La storia americana
con i se e con i ma
È
quasi mezzanotte. Due uomini, nell’antico cimitero di Savannah, si
aggirano tra le vecchie lapidi, come se cercassero o aspettassero
qualcuno, nell’oscurità appena rischiarata dalla torcia elettrica
che uno dei due (John Kelso) reca con sé, mentre l’altro (Jim
Williams) porta una borsa. Finalmente sostano accanto a una tomba
sulla quale è scritto il nome d’un certo dottor Buzzard. Da
un’altra parte, sta arrivando qualcuno. Man mano che si avvicina,
si vede che è una vecchia donna di colore (Minerva), una lanterna.
Ha un aspetto bizzarro e un bizzarro abbigliamento, porta occhiali
scuri, parecchi giri di collane al collo e una grossa borsa legata a
un bastone. Sembra che conosca Jim, perché lo saluta, e Jim gli
presenta il suo compagno: una presentazione che suona un po’
incongrua in questa atmosfera da John, che le porge la mano in modo
formale. Poi la vecchia strega sistema sulla tomba alcuni oggetti che
Jim le ha portato e prende per mano i due uomini. Ha luogo un
esorcismo, tendente a rabbonire l’anima di un defunto, un certo
Billy, già amante di Williams, da questi ucciso durante una lite.
In Mezzanotte nel giardino del bene e del male, il film del
1997 di Clint Eastwood, Jim Williams, antiquario, miliardario, l’uomo
più ricco di Savannah, ha sparato al suo amante Billy, lo ha ucciso
e vuol far credere che si sia trattato di legittima difesa. Sembra
una persona razionale capace di pianificare freddamente la messa in
scena dell’assassinio a beneficio della polizia, che giustamente
non è convinta della sua versione - eppure Jim sente il bisogno di
ricorrere a Minerva, una vecchia strega di colore, perché lo aiuti a
entrare in contatto con lo spirito del morto e a placare la sua ira.
Così va a incontrarlo in piena notte nel vecchio cimitero dei neri
di Savannah, e per di più si porta dietro John Kelso, giornalista di
New York e scrittore fallito, che si trova a Savannah per un’altra
ragione: un servizio sul grande ricevimento di Natale che William
organizza ogni anno nella sua villa.
Ci si può chiedere come mai Jim decida di portare Kelso con sé,
coinvolgendolo in una cerimonia occultistica, dal carattere
decisamente regressivo; e si può rispondere che lo fa per parecchie
ragioni: da un lato vuole prendersi il gusto di impressionarlo e
scalfire la sua patina di superficiale sicurezza, dall’altro
intuisce che Minerva sarà in grado di leggere chiaramente
nell’interiorità del giovanotto e non mancherà di denunciarne i
limiti e le inibizioni. La ragione principale, tuttavia, attiene
all’economia narrativa del film: John Kelso assume cioè la
funzione di terzo estraneo (relativamente estraneo) a cui la vecchia
strega potrà spiegare, nel suo stile oscuro da oracolo, quale ruolo
assumono i morti nell’economia dei viventi (e quindi nel cinema di
Clint Eastwood). Gli dirà infatti: «Inciditi queste parole nel
cuore: per riuscire a capire i vivi, bisogna saper frequentare i
morti».
Nel giardino notturno, presso la tomba del dottor Buzzard (famoso
maestro di voodoo, del quale, come più tardi sapremo, Minerva
è la vedova), i due uomini attendono l’arrivo della vecchia, che
si intravede da lontano tra gli alberi come l’apparizione di un
fantasma invalido, rischiarando il suo cammino alla luce di una
lanterna. È buio, ci si vede appena, ma lei porta un paio di
occhiali scuri e non li toglierà per tutta la sequenza, salvo
alzarli un attimo sulla fronte per guardare bene in faccia John
Kelso, che le tende la mano con ipocrita cordialità. Così John ha
attirato l’attenzione della maga che, dopo averlo osservato con una
certa ironia, conclude: «Mi fai una gran pena, figlio mio». Jim le
chiede perché, e Minerva risponde: «È convinto che nessuno lo
ami». Ma è tempo di affrettare i preparativi, di predisporre sulla
tomba del dottore ciò che Jim ha portato con sé, secondo le
istruzioni della maga (una banconota, una manciata di monetine
lucenti, una bottiglia di acqua sorgiva, «non passata per nessun
tubo»), perché dall’aldilà il ragazzo morto «sta operando
pesante» contro Jimmy e vuole vederlo in galera. Inoltre, risuonano
in lontananza i rintocchi dell’orologio di qualche campanile, e non
resta gran che dell’ora dei morti. «Cos’è l’ora dei morti?»
