«Spesso a cuori e picche
ansiose bocche/ chiedono la verità/ Principi e plebe vengono qua».
Gramsci, nel 1918, già redattore dell'edizione piemontese
dell'«Avanti!», canticchiava in continuazione questo refrain di
un'operetta all'ora in voga, la Madama di Tebe di Carlo
Lombardo. Ed era così appassionato di musica - adorava l'Operetta -
che spesso scriveva gli articoli per il giornale solo dopo essere
uscito da teatro a notte fonda sotto l'assillo disperato di Pastore
che letteralmente glieli toglieva di mano dalla scrivania per
mandarli subito in rotativa. Questo aneddoto, e molti altri, si
possono piacevolmente ascoltare nel bel saggio sonoro che chiude
l'ultimo lavoro di Cesare Bermani su Gramsci, intitolato Gramsci,
gli intellettuali e la cultura proletaria (Colibrì, pp. 334,
euro 19). Il volume raccoglie undici articoli pubblicati dal 1979 ad
oggi e due Cd costituenti, per l'appunto, il saggio sonoro,
appassionante ricostruzione della vita di Gramsci attraverso
testimonianze dirette e documenti musicali. È bene ricordare subito
che la storia orale, di cui Bermani è maestro indiscusso, mai come
nel caso di Gramsci si rivela essere strumento conoscitivo
congruente. E per almeno due ragioni. In primo luogo per la sua
forma, perché la posizione di ascolto è il presupposto necessario
della persuasione permanente. Gramsci, come tutte le testimonianze
ricordano, sapeva ascoltare. La sua pedagogia - e si legga nel volume
la bella testimonianza di Ettore Piacentini - partiva proprio
dall'ascolto, era socratica, dubitante, persuadeva chiedendo continue
precisazioni capaci di portare l'interlocutore fino alla coscienza di
non sapere, primo e necessario passo verso una vera politicizzazione
di se stessi. In secondo luogo, perché la raccolta di testimonianze
dirette divenne, negli anni passati, strumento capace di aprire nuove
strade all'interno di quel controverso campo di ricerca che furono
gli studi gramsciani, per lo meno fin quando il Pci ne orientò
studio e pubblicazione.
Certo, il quadro attuale
è oggi profondamente mutato e un lavoro come quello di Bermani, così
attento a ricostruire di Gramsci una fisionomia morale, intellettuale
e politica altra rispetto a quella consegnata dalla vulgata
togliattiana, può apparire eccentrico rispetto allo stato dell'arte
della ricerca italiana contemporanea (basti solo pensare dove è
stato relegato a Roma l'Istituto Gramsci, che, certo, per il peso
internazionale che ha, in uno Stato serio, meriterebbe altri spazi,
altre metrature, altra visibilità, altre strutture, altri fondi).
L'inattualità
dell'impostazione di Bermani risponde quanto meno al sospetto che
questo ridimensionamento della figura di Gramsci sia l'esito ultimo
di una certa idea della conoscenza e dell'azione politica che il Pci
e Togliatti promossero proprio attraverso la pubblicazione orientata
degli scritti di Gramsci.
Del resto, se si dipana
fino in fondo questo filo, l'evoluzione del Pci in Pds/Ds e oggi Pd
appare sotto il segno della continuità, e non certo della frattura.
Il lavoro di Bermani valorizza invece un altro Gramsci, anzitutto
critico di un'idea di politica come categoria a se stante, attività
separata. Si leggano le pagine dove l'autore ricostruisce il
dibattito fra culturalisti e anticulturalisti e un Gramsci ancora
giovanissimo già riflette sulla centralità dell'organizzazione
politica della cultura intendendola come un terzo fronte di lotta
accanto a quello economico e politico; o i due saggi pubblicati su
«Primo Maggio» (Gramsci operaista e la letteratura operaia;
Breve storia del Proletkul't italiano) dove emerge con
chiarezza come Gramsci intenda la pedagogia politica in opposizione
al modello didattico delle Università popolari del Psi; e come
pratichi il suo ruolo di dirigente politico nella conoscenza diretta
della vita operaia e dell'organizzazione del lavoro nella grande
fabbrica.
Il punto di partenza
della politica sta dunque nella capacità di leggere nei depositi
creativi del senso comune, forme da liberare, educare, organizzare,
universalizzare; e da non reprimere. Certo, è questo un Gramsci
visto attraverso le lenti di quello straordinario laboratorio di
etnografia politica della cultura popolare italiana che è l'Istituto
Ernesto De Martino (e non a caso il volume di Bermani si chiude
proprio con il saggio Due letture non canoniche degli scritti di
Antonio Gramsci, un omaggio dello storico orale ai suoi maestri,
Bosio e de Martino). Ma è proprio in questo Gramsci che si possono
ancora trovare strumenti capaci di scardinare la narcosi mediatica
del nostro presente. È incredibile, infatti, che in un universo
culturale dominato senza controforze dalla propaganda - che è
l'espressione della violenza politica nella comunicazione - nessuno
senta il bisogno di tornare, anche solo come ricognizione
preliminare, a riflettere su ruolo degli intellettuali,
organizzazione della cultura, egemonia; e su come il senso comune
riveli sempre, come l'iride, lo stato di salute del mondo sociale.
Nella stessa direzione si
muove un altro bel volume da poco pubblicato da Carocci (Frammenti
indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci, pp.
267, euro 19). L'autore è Mimmo Boninelli, collaboratore come
Bermani, dell'Istituto Ernesto de Martino.
Scritto con un'attenzione
minuta ai dati propria della grande tradizione filologica militante
di Gianni Bosio, Boninelli cerca di capire se le note Osservazioni
sul Folclore presuppongano in Gramsci una passione e una conoscenza
approfondita della cultura popolare e folclorica italiana. Sei sono
gli argomenti attraverso i quali l'intero corpus degli scritti di
Gramsci (pagine giovanili, scritti politici, Lettere e Quaderni) è
passato al setaccio: Sardegna e mondo popolare; religione popolare,
credenze, magia; proverbi e modi di dire; narrazioni e storie; canti
popolari e della protesta sociale; teatro popolare, teatro
dialettale. Attraverso questo spoglio incrociato, emerge un'immagine
sorprendente del pensatore sardo come curiosissimo osservatore e
critico della vita quotidiana.
Il manifesto, 30 maggio
2008
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