Victor Hugo |
Be', si potrebbe
cominciare così: «Sappia dunque la signoria vostra, prima d'ogni
altra cosa, che mi chiamo Lazzaro di Tormes, figlio di Tommaso
Gonzales e di Antonia Perez...». Oppure, con sbrigativa solennità:
«Chiamatemi Ismaele». O ancora, con causidica e disperata ironia:
«Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era
questa: che mi chiamavo Mattia Pascal».
Certo, si potrebbe
cominciare così: presentandosi con tanto di nome e cognome e
paternità; o almeno con il nome di battesimo. Ma, qualche volta, le
circostanze del passato potrebbero indurre a un maggior riserbo: «Il
mio vero nome è così noto negli archivi e registri del carcere di
Newgate e dell'Old Bailey, e vi sono ancora implicati, riguardo la
mia personale condotta, certi fatti di tanta importanza, che non
dovrete attendervi che io accompagni al racconto il mio nome o un
ragguaglio della mia famiglia...».
E poi, non è detto che
sia proprio necessario, per raccontare una storia, esporsi in prima
persona: si può benissimo presumere, o fingere, che si tratti di
qualcun altro, di una terza persona: per esempio un personaggio
famoso delle cui vicende si sia minuziosamente al corrente
(«Nell'autunno del 1787 Mozart intraprese, in compagnia di sua
moglie, un viaggio per Praga...»), o un uomo d'alto lignaggio al
quale attribuire un nome di fantasia («Edoardo - chiameremo con
questo nome un ricco barone nel fiore dell'età virile - aveva
trascorso le più belle ore d'un pomeriggio d'aprile nel suo
frutteto...») o, al contrario, un tipo così normale, così
qualunque, che non conta tanto come si chiama, quanto come lo
chiamano: «Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio».
Il lettore si rassicuri:
non ho nessuna intenzione di giocare agli indovinelli. Mi affretto
dunque a dichiarare (pur ritenendo la precisazione largamente
superflua) che le mie non erano ipotesi o proposte, ma pure e
semplici citazioni. Ecco qua, nell'ordine: La vita di Lazzarìno
di Tormes (1554) Moby Dick (1851) di Herman Melville; Il
fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello; Moll Flanders
(1722) di Daniel De Foe; Mozart in viaggio per Praga (1856) di
Eduard Mòrike; Le affinità elettive (1809) di Johann
Wolfgang Goethe; Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
(1957) di Carlo Emilio Gadda.
Tanto affastellamento di
nomi, titoli e date (e siamo solo all'inizio!) è per rispondere,
anzi per tentare di rispondere a una domanda semplicissima: come si
fa a cominciare un romanzo? O, se si preferisce: come iniziano i
romanzi (alcuni dei romanzi) più belli o famosi?
Curiosità legittima,
impresa, ahimé, tanto affascinante quanto disperata. Anche se ci
limitiamo a prendere in considerazione il moderno romanzo
occidentale, cioè la tradizione alla quale appartengono, bene o
male, i romanzi che ancora oggi si scrivono e si pubblicano
(altrimenti, dicono gli esperti, dovremmo risalire alle chansons
de geste medievali, o alle narrazioni ellenistiche dei primi
secoli dopo Cristo, o ad ancora più remoti testi aramaici o
assiro-babilonesi, o addirittura ai poemi omerici...), e prendiamo
dunque come punto di partenza il Gargantua e Pantagruel di
Francois Rabelais, o il romanzo picaresco spagnolo (di cui il già
citato e anonimo Lazzarino di Tormes è il primo esempio
conosciuto), o il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes,
quello che ci sta di fronte è un territorio sterminato, un vero e
proprio continente, ricco di città e foreste, di fiumi e montagne,
di zone infinitamente popolose e di terre suggestivamente desolate;
un mondo intero di storie - migliaia, decine di migliaia di storie -
che nel corso di quattro secoli sono state raccontate, ripetute,
variate e dunque, ogni volta, «cominciate», cominciate in tanti,
tantissimi
modi diversi, dai più
canonici ai più bizzarri, dai più prevedibili ai più stupefacenti.
