Cancellare il male,
riaffermare gli istinti, abolire le regole e in tal modo ricreare
l'uomo e la società: erano questi gli stimoli alla base dell'antico
rituale carnescialesco. Di questa complessa pienezza oggi resta ben
poco. La nostra cultura ha trovato molte altre valvole di sfogo
all'ansia umana.
Un antico carnevale a Roma |
I grandi carnevali dei
tempi nostri hanno alle spalle una cronaca antica e una densità di
significati antropologici che la baldoria, la sfrenata consumazione
di cibi, il mascheramento, i corsi dei carri, nel loro esplodere
festoso, testimoniano soltanto come pallido residuo.
I Romani celebravano, il
17 dicembre, il pacifico e insieme tremendo dio Saturno, progenitore
delle genti italiche e nume del solco e del seme. In quel giorno il
mondo era capovolto, il potere era sospeso al filo di una temporanea
interruzione: gli schiavi avevano il diritto di mangiare con i
padroni, le case erano lasciate aperte, ogni passante poteva farsi
ospitare alla mensa imbandita. La festa, però, si fondeva con
l’immagine conturbante della morte, e questa impensata relazione
durerà fino ai tempi nostri. Proprio nei Saturnalia, schiavi
e improvvisati attori impersonavano, nelle case e nelle piazze, le
larve, i nefasti fantasmi dei trapassati, vestendo di bianco,
l’antico colore funebre, e coprendosi il volto con maschere. L’anno
moriva, così, in un clima ambiguo e angosciante, nel quale si
fondevano la gioia della libertà riconquistata per un giorno, il
ritorno degli spettri e l’attesa della germinazione dei semi
deposti nella terra.
Forse il Carnevale è
l’erede di questo momento orgiastico delle antiche culture dalle
quali veniamo, anche se si inserisce in un periodo posteriore a
gennaio. Conserva, però, tutti gli aspetti di un rituale laico e
religioso di distruzione e rifondazione del tempo e del ciclo
annuale, e va tenuto presente che il calcolo del Capodanno non
corrisponde necessariamente al 31 dicembre-1 gennaio. È Capodanno
ogni tempo che apre una nuova ciclicità e ne conclude quella
precedente: e la fase carnevalesca si colloca, con la sua estensione
diversamente calcolata, fra il Santo Stefano e il Mercoledì delle
Ceneri, a cavallo dello spirare dell’anno astronomico e dei primi
annunzi di primavera. Diviene un «Capodanno» delle remote genti
europee, soprattutto dei contadini e dei pastori, che riprendono la
loro opera o si preparano a riprenderla dopo il sonno invernale.
Tutti i cerimoniali lo qualificano come una cancellazione del male
che è alle spalle, dei rischi superati, dei malesseri tormentanti
dei mesi trascorsi, e insieme come un rifare mondo, uomo e società
attraverso un crollo nella non storia,in una apparente e fittizia
abrogazione delle regole, quasi un regredire verso il caos per
ricreare l’ordine del cosmo. Intanto su questo momento è passata,
in radicali influenze, la predicazione cristiana, operando profonde
trasformazioni di significati, anche se al di sotto delle nuove forme
irrompe l’arcaica energia repressa del calarsi nel nulla per
ricostruire il tutto. Già lo stesso nome della festa ha origini
incerte dopo la fase di cristianizzazione. Nei paesi sassoni la notte
fra il martedì e le Ceneri si indica come Fasnacht, che
meglio attesta il tripudio orgiastico che l’accompagna, poiché
viene da un verbo, faseln, che significa vaneggiare, delirare
e impazzire.
