Nel bel libro di Luigi
Manconi sulla musica leggera italiana, uscito qualche anno fa è
contenuta la testimonianza di Bianca Pitzorno che volentieri
riprendo. (S.L.L.)
Nel gennaio 1966 venni
invitata a far parte di una delle giurie popolari del Festival di
Sanremo, quella appoggiata alla sede del quotidiano sassarese La
Nuova Sardegna.
La giuria, credo per
regolamento, doveva comprendere una percentuale di «giovani».
Nel nostro caso, oltre
me, che avevo 23 anni, venne chiamato Luigi Manconi, che ne aveva 17.
Conoscevo Luigi da sempre, non solo perché era il «fratello
piccolo» della mia amica Paola, ma perché quattordicenne era stato
abbastanza coraggioso e spiritoso da recitare una parte in una
commedia musicale da me scritta e diretta, unico maschio in una
compagnia teatrale interamente femminile. Entrambi venivamo
considerati in città dei giovani «ribelli», anche se il fatto che
a scuola - io ormai frequentavo l’università - avessimo ottimi
voti ci procurava una certa indulgenza anche da parte dei
benpensanti. Luigi si occupava già di canzoni, stava per mettere in
scena uno spettacolo di canti politici e popolari sul modello del Ci
ragiono e canto di Dario Fo. Io avevo fatto delle ricerche
comparative sui testi dei «nuovi» cantautori e quelli delle canzoni
italiane degli anni ’20 e ’30. Entrambi l’anno successivo ne
avremmo scritto sulle «Pagine dei giovani» della Nuova Sardegna.
Forse anche per questo eravamo stati chiamati a far parte della
giuria.
Gli altri membri erano il
vecchio direttore del giornale, due signori tra i quaranta e i
cinquanta, forse giornalisti o professionisti, e una signora sulla
quarantina, molto truccata, vistosa ed esuberante. Ai nostri occhi
apparivano tutti e quattro molto anziani, tanto che ci sembrava
ridicolo e inappropriato che lei civettasse con tante moine e che i
tre maschi la corteggiassero con battute di spirito a nostro avviso
idiote.
Seduti nella sala
riunioni del giornale davanti a un grande televisore guardammo così
tutti insieme il Festival di Sanremo.
La frattura generazionale
si manifestò evidentissima quando sullo schermo apparve Caterina
Caselli, per la prima volta a Sanremo, per la prima volta con la
famosa pettinatura inventata per lei dai Vergottini, che si erano
ispirati ai Beatles e che le valse l’appellativo di «Casco d’oro».
A differenza delle altre cantanti in abito da sera, era vestita con
giubbotto, pantaloni e stivaletti da «mods».
Gli altri giurati
inorridirono a sentirla cantare, anzi gridare con mosse per loro
sguaiate, Nessuno mi può giudicare. (La canzone in origine
era destinata a Celentano, che però le aveva preferito Il ragazzo
della via Gluck.)
Luigi e io invece ci
entusiasmammo. Caterina ci sembrava l’emblema dei nostri coetanei,
e come lei anche noi rifiutavamo di essere giudicati da quei ridicoli
matusalemme che ci sedevano al fianco.
Al momento di votare
naturalmente votammo per lei, ma fummo messi in minoranza.
Probabilmente accadde lo stesso nelle altre centinaia di giurie
sparse in tutta l’Italia, perché quell’anno vinse Dio, come
ti amo, cantata dalla soave e rassicurante Gigliola Cinquetti in
coppia con Mimmo Modugno.
Però l’esordiente
“Casco d’oro” si piazzò al secondo posto, in testa ai molti
altri cantanti già famosissimi.
Al momento di salutarci
noi due «giovani» e il resto della giuria ci guardavamo come al di
là di un crepaccio che ci si era appena aperto sotto i piedi. Noi
gasatissimi, loro spaventati, sospettosi, diffidenti. Non c’era
alcun dubbio che il mondo stesse cambiando.
Luigi Manconi, La
musica è leggera, Il
saggiatore, Milano, 2012
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