Ciò che distacca Groucho
Marx dagli altri grandi comici dello schermo è che la sua maschera
si presenta con gli attributi esteriori del prestigio, del successo,
dell'autorità, del saper vivere: sigaro baffoni occhiali abito scuro
e quell'avanzare a lunghi passi a ginocchia piegate in fuori come
pattinando che è la sua invenzione mimica più emblematica.
Mentre lo spazio vitale
da cui i suoi due fratelli traggono la loro frenetica euforia sono la
libertà l'avidità l'astuzia del nullatenente assoluto (Chico con la
sua aria d'emigrante italiano della Brooklyn inizio del secolo; Harpo
con la sua aria d'angelo spiritato e un po' perverso piovuto da un
cielo chagalliano) - e in questo rientrano nel filone delle classiche
maschere comiche da Chaplin e Keaton a Woody Allen, del disadattato
patetico, del povero cane preso a calci dalla vita, dell'underdog
sociale o psicologico - i ruoli che Groucho incarna sono invece
sempre in qualche modo figure di potere (dittatore, miliardario,
impresario, grande avvocato, professore universitario).
Ma di questo potere
Groucho mette fuori tutta la sostanza ignobile, svela di quanta
bassezza è impastata ogni affermazione di prestigio, di quanto
cinismo ogni pretesa di rispettabilità, di come ogni successo non
sia che una precaria vacanza senza illusioni prima di ripiombare al
livello zero da cui si è partiti. Se le maschere dell'underdog
sublimano l'insuccesso, Groucho sveste il mito del successo d'ogni
possibile sublimazione, dimostra quanto l'affermazione sociale porta
con sé di miserabile e di gaglioffo.
Consumato viveur e
conquistatore irresistibile, Groucho insegue bionde vedove giunoniche
e soprattutto i loro conti in banca, ma le sue mosse di seduttore
sono così sbadate e disincantate da togliere alla conquista ogni
significato e valore. Ciò che Groucho sa è che il traguardo d'ogni
azione ambizione desiderio è il poco o il nulla. Per questo, in fin
dei conti successo e insuccesso s'equivalgono nel suo imperturbabile
sarcasmo.
Si può dire che Groucho
non ha mimica facciale: la sua fisionomia è sempre ferma (in
contrasto con gli stralunamenti ininterrotti di Chico e di Harpo); le
sue gags sono affidate alla parola; le sue operazioni espressive
consistono in cortocircuiti verbali, in fulminee discontinuità
comportamentali. “Chiedo mille dollari”. “Te ne offro dieci”.
“Ah, ah, ah!” Risata sprezzante e di compatimento, e poi subito:
“I take it!” (“Ci sto!”)
Chico, che parla il
cattivo inglese degli emigranti, e Harpo il muto, che s'esprime
estraendo oggetti dalle inesauribili tasche, compensano il difetto
d'articolazione con la musica. (Il primo è un virtuoso di piano, il
secondo d'arpa). Groucho è la negazione della musica, è la
prosaicità più brutale, è la stonatura perpetua.
Ma proprio perché
rifiuta ogni autoillusione, proprio perché dissolve gli orpelli e
riduce tutto a una essenza umana elementare, Groucho afferma la
superiore dignità di ci si presenta per quello che è, l'innocenza
di chi gioca a carte scoperte, il disinteresse di chi sa che tutte le
vincite si risolvono in fumo.
Per questo sento il
bisogno d'inchinarmi alla memoria di Groucho, e lo associo nel mio
rimpianto a un altro grande cinico che se n'è andato quest'estate,
un altro spietato osservatore del genere umano come spettacolo comico
e sgradevole, un altro manipolatore dell'elasticità della lingua
(dell'inglese come la più elastica delle lingue) per rendere le
smorfie e i passi falsi dell'esistenza: il romanziere Vladimir
Nabokov.
"Corriere della
Sera", 28 agosto 1977 ora in Una pietra sopra, Einaudi
1980)
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