Joyce Lussu interviene in un comizio delle sinistre dopo la Liberazione |
ROMA
Seduta su una poltrona di
vimini che le va giusta giusta, Joyce Lussu, 76 anni, indossa un
ampio vestito marrone a fiorellini che sa vagamente di Tirolo. Sulla
poltrona si appoggia indietro accavallando le gambe, si sporge in
avanti accalorata, fuma due sigarette, beve un caffè, sorride a una
nidiata di gattini acciambellati sul divano di fronte, fa un cenno
alla nuora che le ha preparato il caffè. È a Roma per un giorno,
per una lezione al liceo Visconti. Di solito vive nelle Marche, dove
ha una casa di campagna sempre aperta agli amici.
“Mi piace cucinare per
loro, cucinare in generale e mangiare. Una delle possibili storie
della mia vita potrebbe essere quella del mio felice rapporto col
cibo”. Così scrive anche all' inizio della sua autobiografia,
Portrait (sottotitolo: Cose
viste e vissute), pubblicato da Transeuropa con una
raccolta di ben 116 fotografie che documentano la sua vita (pagg. 133
più foto, lire 26.000). Ma non si tratta, naturalmente, di un libro
di cucina o di una storia casalinga. Al contrario, Joyce Lussu ha
vissuto una delle più irriducibili e movimentate esistenze di
contestatrice del nostro secolo: a partire dall'esilio a Parigi e
dalla Resistenza, vissuta assieme al marito Emilio, lo scrittore
rivoluzionario sardo, fino al Sessantotto europeo, alle rivolte di
liberazione in Curdistan e in Angola, alla attuale militanza nei
gruppi ecologisti.
Una grande e, a suo dire,
divertente avventura politico-esistenziale. Perché
divertente?
“Perché non sono i rischi che mettono in pericolo il nostro
buonumore: è il nostro essere o meno in sintonia con noi stessi. A
me, i miei genitori avevano insegnato a fare sempre quello che
ritenevo giusto. A dar seguito alle intenzioni, insomma”.
I
suoi genitori erano degli inglesi puritani?
“Non
puritani, anche se certo non conformisti. Inglese, veramente, era mia
madre; mio padre era italiano, con due nonne inglesi. Di tutte le
donne della mia famiglia ricordo che calzavano comode scarpe basse e
vivevano con determinazione. Determinazione che non mancava nemmeno a
mio padre: figlio di un ricco proprietario terriero, si era ribellato
alle consuetudini familiari, aveva tradotto Herbert Spencer, era
vicino a Bertrand Russell: e a me tutto questo piaceva. Ho preso
dalla famiglia un'imprinting psicologico-politico che non mi ha mai
lasciato”.
E
già la famiglia paterna cominciò ad aver noie coi fascisti...
“Oh,
sì. Io personalmente cominciai a nove anni, perché fui sorpresa a
scrivere sui muri Abbasso il fascio. Avevo dodici anni quando gli
squadristi vennero a casa nostra. Si portarono via mio padre. Mio
fratello quindicenne (lo storico Max Salvadori, ndr) li seguì di
nascosto a distanza. Quando tornarono, mio padre era pesto. Dovemmo
fuggire. Cominciò per noi una serie di peregrinazioni: prima in
Italia (dove continuammo sempre ad andare e venire), poi all' estero.
Trovammo un po' di pace in Svizzera, dove io frequentai una scuola
inglese, forse finanziata da filantropi connazionali di mia madre, la
Fellowship School. Amavo già tanto i cavalli, e in quella scuola li
amai ancora di più”.
Cucina,
cavalli... però poi sarebbe andata all' Università di Heidelberg.
