Pare che le ultime gaffe
spontanee o studiate,
specialmente quelle di sapore maschilista, abbiano fatto calare le
perrcentuali di Trump nei sondaggi, rendendo più probabile l'ascesa
alla presidenza USA di una donna, per la prima volta nella storia
dell'Unione. Il successo del “populista” miliardario nella
conquista della candidatura contro l'establishment del suo stesso
partito (contro cui continua a polemizzare platealmente anche in
campagna elettorale) è ragione sufficiente per una riflessione.
L'articolo che segue, che dà conto di uno studio americano, offre
qualche valido spunto. (S.L.L.)
L’attimo
fuggente. Quell’istante di verità non calcolata, ma forse
prevedibile. Il momento dell’allineamento perfetto tra il magnate,
il cittadino medio e lo zeitgeist oltre la telecamera: ed è subito
Trump.
That makes me smart,
questo perché sono intelligente, ha risposto fiero The Donald
all’accusa sdegnata rivoltagli da Hillary Clinton di non aver
pagato nemmeno un dollaro di tasse, durante il primo dibattito
presidenziale americano, in mondovisione. Molti l’avrebbero
ritenuta un’ammissione sufficiente a finire davanti a un giudice
federale; lui l’ha usata come volano per provare ad agganciare un
popolo intero. E basterebbe questo, forse, a raccontare cosa sia
diventata, anche a latitudini ben lontane dalle beghe dell’Italia
tribalista postberlusconiana, la discussione politica di una
democrazia complessa e articolata: avvitata, come poche volte in
passato, in un populismo difficile da decodificare e smantellare.
Ancora più curioso è
che siano servite solo quattro parole, su un totale di 16 mila
snocciolate in 90 minuti di scontro, per scoprire le carte e
realizzare l’affondo. D’altronde, la pochezza delle frasi, anche
numerica, è uno dei parametri utilizzati da uno studio dettagliato
per raccontare il tono della campagna politica che l’8 novembre
porterà un nuovo inquilino alla Casa Bianca; firmato da J. Eric
Oliver e Wendy M. Rahn, pubblicato negli “Annali della American
Academy of Political and Social Science”, Rise of the
TrumpenVolk analizza nel dettaglio, tra le molte cose, la
semantica, lo stile e persino la struttura linguistica dei
pretendenti al trono.
Più brevi le parole,
meno articolato il pensiero, maggiore l’impronta populista: e
l’indagine computerizzata su migliaia di ore di discorsi rivela che
Trump è, tra tutti i candidati (e gli aspiranti tali) a sedersi
nello Studio Ovale, quello che più spesso ha scelto parole con meno
di sei lettere, abbinate a periodi composti in media da non più di
10 parole. Il semplicismo come valore, o come capacità da esibire.
Politicians,
politici è probabilmente l’eccezione linguistica alla regola, ma
racconta di un’altra condizione tanto in voga quanto difficile da
sviscerare: l’avversione alle élite. In Italia si chiamerebbe
casta; negli Stati Uniti, oggi, è l’establishment, la lobby, il
Congresso o il partito, democratico o repubblicano che sia: giacché
sono la disunione interna, la litigiosità, le faide e le ripicche
reciproche ad aver creato lo spazio per i nuovi campioni della
politica. Non è un caso che proprio Trump, con credenziali identiche
a quelle attuali, esplorò la candidatura anche nel 2000, senza
riuscire ad andar oltre alle ambizioni: molto, a Washington e fuori,
da allora è evidentemente cambiato.
Il magnate ha menzionato
i politicians sette volte durante il dibattito: sempre in
antitesi da sé. Loro: privilegiati, lontani, indifferenti, incapaci
di capire e di risolvere, o forse nemmeno intenzionati a farlo.
Seguendo una logica che
non segue più però le cose di questo mondo, il denaro esibito con
sorriso smargiasso da Trump dovrebbe essere corredo essenziale
dell’élite, e dunque allontanare l’uomo Donald dal suo
popolo, come peraltro amava dire Bernie Sanders, l’altro indiscusso
catalizzatore di masse e umori che fino all’ultimo ha rischiato di
soppiantare Hillary nella corsa, proponendosi come vergine
alternativa ai maneggi democratici.
Ma non in questi tempi di
populismi compositi e altamente strutturati, a dispetto del comun
profetizzare. Perché – rivela ancora “Rise of the TrumpenVolk”
– il secondo asse del populismo di nuova foggia è la sfiducia
negli esperti: scienziati, politici o analisti finanziari che siano.
Così, mentre i business
man per diritto ereditario nell’immaginario collettivo
sorpassano in capacità gli economisti, nella tesi del magnate
neo-repubblicano il cambiamento climatico si trasforma in una bufala
messa in giro dai cinesi, come ha ricordato con malcelato piacere
Hillary Clinton davanti ad almeno 100 milioni di spettatori. E le
teorie cospirative diventano pane per elettori in cerca di
rappresentatività e rivincite, mescolate al fondamentalismo e al
cosiddetto nativismo: tanto che si invoca il muro col Messico a
cementare la primazia dei diritti per i cittadini venuti alla luce
nel Paese, a dispetto di stranieri e immigrati, anche regolari.
Quanto sia fattibile non
importa: funziona non quando esiste, ma finché canalizza la rabbia,
talvolta il conservatorismo, il senso di emarginazione, l’anomia.
Condizioni e attitudini più o meno evidenti ma, secondo le analisi,
determinanti nel successo populista, e incarnate con inconsapevole
perfezione dai supporter imbufaliti e aggressivi presenti alle
adunate oceaniche di The Donald. Ma anche nelle manifestazioni
della tifoseria anti-elitaria di Sanders, incapace di rassegnarsi
alla sua sconfitta e al successo di un membro dell’establishment.
Più difficile è capire
come la sfiducia negli esperti e l’avversione alla casta possano
andare di pari passo al sentimento nazionale, terzo baluardo di una
cittadinanza elettorale che non crede più nelle istituzioni né nei
suoi uomini, ma aggrappa le proprie speranze a un’affiliazione con
capacità demiurgiche: il potere del popolo e della vera gente. Ma è
un paradosso che si scioglie – tanto in Italia quanto in America, e
persino nella Gran Bretagna dell’ideologo Corbyn – con la
capacità del leader populista: ogni sentimento ha bisogno del suo
pubblico e del suo oratore. E sembra quasi superfluo dunque ricordare
il battage patetico del tycoon sul certificato di nascita di Barack
Obama, presidente dal Dna diversamente ricco e dalla pelle
marcatamente scura, tacciato di non essere un vero americano, quindi
impossibilitato a guidare la nazione.
Non è dato sapere quanti
birthist fossero nella sala della Hofstra University di
Hamspead, mentre The Donald cercava di spiegare perché
soltanto alla fine del settembre 2016, cinque anni dopo l’esibizione
di quel certificato, ha infine ammesso che sì, accidenti, Barack
Obama è davvero americano. Ma c’è da immaginare che Hillary
Clinton possa essersi gustata un momento di rara felicità, unica tra
gli aspiranti commander in chief a rifuggire (per lo più)
dalle scorciatoie demagogiche: come provano, oltre alle tabelle di
queste pagine, anche le fatiche a conquistare la nomination.
Pagina 99, 1 ottobre 2016
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