La statua di Lord Brummel in Jermyn Street a Londra |
PARIGI — Tutti sanno
chi è Brummel, ma pochissimi saprebbero dire qualche cosa su di
lui. Il Principe dei dandy, il Bello, il gelido arbiter
elegantiarum, riuscì talmente a diventare un mito, che la
memoria di lui è stata soltanto mitologica. Il sospetto che si
trattasse di un uomo, nato vissuto e morto come tutti gli altri, ha
sempre sfiorato solo un'infima minoranza.
Jacques de Langlade, che
insegna letteratura inglese alla Sorbona, ha scritto una bella
biografia di Brummel, restituendo concretezza al personaggio storico,
ma preservandone intatto il fascino enigmatico (Brummel ou le
prince des dandys, Presses de la Renaissance).
Il biografo descrive
vivacemente gli ambienti aristocratici inglesi sotto il regno del
vecchio e demente Giorgio III, la vita sfarzosa e debosciata di
Giorgio, principe di Galles, e futuro Giorgio IV. Sullo sfondo di una
mondanità aristocratica annoiata, eccentrica e volgarmente
esibizionistica, viene a stagliarsi la figurina netta di un ragazzo
che fa dell'impeccabile, misurata eleganza del suo vestito e delle
sue maniere una chiave che gli apre tutte le porte dell'alta società.
George Bryan Brummel è
un plebeo, anche se il padre gli ha lasciato una discreta fortuna.
Grazie all'inaudito bianco delle sue cravatte, al disarmante potere
del suo imperturbabile sorriso, alla sagacia pungente della sua
conversazione, può eccezionalmente avere accesso ai club più.
riservati di Londra, ai salotti e ai castelli più esclusivi.
Il principe di Galles,
che fino ad allora si era fatto notare per i suoi abiti rosa,
oltreché per i debiti e le amanti, subisce fulmineamente il fascino
di Brummel, ne diviene l'amico, il protettore, ma anche il seguace.
Sempre più ricercato, sempre più indispensabile, sempre più
potente, Brummel giunge ad esercitare una vera e propria dittatura:
un suo giudizio sferzante sulla volgarità di un abito poteva
distruggere il successo di un uomo in vista; una leggera variazione
nel taglio dei suoi pantaloni provocava un'immediata rincorsa
all'imitazione.
Adorato e vezzeggiato, si
mostrava indifferente a tutto e a tutti: nessuna donna poteva
vantarsi di averlo conquistato, nessuna passione politica lo toccava.
Il dandy sapeva scoprire la personalità di chiunque, e non
mostrare mai la propria. Giunto al culmine del suo potere, si permise
persino di rompere con il suo protettore, il Principe di Galles,
ormai reggente, nel corso di una storica cena, lo pregò di suonare
il campanello per chiamare un servitore; Brummel rispose: «Sei tu
vicino al campanello, George». George suonò, e al servitore disse:
«Riconduca quest'uomo, è ubriaco». La
rottura fu definitiva.
Era il 1811; Brummel
avrebbe mantenuto intatto il suo potere ancora per qualche anno. Non
sarebbe stato il futuro re a provocare la sua caduta, ma lui stesso,
infrangendo la regola della sua impermeabilità alle passioni. Fu il
gioco la passione che lo perdette. In poco tempo fu sul lastrico e
perseguitato dai creditori. Nel 1816 fuggì a Calais, e da allora la
sua storia è fatta soltanto di una disperata opposizione alla
decadenza. Di debito in debito, di gioco in gioco, fini in miseria,
in galera e, quel che è peggio, lacero e sporco.
Il libro di Langlade
porta nuove notizie sulla fase discendente della parabola del dandy,
e le dedica molto spazio, m un certo senso suggerisce l'autore, la
fine disastrosa di Brummel non è che il coronamento della sua opera,
in quanto è l'esibizione sarcastica del nulla che aveva affascinato
e dominato l'intera classe dominante inglese. Un ultimo micidiale
sberleffo.
Proust la pensava
all'opposto, e ha scritto: «Dal momento in cui Brummel, in miseria,
in un piccolo hotel di Caen, si faceva offrire la cena,
retrospettivamente non era stato un principe dell'eleganza. In
realtà, non era un principe dell'eleganza, la cosa non era in lui.
Non è in nessuno. La nostra stessa realtà non la comporta, poiché
ci sono in noi elementi fisiologici che possono sopravviverle. I re
non sono re».
Ma allora, dandy
si nasce o dandy si diventa? Il problema era già agitato tra
i dandy dell'800. Barbey d'Aurevilly giurava che si nasce, ma
Baudelaire concepiva il dandy come colui che segue una regola:
«Il dandismo, che è un'istituzione al di fuori delle leggi, ha
leggi rigorose alle quali sono strettamente sottomessi tutti i suoi
soggetti, quali che siano peraltro la foga e l'indipendenza del loro
carattere». Quindi, anche se mai si nascesse dandy, il difficile è
riuscire a morire tali.
"Tuttolibri La Stampa", ritaglio senza data, ma 1985
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