“Le parole vorticavano
impetuose come una tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra
senza ritegno”: è Bruce Springsteen che parla del suo primo disco.
ma vale anche per questo libro. Springsteen è anche un artista della
parola; e la prima cosa che si chiede a un libro è che sia un atto
di parola sostenuto, competente e godibile. Questo lo è: non la
solita autobiografia di star – anche se a volte rischia di
scivolarci dentro – descrizioni di concerti, cene con i VIP… - ma
un’autobiografia vera.
Da un’autobiografia ci
si aspetta in primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche
rappresentativa, che la sua sia anche la storia di un tempo e di un
luogo. La città di Freehold, le case (e le mezze case) della
famiglia Springsteen le tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con
tutti quelli che ci vivono dentro. La musica è la chiave con cui
Springsteen spiega questo mondo, ma questo mondo è anche la chiave
che ci fa capire come nasce la musica. L’entusiasmo – la notte,
le ragazze, le macchine – di tante canzoni di Springsteen acquista
profondità e ambiguità perché sullo sfondo dei luoghi e nel futuro
dei personaggi stanno periferie proletarie dove vivere, fuggire,
tornare: “Per raccontare la loro vita occorreva un mix tra il
romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo
del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta
dalla Motown […] L’atteggiamento alternativo degli Stones e dei
loro colleghi negli anni Sessanta non rispecchiava l’esperienza di
quei ragazzi. E chi se lo poteva permettere? C’era da lottare,
stringere i denti, lavorare, proteggere ciò che era tuo, restare
fedele ai tuoi compagni, ai tuoi antenati, alla famiglia, al
territorio, ai fratelli e sorelle greaser, alla patria. Erano
queste le cose che ti rimanevano quando tutto il resto si sgretolava,
quando le mode passavano e mettevi incinta la tua ragazza, quando tuo
padre finiva in galera o perdeva il lavoro e toccava a te rimboccarti
le maniche”.
In secondo luogo, ci
aspetta la ricostruzione di un percorso: come l’io narrato diventa
l’io narrante. Avevano ragione i suoi genitori, scrive Springsteen:
la possibilità che “il quindicenne foruncoloso di Freehold, New
Jersey, con la sua chitarra Kent da due soldi” sarebbe stato
l’unico a salire un giorno sul palco coi Rolling Stones, suoi idoli
adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo Massimo) era
“una su un milione”. Come è successo? “Non ero nato genio. Per
sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me stesso,
l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza,
il cuore e la volontà”. Genio, diceva Thomas Edison, è “uno
percento ispirazione, novantanove percento sudore”. “Ho lasciato
abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno
dei sette mari”, scrive Springsteen. È l’etica operaia
trasferita nella musica (gli Steel Mill: “musica operaia,
fragorosamente chitarristica con sonorità di matrice Southern
rock”); ma è “sudore” anche il lavoro mentale,
l’intelligenza: “la mia Asbury Park era un’isola di disadattati
e colletti blu, intelligenti ma non intellettuali” (il corsivo è
mio!).
Ma il sudore non è
tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama “talento” è
intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: “let
the mystery be”, accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è
bene che rimanga anche qui. Infine, ci si aspetta un percorso di
conoscenza di sé, un modo per esplorarsi scrivendo. C’è una
parola inattesa che ricorre più volte: “rabbia” – accumulata
nell’infanzia cattolica, covata ed esplosa da suo padre nel
silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa fino a inquinare i
rapporti più profondi: un “abisso in cui rabbia, paura, sfiducia,
insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a pugni
con le mie doti migliori”. C’è una felicità, scrive, che è “la
sorella allegra della depressione”. Come l’euforia delle canzoni
giovanili stava sullo sfondo della violenza di classe, così lo
Springsteen atletico e vitalistico che vediamo sul palco è anche
l’esorcismo di depressioni ricorrenti e curate con l’analisi e i
farmaci, e con il lavoro di scrivere questo libro. “Ho passato la
vita a combattere, studiare, suonare e lavorare, perché volevo
ascoltare e conoscere tutta la storia, la mia storia […] per
potermi liberare dalle sue influenze più deleterie […] Non so se
ci sono riuscito, il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma so che è
quanto mi sono impegnato a fare da giovane, con me stesso e con te”.
il manifesto 5 ottobre
2016
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