La campionatura offerta
poco fa riguardava una sola - la più naturale, in un certo senso -
delle categorie possibili: quella in cui l'inizio coincide con la
presentazione «anagrafica» (ingenua o sofisticata, schietta o
reticente) del protagonista narrante o narrato. È forse inutile
aggiungere che, in questo come nei casi che seguiranno, la
campionatura non soltanto è minima rispetto alla vastità della
casistica, ma è anche, inevitabilmente, dettata dai gusti, dalle
predilezioni, dalle personali nostalgie di chi la effettua: in questo
caso, ovviamente, dai miei. In altre parole, nel mettere insieme un
minirepertorio di «come si comincia» uno finisce col dare, lo
voglia o no, anche una mappa delle sue letture privilegiate, dei suoi
amori, dei suoi «points de repère»; e dunque,
indirettamente, una lista subdola di libri consigliati, di libri «da
leggere»...
Chiarito, per scarico di
coscienza, questo aspetto della faccenda, e prima di passare ad altri
capitoli o settori dell'empiricissimo repertorio, vorrei avvertire
che, a mio avviso, l'inizio di un romanzo ne condiziona solo fino a
un certo punto lo svolgimento e il destino. A differenza di una
poesia o di un brano musicale, in cui la battuta iniziale determina
in modo ineludibile l'ambito tonale e il disegno tematico, un romanzo
pone, con il suo inizio, delle premesse che il futuro del testo potrà
confermare ma anche ribaltare, approfondire ma anche eludere: giacché
il romanzo è davvero (e questa, penso, è la sua assoluta
peculiarità rispetto ad ogni altro genere di espressione artistica)
un organismo vivente, un'entità biologica, non meno che una
struttura formale; qualcosa, insomma, che assomiglia alla vita, con
le sue eccezioni e i suoi scarti, almeno nella stessa misura in cui
assomiglia a un trattato di filosofia, a un'ode o a una sinfonia.
Ma torniamo al nostro
gioco. Subito dopo la categoria degli inizi che ho chiamato
«anagrafici» mi sembra ragionevole porre quella degli inizi di
carattere temporale o cronologico, nei quali, cioè, l'autore dà o
finge di dar conto del momento (anno, stagione, giorno del mese o
della settimana, ecc.) in cui la narrazione comincia e,
presumibilmente, è destinata a continuare. Anche in questa categoria
si va da un massimo di precisione a un massimo di indeterminatezza,
sottilmente sfumata o esibita.
Qualche esempio del primo
tipo: «Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il
Ville-de-Montereau stava per partire e spandeva grosse volute di fumo
davanti al quai Saint-Bernard» (Gustave Flaubert, L'educazione
sentimentale); «Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece il
suo ingresso a Milano alla testa di quel giovane esercito che aveva
passato il ponte di Lodi...» (Stendhal, La certosa di Parma);
«Nel 1815 Charles-Francois Bienvenu Myriel era vescovo di Digne»
(Victor Hugo, I miserabili); «L'inverno del '44 è stato a
Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo» (Elio
Vittorini, Uomini e no); e così via - è il caso di dirlo -
all'infinito.
Ed ecco, invece, alcuni
casi in cui si accenna, sì, a una circostanza temporale, ma in modo
così generico o enigmatico da rendere la circostanza stessa assai
più metafisica che reale: «Ai nostri giorni, ma è inutile
precisare l'anno, una sera d'autunno, sull'imbrunire, una barca
infangata e dall'aspetto equivoco navigava sul Tamigi...» (Charles
Dickens, Il nostro comune amico); «In una giornata
estremamente calda del principio di luglio, verso sera, un giovane
scese in strada dalla stanzuccia che aveva in subaffitto...» (Fèdor
Dostoevskij, Delitto e castigo); «Era tarda sera quando K.
