Del recente romanzo di
Renée Reggiani, Il triangolo rovesciato, ha già scritto
ottimamente sull’«Unità» (13 gennaio 193) Aurelio Minonne e
perciò non ritornerò sul libro, ma partirò da esso per alcune
considerazioni su un genere, o sottogenere, che sta acquistando
sempre più peso nelle nostre letture nonché nella produzione
italiana.
Un romanzo, come ogni
altra opera d’arte, può essere letto su vari piani; almeno su due.
Il primo (quello della superficie, che si afferra subito da tutti) è
il piano della storia raccontata: un tale che impazzisce leggendo
romanzi cavallereschi e vede il mondo come è raffigurato in quei
libri; due giovani contadini lombardi che impediti nel loro amore poi
vincono gli ostacoli e si sposano; le vicende di una famiglia di
pescatori in Sicilia; la vita di un tale a Trieste, quale lui la
richiama al ricordo per ottemperare alle prescrizioni del suo
psicanalista, e così via dicendo. Il secondo piano — intrecciato
col primo e più interessante — è quello dei significato «vero»
del libro, della visione del mondo che l'autore ha. delle sue
reazioni di fronte al mondo in cui vive, delle cose dunque (del
«messaggio») che vuole trasmettere: un messaggio che egli non
enuncia esplicitamente, in termini solo intellettuali, come farebbe
un saggista, ma che cala e nasconde in una «storia» inventata, in
una «favola», in una «finzione»: tutti termini con i quali i
tecnici indicano l’invenzione narrativa.
L’avventura di Don
Chisciotte diventa allora una metafora che dalla satira della
letteratura cavalleresca si allarga a una visione dolente del mondo
intero. La storia dei due contadini lombardi, i promessi sposi
manzoniani, chiude in sé la visione, tutt’insieme provvidenziale e
pessimistica, che Manzoni aveva della vita umana, non solo nel
Seicento italiano ma in tutte le età e in tutti i paesi. La vicenda
di quella famiglia di pescatori serve a dire le reazioni di un
borghese del secondo Ottocento (di quel borghese: italiano,
siciliano, di origine agraria, colto, Giovanni Verga) di fronte alle
devastazioni che la nascente società urbana, finanziaria.
industriale produceva, a parer suo, nelle coscienze e nei
comportamenti. E così via.
••••
C'è, però, una
osservazione capitale da fare. Il deposito di materiali da cui lo
scrittore attinge le sue favole per raccontarle e impregnarle di
senso (farne metafore) non è casuale, ma cambia di età in età in
armonia con i caratteri e le esigenze di quella società e di quella
cultura.
Nel primo Ottocento, in
tutta l’Europa, questo deposito è la storia. Nel secondo Ottocento
questo modulo narrativo (il romanzo storico) è abbandonato, e gli si
sostituisce un altro modulo: il romanzo che trae le vicende che narra
dalla realtà contemporanea, da tutti gli aspetti della vita del
tempo, da tutti gli strati sociali. E questo romanzo ha dietro di sé,
a spiegarlo e a legittimarlo (a farne una cosa seria) tutta la
cultura del tempo: il positivismo di Comte e quello di Taine,
l’evoluzionismo di Darwin, la teoria dell’ereditarietà, le tesi
di John Stuart Mill, il socialismo. Nonché tutta la storia
travagliata del secondo Ottocento.
Più tardi, con gli anni
Novanta, anche questo serbatoio è abbandonato, per un altro: quello
dell’analisi dell'individuo, della introspezione, dello scavo
interiore, della memoria; a caratterizzarlo basterà un particolare
solo: non più «Papà Goriot», «Madame Bovary», «Nanà»,
«Mastro-don Gesualdo», «Daniele Cortis», ma «La coscienza di
Zeno»: non la vita di un uomo ma una parte di essa e quanto e come
gli si riaffaccia alla memoria richiamata dal presente.
