Il Corriere nel 1977
pubblicò alcune interviste di Enzo Biagi ai personaggi che hanno
cambiato qualcosa in Italia.
Questa ad Eduardo De Filippo è tra le meglio riuscite. (S.L.L.)
DAL NOSTRO INVIATO
SPECIALE
ROMA — Mi ha detto
Fellini: «È come una sacra rappresentazione». Non c’è mai
posto, bisogna prenotarsi con una settimana di anticipo, non
consegnano più di cinque biglietti. La balconata è gremita di
giovani che assistono, stupefatti, al prodigio.
Le voci di dentro
ha quasi trent’annì: ma nel canovaccio c’è tutta l’angoscia
di questo tempo, i cattivi pensieri, i sospetti. Zi’ Nicola, lo
strampalato personaggio che si è chiuso in se stesso, non parla,
comunica con gli altri a botti, a razzi, una specie di essenziale
alfabeto Morse che non concede nulla alla divagazione; è un
precursore dell’alienato, un pensatore dei « Bassi » che ignora
di avere scoperto la incomunicabilità.
«Ero più forte»
ricorda Eduardo. «Buttai giù il copione in diciassette ore, tutte
le notti, di fila. Il dovere, sa. Filumena Marturano mi
impegnò per dodici giorni. Titina diceva: — Il teatro è fatto per
gli uomini, la donna è soltanto un appoggio. Feci la sorpresa:
invitai tutti a un pranzetto, e lessi le mie pagine. Alla fine,
silenzio. Titina mi baciò la mano e piangeva. In una stagione,
44-45, feci anche Napoli milionaria, Le bugie con le gambe
lunghe, e Questi fantasmi, che restò nel cassetto per due
anni. Quando si è cresciuti in palcoscenico, si è frequentato una
scuola rigida, che non ti fa guardare in faccia a nessuno: si deve
fare, e così è ».
La grande avventura
Il 24 maggio compirà i
settantasette; ne aveva 4 quando salì per la prima volta alla
ribalta, con un vestitino da cinese. Scarpetta recitava La geisha,
e i «tre piccirilli sott’a nu’ umbrello», come diceva la gente,
lui, con Titina e Peppino, cominciavano la loro grande avventura.
Nella leggenda c’è
tutto: le fatiche dell’avanspettacolo, la fame, i contrasti e le
incomprensioni, la solitudine. Poi, la rivelazione: quelle storie
napoletane hanno commosso' lo spettatore in Inghilterra, nella Unione
Sovietica, in Spagna, in America, in Giappone. Migliaia di repliche,
milioni di copie. Perché i diseredati dei «vichi», sono come lo
straccione di Chaplin: nascono dai bassifondi di Londra o dagli
androni umidi di Forcella, e portano la loro malinconia, le chimere,
la dolce rassegnazione per le strade del mondo, e tutti li capiscono,
e anche quando l’ultimo scontro con la sventura sembra perduto,
lasciano sempre una possibilità alla speranza: «S’ha da aspettà»,
«A’ da passà ’a nuttata», è la battuta finale di un infelice
Gennaro Esposito, sulla quale cala il sipario.
Ho appuntamento
all’Eliseo. Un vento gelido spazza le vie di Roma. Aspetto
all'ingresso degli artisti, e chiacchiero un po' col custode: «Da
quando lo conosco io» dice «è sempre andata in questo modo. Il
commendatore è unico, non c'è paragone, e vengono a vedere il
fenomeno. Non pare mica che reciti, non sembra che ci sia. fatica.
Naturale, vero. Ma bisogna assistere alle prove, tutto pensato,
calcolato, lo applauso, scatta sempre in quel momento, preciso ».
Arriva infreddolito con
Isabella, la moglie. Sale le scale con energia; non pensa allo
stimolatore che gli hanno messo dentro, per rianimare il cuore
stanco. Soltanto Pupella Maggio gli dice: «Ciao, Eduardo», tutti
gli altri salutano: «Buona sera, direttore».
Conversiamo senz’ordine,
nel camerino semplice, c’è un disegno di Titina, la statuetta di
un pastore ungherese, che un giovanotto straniero gli mise in mano
sorridendo, e lo cacciarono, perché temevano nascondesse un
coltello, poche cose per il trucco, una bottiglia di colonia.
Quando si sveste e rimane
in maglietta, osservo quel torace magro, e poi il viso scavato, gli
occhi spenti, gli zigomi che danno carattere a quella fisionomia
essenziale, e andiamo avanti senza regola, come se riprendessimo un
vecchio discorso interrotto, e io sono anche un poco commosso. Mi
torna in mente il loggione del Duse, a Bologna, e Sik Sik
l’artefice magico, e gli incanti della giovinezza, com’è
passato in fretta.
