L’autobiografia del
maestro che, con il suo cinema, ha messo in scena le nostre
inquietudini.
Mostrando come l’orrore è una definizione dei nostri
sogni.
Perché l’uomo è
l’essere più spaventoso e spaventato che esista
Una immagine da "Inferno" (1980) |
C’è un uomo
intrappolato tra due vetrate come in una gabbia di cristallo. Una dà
sulla strada, l’altra su una sala bianca infestata da immani
sculture deformi, scure. Nella sala c’è una donna vestita di
bianco. Un uomo in nero, il viso coperto, l’accoltella allo
stomaco. Poi scappa. "Aiutami!", grida la donna all’uomo nella
gabbia; ma quelle grida ci arrivano mute. Perché, insieme al
testimone, anche noi siamo chiusi nella gabbia; sordi in un silenzio
claustrofobico. Il testimone prende a pugni le vetrate, urla alla
donna "Aprimi!", e lei vorrebbe farsi salvare ma le forze
l’abbandonano, cade a terra.
Mentre il sangue rosso
s’impossessa del suo vestito bianco, la donna striscia sul
pavimento su cui si apre una grossa traccia scarlatta, e infine, gli
occhi imploranti fissi negli occhi del testimone, muore. «Spesso»,
dice Dario Argento in Paura (la sua auto-biografia, a cura di
Marco Peano, appena uscita per Einaudi), «prima di scrivere una
sceneggiatura, mi dico che quella vicenda in realtà è stata già
raccontata, esiste da qualche parte, e io devo semplicemente
ricordarla». Dario Argento ha trent’anni quando esce il suo primo
film, L’uccello dalle piume di cristallo. Tutto ha inizio da
un sogno. C’è lui nella gabbia di vetro, è lui che vuole salvare
la donna; ma «più davo pugni sul vetro per avvisarla, più gridavo
e mi dibattevo disperato, più mi rendevo conto che nessuno mi
sentiva».
Dalle prime esperienze
come giornalista/critico cinematografico per “Paese Sera” alla
scoperta: sono un regista!, dalle difficoltà per girare il
primo film al successo mondiale, da L’uccello dalle piume di
cristallo a Profondo rosso al progetto di The Sandman,
dall’eterna domanda «Perché uccide sempre le donne?» alla
naturale risposta: «Perché amo lavorare con loro»; dal rapporto
col cinema di Hitchcock agli incontri con grandi come Morricone,
Bava, Leone, Polanski.
Con sincerità
entusiasmante, severità verso i propri risultati, riconoscenza:
prima di tutto verso il padre Salvatore, figura centrale della sua
vita, che fonderà la casa di produzione Seda perché il primo film
di suo figlio, da tutti rifiutato, veda la luce. «Col tempo ho
imparato che ogni volta che fai qualcosa di nuovo, un salto in avanti
rispetto al tuo percorso, all’inizio questa decisione non piace. La
gente vuole rassicurazioni, e io mi guardo bene dal fornirgliele».
Ed è quello che fa Argento: inventa una nuova grammatica del cinema,
lottando contro la censura ma pure contro chi, dopo il successo di un
suo film, ne vuole sempre un altro uguale, un altro uguale. «Volevo
un film», scrive, «come nessuno aveva fatto».
Non solo
un’autobiografia, non solo un pezzo di storia del cinema e della
storia in cui il suo cinema nasce e vive - il post’ 68 e gli anni
di piombo, per esempio - in Paura Dario Argento fa un racconto
più ampio di una vita e di una professione: il libro è anche un
viaggio nell’officina dell’artista e, di più, una riflessione
sull’arte. E questa la vera anima di Paura, libro prezioso
non solo per chi già ama Argento ma pure per chi ancora non lo
conosce, e per chi con passione s’interroga sul fatto artistico.
«Thriller, horror, fantastico, terrore, giallo, noir... sono
soltanto parole che usiamo per definire i nostri sogni». Il sogno e
la solitudine sono materia della vita come dei film: da sempre
Argento si dibatte tra isolamento e condivisione, tra l’amore per
le figlie e quello per l’adorato, battagliato cinema. Come ogni
passione, il cinema è la più estatica delle esperienze come la più
crudele; ti scaglia tra le stelle come ti tira giù, magnetica,
cupissima, dentro lo sconforto; e poi daccapo. E Argento lo racconta.
Una passione forte non è
solo un dono: è anche un’arma contro se stessi e quelli che più
amiamo. Anche questo Argento racconta: la crudeltà dei sogni. Poiché
l’autore è questo: un estraneo rinchiuso in una gabbia che
disperatamente tenta di comunicare con l’esterno, di mutare in
parole - in immagini - il sogno che ha chiuso nella testa. Solo con
una ferrea volontà che sconfina nel folle, a volte nello spietato,
ci si può guadagnare splendidi, rarissimi momenti, in cui si riesce
a coniugare sogno con immagini, intenzione con risultato. Cioè: a
comunicare con il pubblico.
«So cosa vuol dire
essere diverso dagli altri perché l’ho vissuto. E allo spettatore
volevo far provare la stessa cosa». Poiché l’autore di ogni forma
d’arte è proprio questo: un mezzo attraverso cui far passare una
storia, nella speranza che questa storia sarà tua, parlerà di te.
“Pagina
99”, 8 novembre 2014
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