Ma il nostro Carnevale
dei paesi latini è forse strettamente connesso agli usi comandati
dalla chiesa, se è vero che il nome è l’abbreviazione di carnes
levare, dalla lettura di una sequenza ad levandas carnes,
«a sospendere l’uso alimentare della carne» che si leggeva nella
messa della domenica antecedente Quaresima. Ma la costante presenza
di carri mascherati, da Colonia a Zurigo, a Roma, a Viareggio, a
Ivrea, fece pensare anche a una diversa storia del nome, che veniva
riportato al cursus navalis, abbreviato poi in curnuvalis
e infine carnavalis, per ricordare gli antichi riti di Dioniso
e di Iside nel corso dei quali, nella più scomposta libertà, quelle
divinità erano celebrate con cortei di carri a forma di nave o di
aratro.
I giorni di follia
coprono un arco diverso nei calendari locali, ma si interrompono, in
ogni caso, al Mercoledì delle Ceneri, il giorno che, nella liturgia
ecclesiastica, apre il lungo corso penitenziale verso la Pasqua di
Resurrezione. Non è una festa inserita nel calendario ecclesiastico
e proprio per ciò manca di una precisa limitazione di data.
Cominciava, una volta, immediatamente dopo Natale, a S. Stefano, la
data nella quale, secondo la consuetudine, si aprivano i grandi
teatri italiani fino alla fine dell’800. Ma più frequentemente
comincia nel giorno di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, o in
quello della Purificazione della Vergine, le cosiddette Candelore,
che la chiesa avrebbe introdotto proprio per porre freno alla licenza
carnevalesca. In alcuni paesi si limita agli ultimi tre giorni o al
solo martedì grasso, mentre nelle regioni di liturgia ambrosiana
(Lombardia) termina la prima domenica di Quaresima, con quattro
giorni in più.
Le storie locali
documentano molto bene l’aspetto di ribellione controllata e di
«mondo capovolto» che è il cuore del periodo carnevalesco. A
Colonia era la Notte della follia delle donne e fino al XIX secolo
alle donne veniva attribuita un’autorità assoluta. Che abbia, in
uno dei suoi filoni, l’esaltazione della sessualità femminile
repressa all’interno delle società patriarcali risulta anche dal
nome che, nei paesi della Renania, assumevano i giovani questuanti
del Carnevale. Si chiamavano Zimbertsburschen, quasi ragazzi
che dichiaravano la loro assoluta dipendenza da Bertha o dalla Donna
(Zimbert è forma dialettale di Sankta Bertha), e
Bertha era il misterioso personaggio medievale presente nella
tradizione delle streghe e delle orge. Il tema femminile e sessuale
ha corrispondenze europee, poiché' nelle terre campane si
rappresenta la Zeza, una farsa cantata nella quale il cerimoniale
giocoso della morte di Carnevale esige interventi gestuali e cantati
osceni e la presenza di personaggi travestiti da donna e da
omosessuali.
In questa sospensione
della normalità irrompe occasionalmente la violenza. Chi non ricorda
gli episodi di aggressività che segnarono il Carnevale del 1975 a
Roma, quando orde di giovani, profittando dei mascheramenti,
assalirono donne e bambini a via Nazionale e a via Veneto? Vi sono
illustri precedenti e uno studioso francese, Le Roy Ladurie, ha
recentemente rievocato la storia del Carnevale di un paese del
Rodano, Romans, dove nel febbraio del 1580 i partecipanti delle due
rive del fiume si uccisero in uno scontro assurdo. La preoccupazione
di improvvisi furori e, insieme, la sollecitudine ecclesiastica per i
buoni costumi facevano scrivere a un anonimo istriano del XVII
secolo, nel suo Discorso contro il Carnevale: «Ma qual notte
può essere più tenebrosa et oscura... spaventevole ai buoni.
Coperto l’uomo sotto una tenebrosa maschera, se apposta l’inimico
spenserato, lo offende e non è conosciuto».
