Pera orale, rettale o vaginale per torture |
All’atto
della pubblicazione di questo fascicolo avremo forse, nel nostro
ordinamento, il delitto di tortura. Il dubbio è, peraltro, d’obbligo
perché da oltre trent’anni il Parlamento elude l’impegno di
inserire nel codice penale uno specifico delitto di tortura coerente
con la previsione dell’art. 1 della Convenzione di New York del 10
dicembre 1984 e i rinvii al riguardo non si contano. L’ultimo
risale al luglio scorso quando, in dirittura di arrivo, la
maggioranza si è spaccata e una sua parte consistente ha annunciato
il voto contrario se non si fosse previsto che, per la sussistenza
del delitto, occorrono violenze o minacce “reiterate”. Come se
non fosse sufficiente, per integrare una fattispecie di tortura,
strappare una sola unghia, spezzare un unico osso o realizzare un
solo stupro! C’è da non crederci ma è la realtà. E temo di non
sbagliare prevedendo che anche settembre passerà invano… In ogni
caso – anche per guidare future scelte interpretative – è
opportuno chiedersi perché ciò accade.
Il
punto di partenza è un apparente paradosso. Le manifestazioni della
tortura (sevizie brutali e inumane inflitte a freddo e finanche con
rituali macabri o alla presenza di congiunti delle vittime e via
seguitando) evocano situazioni e comportamenti patologici che
sembrano estranei a ogni “persona normale”. Nessuno di noi – si
dice con orrore – sarebbe mai capace di strappare le unghie, di
percuotere fino alla morte, di violentare e stuprare indefinitamente,
di applicare ferri e strumenti che straziano il corpo o bruciano le
carni, di spezzare le ossa o anche “soltanto” di colpire a freddo
con calci o pugni un’altra persona. E tutti proviamo un senso di
nausea insopportabile nel vedere le immagini di Abu Ghraib o i
filmati e le fotografie dei giovani (e meno giovani) sopravvissuti
alla mattanza della Diaz nel caldo luglio del 2001 o, ancora, il
volto martoriato di Stefano Cucchi, un volto – come è stato
scritto – «che eclissa quello del grido di Munch e delle mummie
che lo ispirarono». Eppure la tortura ha sostenuto regni e
dominazioni, salvaguardato religioni, dato soluzione a casi
giudiziari, rassicurato singoli e gruppi. E chi l’ha praticata,
lungi dal provare vergogna si è considerato spesso una sorta di
salvatore della patria. Non solo, ma se esaminiamo gli identikit dei
torturatori, troviamo spesso irreprensibili padri o madri di famiglia
pieni di attenzioni nei confronti dei propri figli, vicini della
porta accanto «che non farebbero male a una mosca», donne e uomini
colti e finanche raffinati, funzionari pubblici di provata
affidabilità. Torna – inevitabilmente – il riferimento alla
«banalità del male» evocata da Hannah Arendt nell’Olocausto. Ma
si tratta di una categoria che descrive una situazione, non della
spiegazione del suo perché. Una spiegazione può, forse, trovarsi
nelle pieghe delle discipline mediche o psichiatriche. Non è il mio
campo e non lo so. Ma anche se così fosse per alcuni o per molti dei
torturatori che attraversano il mondo non sarebbe spiegazione
sufficiente. Se non altro per il numero di attori – protagonisti,
comprimari, esecutori, comparse… che punteggia il vergognoso
scenario della tortura. C’è inevitabilmente dell’altro.
Che
cosa, dunque, produce, ispira o, quantomeno, consente, rende
tollerabile la tortura? Ci sono, a ben guardare, diverse ragioni. Due
su tutte, in qualche modo connesse. La prima sta in una cultura, in
una visione del mondo, in un approccio agli altri e alla realtà che
attraversa i secoli, a volte inabissandosi per poi riemergere,
soprattutto nei momenti di crisi, in maniera prorompente. È una
cultura più diffusa di quanto si creda, anche se non sempre e
necessariamente produttiva di effetti così traumatici. Il suo nucleo
forte è che la dignità e la libertà delle persone non sono valori
assoluti e intangibili, che fanno capo a tutti e a ciascuno, ma
semplici condizioni di fatto rimovibili, soccombenti a fronte di
altri valori (veri o presunti) e, soprattutto, non riconosciute al
nemico. In sintesi, la prima matrice della tortura – come di altri
comportamenti affini (dal genocidio alla pena di morte) – sta nella
costruzione di categorie, più o meno ampie, di nemici della società,
considerati alla stregua di non persone e, dunque, potenzialmente
destinatari di trattamenti diversi (e deteriori) rispetto a quelli
riservati ai nostri simili. La seconda ragione che apre la strada
alla tortura è la strumentalizzazione e l’amplificazione della
paura che, soprattutto in periodi di grande difficoltà (come l’età
del terrorismo in cui viviamo), giustifica tutto, anche i
comportamenti più disumani, irrazionali e controproducenti,
naturalmente “a fin di bene” (sic!).
Inutile
illudersi: se non si aggrediscono questa cultura e questo approccio,
anche la tortura, pur esecrata a parole, resterà protagonista della
scena (con le conseguenze devastanti, specifiche e generali, che le
sono proprie).
“Narcomafie”,
ottobre 2016
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