dice più o meno modestamente il suo presidente Xi Jinping? C’è un processo in corso e sul banco degli imputati ci sono la geopolitica di Pechino, la sua ascesa di potenza globale, i suoi metodi di espansionismo industriale, culturale e ora anche territoriale (le isole artificiali tra le Spratly e le Paracel), il suo soft power ispirato da un Partito comunista rigenerato dal nuovo uomo forte Xi. E già potere morbido nelle mani di un leader forte appare come una contraddizione e un sospetto. [...] Nel 2017 Xi ha messo le carte sul tavolo: «Entro il 2050 la Cina sarà leader globale con la sua forza nazionale e la sua influenza culturale intemazionale».
Quella cinese è una lunga marcia che ha seminato di tracce il pianeta. Le più innocenti sembrano gli Istituti Confucio, una rete che conta 1.500 centri in 140 Paesi. Sul modello del British Council ma inseriti in università e scuole straniere con le quali hanno stretto joint venture. E qui viene il dubbio che i cinesi si stiano infiltrando nel nostro sistema di istruzione. [...] A proposito, diceva Confucio: «Se fai un piano di un anno, coltiva il riso; se ne hai 10, pianta alberi; se pensi a 100 anni, educa i bambini».
Nel mondo in via di sviluppo peraltro ci sono molte più infrastrutture costruite dai cinesi che Istituti Confucio. In Africa per esempio i tecnici e consiglieri di Pechino sono arrivati negli anni Sessanta, mentre gli imperi europei ammainavano le bandiere. Prima grande opera la ferrovia tra Tanzania e Zambia: 1.860 chilometri tra montagne, foreste, fiumi e sabbie mobili. Inaugurazione nel 1976. La diplomazia cinese corre ancora in treno: nel 2016 è stata consegnata la linea Addis Abeba-Gibuti, 760 chilometri finanziati al 70% dalla Repubblica popolare, prima tratta completamente elettrificata del continente. «Aspettavamo da cent’anni», ha detto il presidente di Gibuti.