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Ma intanto, nel secondo
Ottocento, nuovi serbatoi di temi venivano scoperti, anche se per
anni ignorati o trascurati dai critici: il romanzo poliziesco, per
esempio che allora fu detto per lo più «giuduiziario», che nacque
da ottime origini (fra i creatori vi fu Edgar Allan Poe), che
rispondeva a tante esigenze dell’uomo di allora. Infatti
confluivano in esso interessi o moti diversi: lo scientismo del tempo
e il culto perciò della ragione raziocinante (Sherlock Holmes!);
l’urbanesimo e l'industrialismo che modificavano i caratteri della
delinquenza e rendevano inquieti e determinavano il bisogno di
rassicurazioni (il delitto non paga); il trasferirsi dell’avventura
(quanti romanzi avventurosi prima!) dalle vie maestre e marine alle
grandi città, in tutti gli ambienti sociali. Così il romanzo
poliziesco è stato anch’esso metafora per dire tante cose del
mondo di allora e di quello posteriore e ha potuto essere emblematico
dello sviluppo della civiltà americana (la San Francisco di Hammet,
la Los Angeles di Chandler) o della mentalità piccolo-borghese
europea negli anni Trenta (si pensi a Simenon e alla sua parentela
con il cinema francese coevo).
Tanto è vero ciò, che
la sua importanza fu compresa pienamente, già negli anni Venti, da
sociologi, critici, scrittori; basterà, a noi italiani, ricordare
certi progetti di Gadda, certe righe esemplari e illuminanti, più
tardi, di Saba.
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Più tardi, a quel
serbatoio se ne sono aggiunti altri: la fantascienza, cioè
l’avventura avveniristica, possibile metafora anch’essa a dire
mille atteggiamenti e riflessioni, e speranze e paure dell’uomo di
oggi; e poi le storie di spionaggio e più tardi ancora la
fantapolitica.
Un maestro del romanzo
spionistico, Eric Ambler, ha scritto un saggio per collegare la
nascita di questo modulo con il rivolgimento che già durante la
rivoluzione francese ebbe luogo nei riguardi della spia: la Primula
rossa! E può essere vero; ma è vero certamente che la diffusione
del genere in questi ultimi decenni, così come la nascita e la
diffusione del romanzo di fantapolitica, si intrecciano con tante
caratteristiche della nostra società e con la coscienza che le masse
ne hanno acquisita: il peso (in positivo e in negativo) dei servizi
segreti, e la parte che hanno avuta in tante vicende di storia; gli
scandali politici che si sono susseguiti in tutti i paesi; le trame
rosse e nere, spesso di estensione mondiale; il terrorismo diffuso, e
molti suoi gesti clamorosi; il senso, che ormai abbiamo, di poteri
occulti che manovrano nell’ombra e delle cui mire noi subiamo i
contraccolpi; il senso delle leggi spietate che governano questa
politica e delle compromissioni con essa di tanti; il senso, ancora,
di pericoli che incombono su noi e che potrebbero, un giorno,
travolgerci.
Ancora una volta, il
serbatoio da cui i narratori traggono le loro invenzioni non è
casuale, è nel cuore della società in cui viviamo. E ciò spiega
tante cose. Perché di questi generi ritenuti inferiori
(para-letteratura, si diceva una volta con disprezzo) abbiano
cominciato ad accorgersene anche letterati di educazione e di
ambizioni alte e perché dunque questi temi stiano diventando sempre
più comuni, usati da mestieranti da strapazzo e da scrittori di
grido. Perché allora sia diventato impossibile catalogare,
distinguere e giudicare secondo il genere.
Tanti libri «di autore»,
ambiziosi e «scritti bene», sono poi insignificanti, ripetizioni
manieristiche di scuole ormai tramontate, privi di motivazioni serie:
gusci vuoti; tanti libri, invece, polizieschi o di spionaggio o di
fantascienza, sono emblematici dei problemi che oggi travagliano
l’uomo e possono dirsi «di massa», nel senso che parlano a tutti.
Al principio
dell’Ottocento dire che un romanzo era «storico» non significava
niente dal punto di vista del valore del libro: c’erano i «Promessi
sposi», c’era tanta robaccia da strapazzo. Lo stesso è oggi: dire
che un romanzo è «giallo», «spionistico», «fantascientifico»,
«surrealistico», «avanguardia» ci chiarisce solo l’appartenenza
del libro a questo o a quel sottogenere. Non ci dice niente del suo
valore: intellettuale e artistico.
L'Unità, 14 maggio 1983
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