“Lì
aveva studiato anche mio padre. Era, allo stesso tempo, un
ripercorrere il suo cammino e una possibilità di maggiore
internazionalizzazione. Non essere provinciali era uno dei nostri
motti. Tuttavia, in certo senso fu dura: vidi il nascere del nazismo
da vicino. Nel maggio '32 Hitler annunciò il suo arrivo per un
raduno. Io decisi di sfidarlo a un contraddittorio. Altro che
contraddittorio! Già la notte prima la città fu invasa da nazisti
con la divisa bruna, che occuparono strade e piazze accendendo
bivacchi e cantando a squarciagola canzoni patriottiche. Durante la
notte le canzoni patriottiche diventarono oscene, ma gli urli non
smisero. Io e i miei amici cercammo di avvicinarci: Raus, raus!
Fuori, Fuori!: ci cacciarono. Io corsi dai miei professori, i
filosofi Jaspers e Rickert; ma mi delusero. 'Quando quei ragazzi si
saranno sfogati, tutto tornerà come prima', dissero. La loro
ottusità mi sconvolse. Tra le sue peregrinazioni italiane c'era
anche la casa di Benedetto Croce a Napoli.... A Palazzo Filomarino
bussai la prima volta quando avevo diciassette anni. In una borsa
della spesa portavo un fascio di manoscritti: poesie, racconti, e un
dramma in cinque atti a sfondo politico. Croce mi disse che avevo
qualche talento (pubblicò una delle mie poesie sulla “Critica” e
ne affidò una raccolta all'editore Ricciardi). Era piccolo, con la
testa a pera e un grande naso. Leggeva così rapidamente che pareva
succhiasse le parole. Era gentile, umano: personalmente ne ho un
ricordo straordinario. Certo, fra le sue idee politiche e le mie non
correva buon sangue. Pensava che le donne fossero inferiori agli
uomini (io ero la classica eccezione), e aveva orrore del socialismo.
Era un grande filosofo, ma anche un grande proprietario terriero, non
molto diverso dai miei nonni a cui mio padre si era ribellato.
Comunque, per tutta la vita siamo stati amici”.
E finalmente, a Ginevra, Joyce incontra Emilio Lussu, che viveva in
clandestinità dopo una clamorosa evasione da Lipari. A Ponza, dove
era andata a trovare suo fratello, i confinati le avevano dato un
lungo messaggio scritto su una strisciolina di carta in caratteri
minutissimi, da consegnare a Emilio Lussu e solo a lui, dovunque si
trovasse. Joyce nascose il messaggio nel manico della valigia di
fibra, e andò a cercare Lussu per l' Europa: Belgio, Alta Savoia e,
appunto, Ginevra. Fu subito un grande amore.
“Lui
fu sorpreso di incontrare latrice di pericolosi messaggi clandestini
una ragazza di buona famiglia, proletarizzata dalla lotta e
dall'emarginazione economica e sociale. Io, finalmente, mi trovavo
davanti al prestigioso rivoluzionario: c'erano gli estremi, oltre che
per un amore, anche per una robusta militanza comune. Ma dovetti
aggiustargli intorno alla testa il concetto di casa. Non sarebbe
stata, gli dissi, una palla al piede nella vita di un militante; al
contrario, lui sarebbe stato uno scapolo molto più felice se avesse
avuto una casa, una donna fissa e un figlio appena possibile. Vivemmo
insieme nella Parigi degli esuli. Ma non che dal quel momento
divenissimo inseparabili: ciascuno seguiva il ritmo dei suoi impegni.
Io andai perfino a finire, in Inghilterra, in un campo-caserma per
combattenti dei paesi occupati dalla Germania...”.
Però
ha avuto figli, nipoti, è stata una delle antesignane del moto
femminista
“Il
privato è pubblico. Oh, sì. E il giorno più bello della mia vita è
stato il 21 marzo del '71, quando è nato il mio primo nipote.
Consiglio a tutti di diventare nonni. Che splendore l'infanzia
rivisitata... Dopo l'instaurazione della legalità repubblicana,
Joyce ed Emilio Lussu si stabilirono a Roma. Lui fu eletto senatore
del Psi (era stato tra i fondatori del Partito Sardo d'Azione e di
Giustizia e Libertà) lei continuò a suo modo l'intensa militanza
politica. Andava alle assemblee di studenti nel '68. Ero sorpresa,
dice, di essere l'unico adulto: quei ragazzi avevano speso tante
energie per farsi sentire, e nessuno si chiedeva cosa gli passava per
la testa?”.