arrivò» (Franz Kafka, Il castello); «Quel giovedì
dell'inizio d'aprile, il mio dotto amico, l'eminente Martial
Canterel, mi aveva invitato, con pochi altri intimi, a visitare
l'immenso parco che circondava la sua bella villa di Montmorency»
(Raymond Roussel, Locus solus). E anche qui, è chiaro, si
dovrebbe continuare chissà fin quando; per evitarlo, trascrivo
l'incipit che, nel genere, mi sembra più beffardamente radicale:
«Era un giorno qualunque di un qualunque gennaio» (Carlo Dossi, La
desinenza in A).
Un degradare in qualche
modo analogo dall'esattezza a un voluto offuscamento si può
ritrovare nella non meno sterminata categoria degli inizi che
potremmo definire «di luogo»: quelli, cioè, in cui si dice o si
dovrebbe dire (e, a volte, si evita sottilmente di dire) dove il
racconto è ambientato. Ne elencherò alcuni esempi seguendo,
appunto, l'ordine della crescente indeterminatezza: «In quella parte
dell'antica Cantabria, che da' più moderni fu detta Guipuscoa, e
giace sul mare, rivolta a Settentrione...» (Daniello Bartoli, Vita
di Sant'Ignazio); «Quel ramo del lago di Como, che volge a
mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...» (Alessandro
Manzoni, I promessi sposi); «A metà di rue Saint-Denis,
quasi all'angolo di rue du Petit-Lion, c'era un tempo una di quelle
case preziose che danno agli storici la possibilità di ricostruire
per analogia la vecchia Parigi» (Honoré de Balzac, La maison du
chat-qui-pelote); «Alla fine di rue Guénégaud, venendo dal
Lungosenna, si trova il passaggio del Pont-Neuf...» (Émile Zola,
Teresa Raquin); «In via Goròchovaja, in una di quelle grandi
case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una
città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo
appartamento Ilja Iljic Oblòmov» (Ivan Goncarov, Oblòmov);
«C'era in Westfalia, nel castello del barone Tunder-Ten-Tronckh, un
giovane cui la natura aveva dato i tratti più dolci» (Voltaire,
Candido); «Nel paese di Kuhschnappel l'avvocato dei poveri
Siebenkàs aveva speso l'intero lunedì affacciato all'abbaino...»
(Jean Paul, Siebenkàs); «In un luogo della Mancia di cui non voglio
ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo...»
(Cervantes, Don Chisciotte); «Nell'ufficio di... ma è meglio
non dire in quale ufficio» (Nikolaj Gogol', Il cappotto).
È meglio non dirlo,
davvero; e a questa regola, da un certo punto in poi, si atterrà la
maggior parte degli autori.
Ma passiamo, proseguendo
ostinatamente nella nostra catalogazione dell'incatalogabile, a
un'altra importante categoria: quella degli inizi gnomici, ovvero -
in parole povere - quella dei romanzi che cominciano con una
sentenza, volta a volta seria o scherzosa, solenne o futile: «Sarebbe
il capolavoro della filosofia rendere evidenti i mezzi adoperati
dalla provvidenza per raggiungere i propri fini...» (Sade, Justine);
«È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo largamente
provvisto di beni di fortuna debba sentire il bi§ogno di
ammogliarsi» (Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio); «La
magnificenza e la galanteria mai ebbero in Francia tanto splendore,
quanto negli ultimi anni del regno di Enrico II» (Madame de
Lafayette. La principessa di Clèves); «Tutte le famiglie
felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a
modo suo» (Lev Tolstoj, Anna Karenina); «Sotto certi aspetti
ci sono nella vita poche ore più piacevoli di quelle dedicate alla
cerimonia del tè del pomeriggio» (Henry James, Ritratto di
signora).
