Massimo Raffaeli,
collaboratore da molti anni del “manifesto” e di altri
quotidiani, critico tra i più raffinati e acuti di poesia e di
prosa, è autore per “alias” di questo articolo, dalla sezione
riservata allo sport. In realtà non solo di sport si tratta. Si
tratta di un grande calciatore e di uno scrittore che, per una sorta
di identificazione, si ispira a lui per un romanzo, un romanzo bello
e intenso che però si perde nel gorgo ove scompaiono i libri, talora
anche quelli di valore. Il romanzo in questione fu pubblicato nel
1963 da Vallecchi e riedito nel 2003 da Castelvecchi, ma risulta
introvabile in rete. Avrei voluto leggerlo prima di “postare”
l'appassionato articolo che segue, ma spero di poter invertire
l'ordine delle azioni nel caso in cui dalla rete mi arrivi qualche
suggerimento per procurarmelo. (S.L.L.)
Karl Aage Praest |
Praest è un'ala di estri
così intermittenti da sembrare saturnini, egli si estranea dalla
gara e ama rientrarvi con gesti tecnici inauditi e gol che passano
alla storia, come quello (dei complessivi 51) che segna a Giorgio
Ghezzi, il giorno dell'Epifania '52 dopo avere dribblato in
contropiede mezza squadra dell'Inter. La Juve in cui gioca (e con
quale vince gli scudetti del '50 e del '52) è nel ricordo di Gianni
Brera la squadra più forte del decennio, una compagine di valore
mondiale. Due registi ne organizzano il gioco: in difesa Carlo
Parola, centromediano metodista di classico stile, l'uomo della
rovesciata arcangelica poi immortalata nell'Album Panini, retrocesso
con l'età a battitore libero di fianco ad un coriaceo cremonese,
Giacomo Mari; in mezzo al campo, viceversa, sta un vero e proprio
hombre orquestra, l'oriundo italo-argentino Rinaldo Fioravante
Martino detto «zampa di velluto» sia per le stoccate sotto porta
sia per i lanci al millimetro, fendenti liftati di decine di metri
alla cui precisione cooperano specialissime scarpe di vacchetta
presto divenute leggendarie: ricevono a memoria le giocate di Martino
due incursori centrali (l'ancora imberbe centravanti Giampiero
Boniperti e John Hansen, intemo danese dal fisico possente) come le
due ali, il minuscolo Ermes Muccinelli, che torna volentieri in
copertura, e l'amletico Praest.
Praest ovviamente non sa
che in gradinata, al Comunale di Torino, tra cumuli di neve secca e
il flato di nebbie residue, è seduto Salvatore Bruno, un giornalista
del “Nuovo Corriere” (il quotidiano fiorentino di orientamento
comunista diretto da Romano Bilenchi), tanto meno sospetta che costui
dieci anni dopo, nel suo unico romanzo L'allenatore (Vallecchi
1963, poi Baldini & Castoldi 2003), narrerà di quel gol nei
termini dell'epica. Bruno è quasi un doppio mediterraneo del
campione danese: nato a Presicce (Lecce) nel 1923, ha studiato
lettere a Firenze con Giuseppe De Robertis senza mai laurearsi, è
entrato nella Resistenza e nel dopoguerra ha lavorato al “Nuovo
Corriere”, un foglio che per più di un motivo anticipa stile e
tematiche del “manifesto”. Chiuso il giornale manu militari
dal Pci, nel '56 dopo i fatti di Poznan e un duro editoriale
antistalinista di Bilenchi, Bruno si trasferisce a Roma e vive di
collaborazioni saltuarie a “l'Espresso”, “Il Campione”,
“Settimo Giorno”, al periodico Eni “Il Gatto selvatico” e al
“Giornale Radio” (testate per le quali redige, spesso sotto
pseudonimo, articoli sportivi e cronache calcistiche di recente
rinvenute, a decine, da Daniele Greco, un giovane ricercatore che sta
allestendo la sua biografia).
Scuro di incarnato e
capelli, Bruno è un uomo indocile e insofferente di qualunque cosa
attenti alla sua libertà intellettuale e ai suoi privatissimi
loisir. Le donne lo adorano, ne sono attratte, sedotte e
insieme infastidite, infine respinte dai suoi perpetui moti di fuga e
sottrazione. Intorno a lui impazza la cosiddetta Dolce Vita,
di cui però non sembra accorgersi mentre scruta viceversa, nel
mutismo che ne acuisce la facoltà di osservazione, mode e rituali
del neonato Miracolo economico. La sua esistenza si riduce ai
pochi metri che congiungono il Bar Rosati a Piazza del Popolo, una
mansarda in cima a via Frattina e il tavolo ad angolo di «Cesaretto»,
in via della Croce, dove gli spetta il famoso tovagliolo degli
avventori quotidiani, appannaggio di pochissimi. Tra le rare foto che
gli sopravvivono, per lo più scattate dall'amico Mario Dondero, lo
si vede appunto a tavola da «Cesaretto» dove riceve i suoi amici,
artisti e scrittori che gli riconoscono il grande talento come
l'assoluta, straordinaria in un simile ambiente, mancanza di invidia:
costoro si chiamano, fra gli altri, Elio Pagliarani, Enzo Siciliano,
Ennio Flaiano, Sandro De Feo, Giovanni Russo, Manlio Cancogni e
Cesare Garboli.
