L’uscita del volume
Nâzım Hikmet, Poesie d’amore e di lotta, Mondadori, Milano
2013, curato da Giampiero Bellingeri, docente di lingua e letteratura
turca a Venezia, commemora il grande poeta turco nel cinquantesimo
anniversario della morte, avvenuta nel 1963. In collaborazione con
Fabrizio Beltrami e Francesco Boraldo, Bellingeri presenta circa
trecento poesie di Hikmet, molte delle quali inedite in Italia, a
cominciare da quelle scritte durante l’adolescenza. Generazioni di
italiani hanno conosciuto e amato Nâzım Hikmet grazie a Joyce Lussu
che aveva incontrato il poeta nel 1958 a Stoccolma, durante un
congresso per la pace; su proposta dello stesso Hikmet e con il suo
aiuto, Joyce tradusse le sue poesie pur senza conoscere né una
parola né una sola regola grammaticale della lingua turca. Ha
ricordato in molte occasioni l’estrema traducibilità della lingua
poetica di Nâzım Hikmet, che è stato maestro nell’uso di un
turco essenziale, malgrado la sua formazione culturale e linguistica
fosse avvenuta in ottomano, una lingua impastata di elementi turchi,
arabi e persiani, scritta in quell’alfabeto arabo che sarà
abbandonato dalla Repubblica turca nel 1928. Le traduzioni delle
poesie giovanili curate da Bellingeri e dai suoi collaboratori
testimoniano l’essenzialità del linguaggio che ha caratterizzato
la poetica di Hikmet sin dagli esordi. Se i vocaboli concreti, senza
ambiguità, di tutti i giorni, furono funzionali nel dare risalto
alla “nazione turca” negli anni della prima giovinezza, più
tardi gli saranno di aiuto nella volontà di dare parola agli
esclusi. Come furono certamente di aiuto a Lussu per tradurre da una
lingua che non conosceva, quasi quanto lo sono state la capacità di
empatia e l’abilità di Hikmet a trasmetterle il significato,
utilizzando le lingue note, almeno in parte, a entrambi; oppure
ricorrendo a quella loquace gestualità che aveva sperimentato, in
carcere, quando cercava di far memorizzare le sue poesie ai
visitatori, sotto gli sguardi attenti delle guardie, in modo da
superare la censura e far circolare i suoi testi all’esterno.
Collocando Hikmet nel
contesto del panorama della poetica turca, e in quello più generale
del XX secolo, si getta luce su alcuni degli aspetti meno noti del
suo universo poetico Bellingeri, il maggiore studioso italiano di
Nâzım Hikmet, apre il volume con una prefazione tanto interessante
quanto ricca di importanti e approfondite informazioni, colmando
così, almeno in parte, varie lacune degli studi critici hikmetiani.
Il suo saggio introduttivo è anche un tentativo di sciogliere i fili
che legano la fama del poeta direttamente alle vicende drammatiche
della sua biografia: collocando Hikmet nel contesto del panorama
della poetica turca, e in quello più generale del XX secolo, si
getta luce su alcuni degli aspetti meno noti del suo universo
poetico. La profonda conoscenza della lingua e letteratura turca e
dell’opera di Hikmet, sottesa alle traduzioni, conferisce alla
lettura delle poesie un nuovo gusto. Tuttavia, come anche Bellingeri
è costretto ad ammettere, per quanto la si voglia restituire
all’‘arte’, la poesia di Hikmet rimane intrinsecamente legata
alla sua vita, al suo credo politico, alle sue lotte; al suo essere
un uomo profondamente segnato dal Novecento: dalle divisioni, dai
settarismi, dalla violenza di questo secolo, ma anche dalla sua
generosità, solidarietà, speranza e fede nel progresso.
Nâzım Hikmet era nato
nel 1901 a Salonicco in una famiglia dell’élite cosmopolita e
illuminata dell’impero ottomano in pieno declino. A Salonicco, che
un decennio più tardi sarebbe diventata greca, accanto alla
popolazione musulmana convivevano all’inizio del Novecento numerosi
ebrei, armeni, greci, che insieme formavano un tessuto sociale,
economico e culturale molto particolare. Le molte guerre che
costellarono la sua prima giovinezza indussero Hikmet, giovanissimo,
a schierarsi prima con il nazionalismo e poi con il comunismo e
l’internazionalismo.