In una variante singolare
(e tipicamente settecentesca) di questa categoria, la sentenza si
anima, si fa petulante e dialettica; mi limiterò a due esempi, a mio
avviso bellissimi. Il primo è da Jacques il fatalista di
Denis Diderot: «Come s'erano incontrati? Per caso, come tutti. Come
si chiamavano? Che v'importa? Di dove venivano? Dal luogo più
vicino. Dove andavano? Si sa forse dove si va?»; il secondo dal
Tristram Shandy di Laurence Sterne: «Avrei desiderato che mio
padre e mia madre, o meglio tutti e due, giacché entrambi vi erano
egualmente tenuti, avessero badato a quello che facevano, quando mi
generarono».
Il tempo stringe, la
pazienza di chi mi legge sarà, suppongo, agli sgoccioli, e mi
accorgo di avere ancora almeno due categorie di inizi cui accennare.
Una è nientemeno che quella dell'accadimento puro, della coincidenza
fulminea e totale fra inizio della narrazione e inizio del fatto
narrato; insomma, dell'ingresso «in medias res». Categoria ancora
più vasta e aperta delle altre, sospesa com'è fra l'infinità del
possibile reale e l'infinità del possibile romanzesco: «La risposta
del marchese di Croismare, se mai me ne darà una, mi fornirà le
prime righe di questo racconto» (Diderot, La monaca); «Per
quattro giorni filammo verso sud senza mai incontrare ghiacci» (E.
A. Poe, Gordon Pym); «Pur essendo vecchio, generalmente
passeggio di notte» (Dickens, La bottega dell'antiquario);
«Per far parte del "piccolo nucleo", del "piccolo
gruppo", del "piccolo clan" dei Verdurin, era
sufficiente ma anche necessaria una condizione...» (Marcel Proust,
Un amore di Swann); «Per tre o forse cinque centimetri non
arrivava a un metro e ottanta» (Joseph Conrad, Lord Jim). «Al
di là dello steccato, fra i rampicanti, poteva vederli giocare»
(William Faulkner, L'urlo e il furore); «All'improvviso dal
sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l'abbaiare di
un cane» (Silvio D'Arzo, Casa d'altri); «Lolita, luce della
mia vita, fuoco dei miei lombi (Vladimir Nabokòv, Lolita);
«Nessuno poteva dormire. All'alba avrebbero calato in mare i mezzi
d'assalto» (Norman Mailer, Il nudo e il morto); «Eccoci
ancora soli» (Louis-Ferdinand Celine, Morte a credito); «Sono
nella camera di mia madre» (Samuel Beckett, Molloy); «Oh sì,
mi dico, presto sarà tutto finito...» (Celine, Nord);
«Presto, comunque, sarò del tutto morto, finalmente» (Beckett,
Malone muore).
E qui, con questo piccolo
fuoco di citazioni incrociate il gioco si potrebbe concludere. Ma
come non dedicare due o tre citazioni anche alla più astratta delle
categorie, quella degli inizi che riflettono sull'inizio, del romanzi
che cominciano dicendo come cominciano, o chiedendosi come
cominciare? Ancora Celine: «È così che è cominciata» (Viaggio
al termine della notte). E. M. Forster: «Possiamo cominciare con
le lettere di Helen alla sorella» (Casa Howard). Georges
Perec: «Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una
maniera un po' pesante e lenta...» (La vita: istruzioni per
l'uso). Tommaso Landolfi: «Mio Dio, mio Dio! Da tanto tempo
desideravo cominciare uno scritto con questa inutile invocazione. Ed
ecco, almeno questo avrò fatto» (La bière du pécheur). Il
serpente della letteratura non solo si mangia la coda, ma se ne
nutre. E con Julio Cortàzar (Il viaggio premio) potremmo
tranquillamente ricominciare tutto da capo, così: «La marchesa uscì
alle cinque - pensò Carlos Lopez - Dove diavolo l'ho letto?».
EUROPEO,
2 MAGGIO 1987
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