«Io osservo, osservo
continuamente» dice Eduordo, come se volesse rivelarmi il segreto
della sua arte. No, non è stato facile imporre un repertorio, un
modo di essere, tra le quinte e anche fuori. Faccio il nome di un
amico: «Eppure» dice senza rancore «quando diedi Filumena,
scrisse che era un’opera ignobile. Ma non mi sono mai arrabbiato
per la critica, ho appreso molto, specialmente dagli attacchi. Renato
Simoni aveva garbo. Ma adesso siamo divisi: chi recensisce da una
parte, interpreti dall’altra, e in fondo si lavora tutti insieme.
Una volta non era così. Qui non si vede più nessuno. Io facevo
mattina a discutere con Vergani, con D’Amico. Gli artisti, quelli
moderni, non parlo di me, quelli che vengono dall’Accademia, si
sono tagliati anche i ponti col pubblico, sono freddi. Il saluto non
è più come si usava, c’è una certa alterigia. Si ringraziava
ogni fine d’atto, significava rispondere con una cortesia, senza
lasciare attendere inutilmente ».
L’amarezza
Dico: l’altro giorno,
ho incontrato Sandro Pertini. Gli ho chiesto: «Era peggio il ’45 o
oggi?». Peggio oggi, mi ha risposto. C’è un’altra Napoli, c’è
un’altra Italia? Quale? «Diversa, soprattutto perché abbiamo
preso coscienza, e allora le manchevolezze mi appaiono più evidenti.
Abbiamo capito. Allora si era pieni di attesa, siamo ricaduti negli
stessi errori, sfiducia, disistima, dal disprezzo alla voce di
dentro. Una parola buona spesa in quel momento di euforia, di fede
nel futuro, ora sarebbe anacronistica, da ridere ».
In un’intervista lei ha
detto: «Non me ne importa niente di sapere che cos’è l’aldilà».
Perché? «Non è un fatto che mi riguarda. Sarebbe una cosa molto
importante, per cui avremmo dovuto avere qualche ragguaglio,
indipendentemente delle esplorazioni scientifiche e filosofiche,
invece lasciamo senza che ci venga un segno qualsiasi per darci un
orientamento, e allora è come spingere un muro, una piramide, si fa
troppa fatica ».
Da che cosa nasce la sua
amarezza? «Oggi, se dovessi prevedere qualcosa, sarei ottimista. E
le dico la ragione: perché i giovani capiscono, e le generazioni non
si susseguono ogni vent’anni, o quindici, ma con maggiore rapidità.
Due o tre fanno già differenza. I più piccoli vengono su con idee
molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà
salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che, al
contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da
qualunque tradizione. Verrà il meglio, ma questa alba non mi sarà
dato di vederla; ci vorrà molto tempo. Mi è stato riservato di
combattere i mulini a vento, come un don Chisciotte ».
Che cosa trova nell’uomo,
di migliorato, e di peggio? «Peccati intollerabili sono la vanità,
l’invidia e la debolezza di carattere. Qualità buone, lo spirito
di adattamento, ma non la rinuncia, la comprensione dei difetti
altrui, ma non l’accettazione».
C’è chi la definisce
un piccolo borghese per il suo desiderio di pulizia, di rispetto dei
sentimenti. È un giudizio che la soddisfa? «Luigi Compagnone lo
dice. Forse lo è lui, e allora vede così anche me. Io mi rivolgo
alle masse e questo senso di nitore, questa voglia dì moralità è
un’aspirazione al bene comune. Nelle mie commedie non dico mai: 'Io
parlo di problemi'. Anche lui fa la stessa cosa, e lo ammiro per
questo».
I suoi eroi, invece, sono
quasi sempre dei falliti, degli umiliati, sul piano sociale, e degli
anarchici su quello delle scelte. «E’ giusto : il seme della
libertà nasce con l'uomo. Filumena Marturano, per esempio, è
il simbolo dell’Italia: tre figli, tre condizioni umane. E poi la
lotta: del resto, buoni non si potrà mai esserlo del tutto ».
Come nasce in lei una
storia? «Chi lo sa. Dall’attenzione, dall’esperienza, dallo
spirito di ricerca. Basta un’idea, non tante, e lavorarci sopra.
Quando non c’è, si ricorre alle trovate».