Aveva cominciato a
scrivere poesie già nella prima adolescenza e la sua poetica si andò
delineando sotto l’effetto di correnti culturali contrastanti:
l’umanesimo di stampo religioso-mistico che caratterizzava l’alta
tradizione poetica ottomana, messa in crisi dalla modernizzazione; la
poesia ottomana dell’inizio Novecento, ispirata all’avanguardia
francese; una nuova poetica, espressione di un nazionalismo turco,
esclusivo, difensivo, elitario che cominciava ad affermarsi
nell’atmosfera di violenze interetniche e interreligiose del primo
decennio del secolo.
È in tali condizioni e
con tale bagaglio culturale che il poeta avrebbe compiuto a diciotto
anni la sua prima scelta di campo, attraversando a piedi l’Anatolia
per raggiungere il movimento nazionalista che si organizzava sotto la
leadership di Atatürk. L’impatto con il territorio destinato a
diventare il cuore della patria, con la povertà e l’indifesa
arretratezza dei suoi contadini, lo avrebbe presto spinto lontano dai
nazionalisti, portandolo fino a Mosca, per partecipare alla
rivoluzione bolscevica. Diventare comunista fu una decisione presa a
diciannove anni, con un rapido ma definitivo esame di coscienza circa
la determinazione ad abbandonare, e per sempre, gli agi di una vita
iniziata in un contesto di privilegio, di bellezza, e ad accettare i
rischi e i sacrifici di una vita dedicata alla lotta per
l’emancipazione degli oppressi.
A Mosca Hikmet frequentò
l’università per i lavoratori d’Oriente, immergendosi al
contempo nello straordinario laboratorio culturale e artistico di
quegli anni; negli esperimenti delle avanguardie sovietiche e
occidentali. La sua poetica, che sin dalle origini era parte di una
rivoluzione in atto, volta a trasformare profondamente il senso, la
funzione, la forma e il linguaggio attribuiti all’arte poetica
nella tradizione ottomana, a Mosca si sarebbe inserita in un nuovo
movimento della storia, mettendosi al servizio dell’emancipazione
delle masse. Cominciò a riscuotere, sin dal 1928, un grande successo
anche internazionale, ma la scelta in favore del comunismo gli costò
molti sacrifici in patria. L’iniziale ostilità delle autorità
cominciò a tradursi in arresti e detenzioni a partire dal 1932. Nel
1938 subì una condanna che lo lasciò dietro le sbarre,
ininterrottamente, per quindici anni. Non si arrese mai alle
difficoltà, continuò a comporre poesie anche senza carta e penna,
trovando sempre un modo per farle uscire dalla prigione. In carcere
si ammalò, in carcere perdette un grande amore, sempre in carcere si
innamorò della futura moglie, madre di suo figlio.
Le sue poesie, tradotte
in molte lingue, furono vietate in turco fino agli anni settanta del
secolo scorso. Nel 1950, in seguito a un lungo sciopero della fame e
grazie anche alla mobilitazione dei più importanti intellettuali e
artisti europei, riuscì a conquistare una libertà vigilata,
sentendosi però costantemente minacciato, tanto da decidere dopo
pochi mesi di fuggire lasciandosi dietro la moglie in attesa del loro
primo figlio. La fuga gli sarebbe costata anche la perdita della
cittadinanza, condannandolo a morire lontano dalla sua terra. Le sue
poesie, tradotte in molte lingue, furono vietate in turco fino agli
anni settanta del secolo scorso. Dal 1951 avrebbe vissuto a Mosca con
un passaporto polacco e, come chiarisce per la prima volta il bel
saggio di Federica Boscariol che chiude il volume, gli anni
dell’esilio furono segnati da profonda delusione. La città e il
paese che aveva conosciuto e amato come centri di innovazioni
rivoluzionarie, li aveva ritrovati come luoghi di un asfissiante
conformismo. Sceglierà di diventare rappresentante dell’Urss nel
movimento pacifista e fino alla sua morte, avvenuta nel 1963,
viaggerà incessantemente, come a voler recuperare i lunghi anni
passati in cattività, rubati alla vita attiva.
Le poesie incluse da
Bellingeri nel libro provengono dalla raccolta in 25 volumi
dell’opera completa di Hikmet pubblicati a Istanbul nel 2002 dalla
Yky, e nel loro insieme forniscono un emozionante quadro complessivo
della sua poetica.
L'Indice, febbraio 2014
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