L’Africa è strategica per Pechino: ci sono circa 2 mila imprese cinesi, con oltre un milione di manager, tecnici e lavoratori sbarcati dall’Impero di Mezzo. L’interscambio Cina-Africa è oltre i 210 miliardi di dollari, superiore a quello di Usa ed Europa, che si ritirano commercialmente (non militarmente) per i problemi di corruzione dei governi locali e le violazioni dei diritti umani. Salvo poi interrogarsi impotenti di fronte all’onda dei migranti. Xi non si fa scrupoli, ha stretto la mano al compagno satrapo Robert Mugabe fino a quando è stato al potere nello Zimbabwe (ha anche donato un’accademia di polizia chiavi in mano al suo governo). Oltre il 60% delle importazioni cinesi dall’Africa sono materie prime — petrolio, carbone, rame; in cambio il mercato africano riceve prodotti finiti made in China — macchinari e automobili, tessuti e abbigliamento. Lamido Sanusi, ex governatore della Banca di Nigeria, ha scritto al «Financial Times»: «Gli africani debbono abbandonare la loro visione romantica sulla presenza dei cinesi, sono qui per servire i loro interessi, non i nostri, e questa è l’essenza del colonialismo che l’Africa ha vissuto con gli imperi europei». Risposta dell’agenzia Xinhua: «Il termine neo-colonialismo è usato dai Paesi occidentali per alleviare il dolore di fronte ai loro interessi che svaniscono in un continente che avevano colonizzato; con la sua crescente presenza in Africa la Cina è divenuta il motore di una terra ignorata». Così Gibuti, dopo aver atteso cent’anni la ferrovia, ha concesso ai cinesi una base militare, proprio davanti all’analoga installazione americana. Espansionismo strisciante? O accuse prevenute di noi occidentali che per vergogna storica e disinteresse abbiamo lasciato l’Africa alla potenza in ascesa?
C’è un altro progetto cinese, immenso e immaginifico: la Nuova Via della Seta. Nella visione di Xi si tratta di rilanciare quel percorso millenario, costruire «lungo l’antica via delle carovane una cintura economica che aprirà un mercato di 3 miliardi di consumatori». Quelle parole in mandarino, yi dai yi lu, sono state tradotte in tutte le lingue del mondo, entrando nel linguaggio comune dei governi come One Belt One Road, «Una Cintura Una Strada». Meglio dire molte cinture e molte strade, perché ora la Cina lavora su 6 corridoi dove vuole costruire autostrade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti che attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. E poi c’è la Via marittima che dai grandi porti di Shanghai e Canton scende lungo il Mar Cinese meridionale, l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, giunge nel Mediterraneo con scalo al Pireo e approda a Venezia. Storicamente affascinante. Ma,intanto, il porto greco è stato acquistato da un consorzio cinese e molti Paesi dell’Europa centrale e orientale si sono fatti attrarre nell’orbita commerciale di Pechino. La Cina, con l’arretramento dei ghiacci, pensa anche a una via artica.
Ci sono molti dubbi sulla sostenibilità economica dei piani e sui loro veri fini. Lo storico Niall Ferguson ha detto a «la Lettura» che nell’ipotesi migliore la Nuova Via della Seta è «un’idea romantica ma poco fattibile. Dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità politica. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi ha lanciato un nuovo Grande Gioco geopolitico per creare un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino. Sostiene l’accusa l’India, convinta che «Pechino sta cercando di creare, e in parte ha già rea lizzato, una psicologia internazionale che riconosca l'inevitabilità dell’egemonia cinese». Il Fondo monetario internazionale avverte che le infrastrutture sono vitali per lo sviluppo ma, investendo e prestando centinaia di miliardi sulla Via della Seta, Pechino crea una schiera di Paesi debitori che rischiano di essere schiacciati dal peso. Dei 68 Paesi nel progetto, 23 sono vulnerabili e tra questi Pakistan, Laos, Mongolia, Montenegro, Gibuti, Maldive e Sri Lanka.
C’è un problema di «rischio sociale» conferma Sameh El-Shahat, nato in Egitto, cittadino britannico, a capo dell’agenzia di risk management China-i. Sameh tiene seminari per i manager governativi a Pechino e spiega che «gli investimenti da soli non bastano, la popolarità dei cinesi all’estero è bassa perché la loro comunicazione non è mirata sulla gente, le imprese parlano con chi è già convinto, con i governi che hanno concesso la licenza di costruire. Così manca la “licenza sociale” e questo porta al “rischio sociale” che può minare progetti e collaborazione». Per El-Shahat non bisogna avere paura «perché i cinesi a differenza degli europei non sono mai stati colonialisti, per questo non li conosciamo; sono nuovi arrivati e così li temiamo». Ecco la necessità del soft power. Ma quando è la Cina a usarlo, si parla di sharp power, influenza aguzza, autoritaria. Mentalità da guerra fredda, noi non vogliamo governare il mondo, rispondono a Pechino. «Il problema è che la Cina ha scarsa propensione a mettersi in discussione, un atteggiamento che al contrario la farebbe accettare meglio da noi. Ha poca consapevolezza dell'importanza di saper ricevere critiche costruttive», dice a «la Lettura» Davide Cucino, sinologo, dirigente industriale e presidente della Camera di Commercio italiana a Pechino
Tutto chiaro? Henry Kissinger, nel suo Cina (Mondadori, 2011) ha teorizzato che mentre la tradizione occidentale esalta gli scontri decisivi, la Cina privilegia le tortuosità, il paziente e graduale consolidamento delle posizioni di relativo vantaggio. Un concetto riassunto nel weiqi, gioco da tavolo con 180 pezzi per parte. Nel weiqi si perseguono diversi obiettivi contemporaneamente, non serve lo scacco matto, basta un vantaggio minimo, che l’occhio non esperto, non cinese, non saprebbe cogliere. Invasione morbida.


"La Lettura - Corriere della sera", 13 maggio 2018

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