Se dovesse spiegare a un
giovane che vuol fare l’attore che cos’è il teatro, che cosa
direbbe? «Se dovessi indicare un programma, suggerirei la pratica,
perché il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si
possono scindere le due cose. Cerca la vita e troverai la forma,
cerca la forma e troverai la morte. L'umanità, attraverso fatti che
si evolvono continuamente, e che si trasformano, ci fornisce modelli
che ci sorprendono sempre: nuovi, pazzi, imprevedibili, che ci danno
i personaggi. Le parole cambiano, i rapporti si trasformano. Come può
finire il teatro? Una volta io ho detto che fino a quando ci sarà un
filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico».
Qual è il suo primo
ricordo, la prima impressione, davanti a una platea? «Uno splendore
abbagliante. Ero al Valle di Roma, ero piccolo e sbigottito. Mi
portarono in scena da un momento all’altro: è luce, è sorpresa».
Da grande, quando decise?
«Molto tardi, perché mi affannavo a convincere ali altri, che mi
sconsigliavano. Piano piano cominciai a capire che quella sarebbe
stata la mia passione. Teatro significa vivere sul serio quello che
gli altri nella vita recitano male».
Lei è religioso? «A
modo mio. Io so che mi trovo qui per una ragione, e questo è già
sufficiente. Se non mi è stato spiegato perché sono venuto, vuol
dire che non lo devo sapere».
Quando si è sentito
affaticato, e le hanno messo il pacemaker, che cosa ha
pensato? Ha avuto paura? «No, no. Anzi, non volevo applicarlo, mi
sembrava di forzare la mano alla natura, se me ne debbo andare,
basta; poi mi abituai ad accettarlo, qualcosa da dire l’avevo
ancora, infatti».
Filumena Marturano dice:
«Sto piangendo. Quanto è bello piangere». E l’uomo, quando è
solo o sgomento, che fa? «Lo fa troppo spesso, quindi non si può
distinguere se c’è una ragione seria, o emotività e debolezza».
Cosa è stato il
successo? «Un premio alla mia fatica, continua, ossessiva, da
ragioniere».
C’è qualcuno fra i
contemporanei che ammira? «Molti, non uno solo, e
non soltanto nel mio mestiere, e fra questi Carmelo Bene, perché mi
piace pure fuori, mi piacciono le sue opinioni, come si esprime, come
si ribella, come si accetta. Poi Proietti, che ho stimato da quando
era alle prime armi».
Anche di suo figlio Luca
parlano bene. «C’è tempo per vedere se è bravo. Meno male che lo
dicono gli altri. Quando nacque, Lucio Ridenti mi chiese 'Glifarai
fare l’attore?'. Io risposi di sì, perché anche se non dovesse
riuscire, e rimanesse soltanto un generico, il teatro gli offrirebbe
sempre il modo di essere libero».
Perché l’uomo vuole
recitare? «È come le scimmie che hanno il gusto dell’imitazione.
Le hanno viste che si mettevano fiori e raffia addosso, e ballavano.
Ma se è vanitoso, è solo uno che ha la faccia tosta di salire in
alto, su delle assi inchiodate, per farsi vedere. L’artista è
un'altra cosa».
Che sogni fa? «Dei
palcoscenici, sempre. Inventati. Uno tutto di vetro, anche la scena
di cristallo, gli attori potevano vedere lo spettacolo senza essere
scorti dal pubblico. Sogno di arrivare in ritardo, stanno già per
alzare il velario, tutto contribuisce a farmi rallentare, non sono
truccato, non trovo il cappello, allora mi sveglio. Uno cominciava in
un quartiere di Napoli, e finiva, naturalmente, in teatro. Avevo
messo Titina in un camerino tutto di merletti. Una specie di delirio,
forse. Quasimodo mi diceva :'Tu fai le didascalie con due o tre
aggettivi. Che te ne fotte?'. Ma di questo ho vissuto».
L’altoparlante avverte:
«Cinque minuti. Signori, chi è di scena?». Eduardo De Filippo si
fissa nello specchio: qualche ritocco appena. In quel volto estatico
ed assorto, si può specchiare tutto il dolore del mondo: «Le mie
commedie sono sempre tragedie, anche quando fanno ridere».
Eduardo conosce il
segreto dell’esistenza. Dice il protagonista di Gli esami non
finiscono mai: «In questa vita nessuno può mettere il punto;
esiste soltanto il punto e virgola. Non possiamo illuderci, dobbiamo
lasciare il posto agli altri». Non sempre: lui, ormai, ne ha uno
tutto per sé.
Corriere della sera,
ritaglio senza data, ma 1977, prima del 24 maggio
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