Joyce Lussu negli anni 80 del Novecento |
Lussu
morì nel ' 75. Fu terribile, dopo più di trent'anni trascorsi
insieme. Tuttavia Joyce non rimase a casa a sedere sulle ceneri del
marito. Aveva scoperto i movimenti di liberazione del terzo mondo, e
ci si recava di persona. Le origini sociali, l'aspetto, l'aiutavano.
Quando voleva conoscere un guerrigliero (che poi era anche un poeta)
che si trovava in Africa o in Curdistan, o in prigione come Agostinho
Neto, futuro capo dell' Angola, a Barcellona, o in un luogo di
operazioni di guerra, aveva una sua tecnica precisa per raggiungerlo.
Andava dall'ambasciatore italiano a chiedergli come avrebbe potuto
fare. Il diplomatico le rispondeva che solo un personaggio locale di
altissimo rango, per lui irraggiungibile, avrebbe potuto darle un
permesso o un salvacondotto. Allora lei ci andava, con l'implicito
avallo dell'ambasciata, e ostentava una tale ignoranza di politica
che alla fine li otteneva. Nel caso di Agostinho Neto, a cui nella
Lisbona di Salazar portò un contratto della Mondadori, tornando in
Italia con un fascio di poesie di Neto, riuscì a creare un putiferio
internazionale. Salazar infatti fece dimettere il capo della polizia
politica, e concesse a Neto la libertà vigilata. Irriducibile, Joyce
tornò a Lisbona per conoscere Neto personalmente; e l'ambasciatore
d'Italia Grillo, uomo di spirito, come lei scrive, diede un
ricevimento a cui intervennero anche alcuni oppositori portoghesi del
regime. Fu uno scandalo che rimbalzò fino al nostro ministero degli
Esteri. Emilio Lussu, presidente della commissione esteri del Senato,
sostenne che era dovere di un ambasciatore mettersi in contatto, nel
paese in cui è in missione, anche con gli oppositori del regime, per
conoscere la situazione. Ma molti non la pensavano come lui. Si
dovette far ricorso al presidente della Repubblica, che era allora
Saragat, per ottenere un sì. Comunque Joyce Lussu fu espulsa dal
Portogallo, e l'ambasciatore Grillo fu trasferito in Cecoslovacchia.
Signora
Lussu, Neto, come Nazim Hikmet, era un poeta. Lei ha tradotto molti
poeti di cui non conosceva la lingua. Come ha fatto? La poesia è un
veicolo di conoscenza profetico e sintetico.
“È
conoscenza e comunicazione, non uno sterile gioco linguistico.
Attraverso la poesia ho studiato mondi diversi molto meglio che
attraverso volumi di saggistica. Ho passato dieci anni a tradurre
poesia del terzo mondo: certo, lavorando solo con poeti viventi. Si
trova sempre una lingua in cui intendersi, e il poeta spiega
benissimo perché ha usato quella data parola, perché ci tiene. Non
si traduce la poesia fra sintassi, grammatica e vocabolario. Io ho
tradotto Nazim Hikmet col testo a fronte, e nessun turcologo ha
trovato da ridire. Ho tradotto poeti esquimesi, guineiani,
vietnamiti, albanesi: esprimono mondi diversi dal nostro, ma in
fondo, poi, dicono tutti le stesse cose”.
È
stata la poesia che l'ha trattenuta dal fare carriera politica in
parlamento? Non le sarebbe certo stato difficile, specie negli ultimi
anni.
“Non
solo la poesia. Avrei dovuto accettare lo squallido gioco delle
preferenze e avrei dovuto soprattutto accodarmi a un partito della
sinistra storica: e sono ancora tutti troppo ideologici. Una cultura
alternativa si viene formando solo adesso. Io faccio politica come ho
sempre fatto: dal basso”.
la Repubblica, 11 maggio
1988
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