Tutti sanno che Bruno sta
scrivendo un romanzo, anzi il suo romanzo, in clandestinità ma non
sanno davvero di che cosa si tratti. Fatto sta che quasi glielo
strappano di mano e il libro, mentore il maestro Bilenchi, esce
immediatamente da Vallecchi in una collana diretta da Geno Pampaioni
e dal giovanissimo Garboli che ne scrive lo splendido risvolto di
copertina dove parla di «un insolito gioco, storia e insieme
interpretazione analitica di uno strano adulterio non consumato».
L'allenatore non allude infatti a un tecnico di calcio ma a un
individuo chiuso, intransitivo, che sembra aprirsi all'universo
femminile solo nelle pause della passione ben altrimenti declinata e
consacrata ad un'unica donna (signora padrona per etimologia),
nientemeno la Juventus. Di segno deliberatamente autobiografico,
scritto in prima persona e scandito in monologhi che lo stesso Bruno
definisce esteriori (per distinguerli dalla moda joyciana),
L'allenatore è il romanzo di un apprendistato che va a vuoto,
è la storia apertamente bovaristica, virata al maschile, di qualcuno
che ambisce alla totalità dell'esperienza ma accede solamente a una
parzialità delusiva, e cioè surrogatoria, fantasmatica: il
protagonista non attinge la pienezza del senso (vale a dire la storia
d'amore) ma ricade, a cadenza coatta, nella passione infera del tifo.
I flash che costellano il
romanzo (la Juve del quinquennio anni trenta vista da bambino allo
stadio di Bari, le serpentine di Praest, le impennate di Omar Sivori,
cui il romanzo è addirittura dedicato) sono perciò necessarie
compensazioni o superstizioni di un'inesistenza che va in folle,
svuotata e del tutto reificata nel mare di merci che viene intanto
accumulando il Boom economico. Tra i romanzi più intensi e
compiuti del decennio, il significato de L’allenatore viene
colto nel profondo da una lettera che Ennio Flaiano scrive a Bruno il
15 dicembre del '63 (ora in Soltanto le parole: lettere di e a
Ennio Flaiano, a cura di Anna Longoni e Diana Ruesch, Bompiani
1995): «Il tuo libro ha questa bellezza, che pur essendo il frutto
di un'intelligenza felice, mortificata dalle circostanze, dal
carattere, da un certo bisogno di auto-distruzione, è un'ultima
ricerca di verità. E l'unica verità che in fondo ti interessa è la
verità di te stesso, il bisogno di conoscere la trappola in cui sei
caduto (parlo di trappola esistenziale) che cosa significhi». In
fondo ad ogni trappola che il protagonista prepara a se stesso c'è
soltanto disamore, fuga, autismo psicologico ma nello stesso tempo lì
resiste un filo di fedeltà infantile, un incanto che può sembrare
simile alla poesia.
«Ma lasciatemi in pace
stasera non esisto sono solo con il sol di Praest il sol dei sol c’è
l’infinito Praest che avanza palla al piede verso la porta
dell’Inter»
Ed è la poesia che si
sorprende infatti ad invocare o impunemente a reclamare nel delirio
insonne, mentre sta rammemorando il gol di Praest all'Inter nel '52:
«... ma lasciatemi in pace stasera non esisto sono solo con il gol
di Praest il gol dei gol c'è l'infinito Praest che avanza palla al
piede verso la porta dell'Inter lui solo contro mezza squadra quattro
cinque avversari distrutti annullati tutti ai suoi piedi cancellati
cinquanta metri percorsi da solo il pallone dolcemente teneramente
guidato dal suo magico piede l'inarrestabile Praest da metà campo
fino alla porta dell'Inter mediani terzini portiere gli vanno
incontro a turno e non lo ferma nessuno chi può fermarlo? è Praest
della Juventus mia per favore ditemi che è poesia».
Per entrambi i
fuoriclasse, narratore e narratario, questo è poco più di un lampo,
un fuoco fatuo che già annuncia il principio della fine. All'uscita
del romanzo, da tempo Praest è a Copenaghen dove lo attendono
decenni di paradiso socialdemocratico, un'esistenza borghese e
lontana dal clamore. Al contrario, il silenzio ulteriore di Bruno ha
qualcosa di sinistro, tellurico, autodistruttivo, come Flaiano ha
perfettamente intuito. Bruno si sposa, si separa, poi fugge da Roma e
toma pressoché in incognito a Presicce, murandosi in una reclusione
accidiosamente autopunitiva. Dopo L'allenatore non ha scritto
un rigo e a chi gliene chiede qualcosa magari proponendo una ristampa
risponde, sorpreso e persino seccato, che il romanzo ormai sta bene
nel suo loculo. Confessa agli amici che passa tutto il tempo a
leggere e rileggere Dostoevskij e Celine. Lo si vede soltanto di
prima mattina al bar del paese mentre sfoglia indifferente
“Tuttosport”. Muore a settantotto anni, in solitudine,
all'ospedale «Petrucciani» di Lecce il 18 marzo del 2001.
All'indomani, i giornali
riferiscono della scomparsa di Salvatore Bruno in tre righe
d'agenzia, lo stesso trattamento che è stato riservato, dieci anni
dopo, a Karl Aage Praest. Del resto, c'è uno stalinismo che non è
mai morto, oggi di senso comune, lo stesso che in letteratura ha
sempre prediletto gli «ingegneri delle anime» e nel calcio gli
atleti formattati, se possibile clonati. Da tempo i fuoriclasse non
sono più di moda.
"alias - il manifesto", 28 gennaio 2012
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