PARIGI
Cos’hanno in comune le
squadre di calcio milanesi e i grandi marchi del settore alberghiero
transalpino? La lunga tradizione, decennale se non secolare, la
reputazione internazionale consolidata e l’interesse che suscitano
nei compratori cinesi. Negli ultimi anni, diverse società celebri
delle vacanze à la française sono finiti in mano a
investitori del Paese del dragone, interessati ad approfittare allo
stesso tempo del crescente afflusso di turisti dalla Cina all’Europa
e del boom del turismo interno in Estremo Oriente, spinto
dall’arricchimento delle classi medie urbane.
Il primo in ordine di
tempo, nel febbraio 2015, è stato il Club Med, acquisito dal fondo
Gallion, veicolo d’investimento controllato dal gruppo Shanghai
Fosun International, per 939 milioni di euro, dopo una lunga
battaglia di offerte e contro-offerte con la holding InvestIndustrial
del finanziere italiano Andrea Bonomi. Poi è stato il turno di
Pierre et Vacances, altro nome noto dei villaggi vacanze, nato
nel 1967 nella stazione sciistica alpina di Avoriaz, che all’inizio
di quest’anno ha visto entrare nella rosa dei suoi azionisti, con
una quota del 10%, il gruppo Hna Tourism, conglomerato con sede
nell’Hainan che controlla anche alcune compagnie aeree e ha
partecipazioni in un numero di aziende di trasporti, ospitalità e
logistica, inclusa Uber.
Il grande protagonista di
questa caccia cinese ai grandi hotel francesi, però, si chiama Jin
Jiang, ed è una società a controllo pubblico, di proprietà della
città di Shanghai. La sua avanzata è cominciata ormai più di un
anno fa, quando ha acquistato da Starwood per 1,3 miliardi di euro il
gruppo Louvre Hotels, titolare di catene come Kyriad, Campanile e
Tulip Inn. Ora, il percorso continua con una preda ben più ghiotta
nel mirino: il gigante AccorHotels, casa madre di numerose
catene tra le più diffuse in Europa, dalle low cost Ibis e Ibis
budget alle lussuose Sofitel e Mercure, per un totale di 511.517
stanze in 3.873 alberghi, secondo cifre di fine 2015.
Con una serie di acquisti
di azioni, Jin Jiang è pian piano salita nel capitale del gruppo,
arrivando al 15,02% e diventando primo azionista, davanti alla coppia
di fondi Colony Capital ed Eurazeo, che detengono in concerto una
quota dell’11,08%. Secondo indiscrezioni riportate da “Le Figaro”
all’inizio del mese scorso, l’obiettivo dell’investitore cinese
sarebbe di salire fino al 29%, appena al di sotto della soglia che fa
scattare l’obbligo di offerta pubblica d’acquisto, fissata
Oltralpe al 30% del capitale.
In ogni caso, le autorità
francesi hanno già iniziato ad interessarsi da vicini alla
questione. L’Amf, il gendarme della Borsa di Parigi, ha chiesto a
più riprese chiarimenti alla società cinese sulle sue intenzioni in
AccorHotels, dopo alcune impennate del valore del titolo provocate da
indiscrezioni su un’imminente Opa. Ma è soprattutto il ministero
dell’Economia francese, notoriamente poco propenso a far finire i
pezzi pregiati dell’industria nazionale in mani straniere, ad aver
assunto un ruolo che la stampa non esita a definire «determinante»
nelle trattative sul ruolo di Jin Jiang, in particolare sul fronte
della governance e della rappresentanza in consiglio
d’amministrazione. Un negoziato sul duplice piano finanziario e
diplomatico, con l’azienda e la municipalità di Shanghai che la
controlla, e che sarebbe sorvegliato da vicino anche dall’Eliseo e
dal ministero degli Esteri, che ha la delega al commercio
internazionale.
Non tutti, però, vedono
l’avanzata cinese come una minaccia. Tra giornalisti, analisti e
consulenti finanziari non manca chi parla di grossa opportunità per
un settore alberghiero messo in difficoltà dalla crisi prima e dal
rischio terrorismo poi. «Sono meglio questi specialisti del turismo,
ben coscienti della necessità di investire nelle camere e nelle
strutture, che dei fondi d’investimento, anche fossero francesi
come Eurazeo, che hanno il solo obiettivo di generare più denaro
possibile», commenta dalle colonne del settimanale economico
“Challenges Mark Watkins”, della società di consulting Coach
Omnium. Ricordando che in questo caso non si può temere che il
passaggio in mani cinesi diventi sinonimo di delocalizzazione, e
quindi di perdita di posti di lavoro in Francia e in Europa, dato che
«gli hotel non sono montati su ruote, non c’è rischio che vengano
spediti a Shanghai. Le tasse e i contributi sono pagati localmente, e
le forniture sono locali. D’altro canto, questi hotel hanno bisogno
di farsi conoscere dalla clientela cinese, e il compito gli è reso
molto più facile dall’arrivo di questi provvidenziali azionisti».
Pagina 99, 7 settembre 2016
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