Ma il Carnevale è anche
spensieratezza, abbandono delle quotidiane angustie, godimento di
breve libertà, che si fa licenza e, insieme, riaffermazione delle
istintualità cancellate. Fin dal XIV secolo i canti popolari e le
ingenue rappresentazioni che accompagnavano questi giorni assunsero
dignità letteraria. Conserviamo circa quattrocento canti
carnascialeschi, alcuni scollacciati e decisamente immorali, e
servivano tutti ad accompagnare le grandi mascherate.
Ma gli usi popolari
esigono, in molte regioni, che nella festa sia inserito lo spettacolo
estremamente elementare della combustione o della finta uccisione di
un elemento o di un personaggio simbolico che è, insieme, il piacere
alimentare dei vitti non più consumabili in Quaresima e il ciclo
annuale passato. E la «morte di Carnevale», che si riduceva al
bruciamento di un palo rivestito di combustibili vili (lo «scarlo»)
a Ivrea e nel Canavese. In un sinodo milanese del 1674 si fa espresso
divieto della combustione notturna dell’effigie di Carnevale, e
perciò l’uso doveva essere molto diffuso. A Napoli, nella Zeza,
sono presenti un notaio e un medico, questi per accertare la morte,
il primo per raccogliere il testamento. Tutto, però, si calava in
una serie di comportamenti che richiamavano la morte, quasi che
l’emergenza dell’istinto di vita non potesse essere disgiunta dal
forte impulso freudiano di distruzione. In molte città italiane
passavano cortei notturni di uomini mascherati con teschi e tibie. Ad
Asti i parroci, nel 1627, erano costretti a vietare che, durante il
Carnevale, si accendessero roghi su sepolcri e ci si abbandonasse a
baccanali. Mangiare, consumare cibi in abbondanza è un tentativo di
sanare il rischio insito nelle grandi feste che segnano una crisi del
gruppo o è anche stabilire una comunione mistica con le forze
potenti che emergono in tale crisi. Perciò Carnevale ha i suoi cibi
«rituali»: la lasagna a Napoli, preparata secondo antiche ricette
molto diverse da quelle proprie dell’area romagnola-emiliana e
ricca di ricotta, salsicce, grassi, uova, pomodoro; i ravioli in
Abruzzo; le castagnole, originarie delle Marche; la gallina più
vecchia in Romagna, con l’intento magico di preservare dalla morte
le altre galline del pollaio. Ricorre anche, come privilegiato, il
sangue di maiale nel sud, per la preparazione di speciali budini
dolci, di salsicce di sangue e di fritture (sanguinacci). Siamo
intorno al periodo dell’uccisione dei maiali, gli animali legati
all’abbondanza della casa rustica, e riappare una tradizione
antichissima: la chiesa ha costantemente proibito di mangiare il
sangue ed esigeva che il sangue tratto dai cerusici ai clienti
ammalati fosse seppellito in terreni particolari. Ma ha pure
consentito che fosse consumato sangue porcino, accettando i costumi
delle plebi rurali. Pausa nel ritmo ossessionante delle quotidiane
fatiche e nella invivibilità delle pressioni istituzionali, il
Carnevale ebbe una funzione liberatoria nelle società che ci
precedono, del resto come altre date, quella dei Santi Innocenti e
dell’Epifania. Ci si imbarcava sulla nave dei folli per un viaggio
più o meno lungo, il rigore dei bargelli, dei signori feudali, dei
principi si dissolveva, il piacere in tutte le sue forme trionfava.
E, nella notte fra il martedì e il mercoledì, il breve incanto
aveva termine in un ritorno, rinfrancato, ai modelli normali.
Oggi di questa complessa
pienezza di tempo stagionale resta ben poco, forse soltanto la
componente giocosa. L’alternanza fra la gravità del quotidiano e
la follia ha trovato nella nostra società altri sbocchi e altre
valvole di sicurezza, principalmente nei fenomeni del divismo, dello
sport violento, delle folle piegate da capi carismatici.
Ritaglio senza data da
“Qui Touring”, mensile del TCI, probabilmente 1981
Nessun commento:
Posta un commento