- chiede John; e Minerva risponde, offrendo nel contempo la
spiegazione del titolo del film: «Dura un’ora esatta, da mezz’ora
prima di mezzanotte a mezz’ora dopo. Mezz’ora prima per lavorare
per il Bene, mezz’ora dopo per il Male. E "Per riuscire a
capire i vivi, bisogna saper frequentare i morti" noi abbiamo
bisogno di un po’ di tutti e due». Poi prende per mano i due
uomini, e incita Jim a dire qualcosa di gentile sul morto. Jim
ricorda l’amore con cui Billy lustrava la sua auto, la decorava, ci
dipingeva sopra: pochi lo sapevano, ma era molto creativo, in fondo
era un artista. Secondo Minerva, Billy ha sentito queste parole e le
ha apprezzate. Lo ha sentito che “mollava la presa”. Per ogni
evenienza, però, sarà bene che, un volta tornato a casa, Jim preghi
ogni santo giorno quel ragazzo di perdonarlo, scriva il suo nome
sette volte su un foglio di carta senza mai sollevare la penna,
pieghi il foglio due volte e lo porti sempre in tasca. Inoltre,
bisognerà che trovi una foto del morto, gli disegni una cucitura
sulla bocca e buchi i suoi occhi. È qui, a chiusura della sequenza,
che Minerva rivolge a John quel solenne monito: «Inciditi queste
parole nel cuore: per riuscire a capire i vivi, bisogna saper
frequentare i morti».
È strano che, dopo l’uscita e l’inatteso «successo» del
documentario Derrida girato in America nel 2002 da Kirby Dick
e Amy Ziering Kofman, la moglie di Jacques Derrida, Marguerite,
accusasse scherzosamente gli autori di aver fatto diventare suo
marito «un Clint Eastwood». Intendeva un divo, certo, ma è
singolare che, tra tutti quelli che avrebbe potuto citare, ne abbia
scelto uno che aveva così tenacemente bordeggiato, in quasi tutti i
suoi film, lungo i confini della spettralità, di quella spettralità
che Derrida considerava una delle specificità del cinema:
dispositivo produttore di fantasmi e dunque campo di mediazione tra i
vivi e i morti. Derrida stesso, d’altra parte, in un’intervista
apparsa nel 2001 sui Cahiers du cinéma, aveva citato i
western di Clint Eastwood come esempi dell’ossessione del cinema
per i fantasmi di un’epoca in cui il cinema non c’era. Se
Minerva, non la dea della Sapienza, ma la vecchia strega di
Mezzanotte nel bardino del bene e del male fosse stata in
grado di mettere per iscritto la sua filosofia, avrebbe potuto
sottoscrivere quanto Derrida afferma in Spettri di Marx:
«Apprendre à vivre, se resta sempre da fare, non lo si può
fare che tra vita e morte. Non nella vita né nella morte da sole.
Quel che accade tra due, e tra tutti i “due” che si vorrà come
tra vita e morte, non può che intrattenersi con qualche fantasma.
Bisognerebbe allora apprendre les esprits. Anche e soprattutto
se lo spettrale non è. [....] Bisogna parlare del fantasma, anzi al
fantasma e con lui, dal momento che nessuna etica, nessuna politica,
sia o meno rivoluzionaria, sembra possibile e pensabile e giusta,
senza riconoscere al suo principio il rispetto per quegli altri che
non sono più o per quegli altri che non ci sono ancora,
presentemente viventi, siano già morti o non ancora nati». Rispetto
per i morti, dunque, che è anche, per Eastwood, rispetto per i
non-ancora-nati-al-cinema - ad esempio, per le leggende e le figure
del West, dove si è formata l’identità americana. Il cinema
diventa, allora, elemento di mediazione tra il mondo dei vivi e
quello dei morti (cosa che risalterà pienamente in Hereafter).
Anche Minerva fa il suo mestiere di mediatrice tra i vivi e i morti,
ma sa benissimo che, a differenza dei morti, i vivi mentono. Mostra
di credere alla versione di Jim Williams, ma resta dubbio se ci creda
veramente. Per questo, nell’eseguire il suo esorcismo, sa di aver
bisogno del Bene come del Male e di dover perseguire una sorta di
equilibrio trai due: quell’equilibrio simboleggiato dalla statua
della fanciulla con una ciotola in ciascuna mano, che si vede
all’inizio del film e si vedrà di nuovo alla fine, emblema di una
paradossale giustizia, di un pareggiamento dei conti che porterà il
ricco antiquario, vittima di un infarto dopo l’assoluzione, a
raggiungere l’uomo da lui ucciso nel cimitero dei bianchi. Non
senza che, stramazzato a terra dopo una vertiginosa rotazione della
stanza, mentre rantola morente, gli appaia, disteso accanto a lui,
sogghignando come in attesa, il fantasma di Billy. Le ciotole che la
statua della fanciulla regge nell’una e nell’altra mano possono
ricordare, certo, la bilancia in equilibrio della Giustizia - ma
quella utilizzata nel film è la copia in vetro-resina di una statua
originale in bronzo, nota come «Bird Girl», in cui una scultrice di
Savannah, Sylvia Shaw Judson, ai primi del Novecento, aveva
raffgurato una ragazza che offre (nelle ciotole) mangime agli
uccelli. Tutto sommato, in un certo senso, siamo di fronte anche a un
simulacro di statua (...). Il film è tutto costruito sullo sguardo
di John, l’estraneo - sul suo impatto con Savannah, gli strani
tipi, i fantasmi che la abitano - ma con una vistosa eccezione. Non
c’è lui, come non ci sono altri testimoni, quando la stanza
comincia a girare attorno a Jim che muore, accanto allo spettro di
Billy c’è soltanto la macchina da presa, la muta testimonianza del
cinema.
In “alias il manifesto”, 28 gennaio 2012, dal saggio Spettralità,
nel volume Clint Eastwood, a cura di Alessandro Canadè e
Alessia Cervini, ed. Pellegrini, Cosenza, 2012
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