Osso oracolare del periodo Shang (II millennio a.C.) |
Ho la
strana impressione che ormai si viva in un'epoca dove è di moda
raccontare favole, nel senso che spesso si è costretti a cominciare
con un “c'era una volta”. La colpa è del tempo che è come se
fosse diventato più “breve”: come durata, guardandoci alle
spalle, appare breve, per esempio, il secolo che si è appena
concluso, il XX, a causa dell'accelerazione degli eventi e delle
trasformazioni a ritmo vorticoso che si sono succedute in appena
cent'anni. Così, il “c'era una volta” di oggi si situa appena
ieri, non secoli fa, decenni fa, ma ieri, proprio ieri, il tempo di
schioccare le dita. Se ciò trova riscontro quasi ovunque e per le
più diverse situazioni, è per quanto riguarda la Cina che la
mutazione lascia esterrefatti.
C'era
una volta la Cina, quintessenza dell'esotismo, terra di miseria e
carestie. Non c'è più. C'era una volta la Cina della rivoluzione
trionfante. Sparita. C'è invece oggi la Cina dello sfrenato sviluppo
economico, delle megalopoli, delle ardite infrastrutture, del
turbocapitalismo, del sogno di un benessere promesso e non ancora
concesso ai più. È questo il finale della storia, un “e vissero
per sempre felici e contenti”? Potrebbe anche darsi, se si volesse
continuare a raccontare favole sulla Cina, ignorandone le specificità
culturali, valutandone le diverse fasi con superficialità, come se
il grande paese fosse nato ieri. e in tal caso forse si correrebbe il
rischio, fra qualche anno, di dover raccontare un'altra favola:
“C'era una volta la Cina del super sviluppo economico”... Per
carità, mai vorremmo dover constatare che quella Cina non c'è più,
però sono le incognite, le continue variazioni, il gioco delle
probabilità nel contesto globale che suggeriscono di affrontare la
questione della Cina in una prospettiva di più ampio respiro,
tentando di capire quali sono le radici profonde da cui si è formata
da oltre due millenni l'identità culturale di una civiltà che è
“altra” rispetto alla nostra; e per la quale vale la pena di
raccontare che la Cina che c'era una volta c'è ancora, visto che
cento anni di certo non possono bastare a cancellarne duemila.
Alessandra
Lavagnino e Silvia Pozzi, entrambe docenti universitarie, con Cultura
cinese. Segno, scrittura e civiltà (pp. 243, € 18, Carocci,
Roma 2013) si sono proposte di rintracciare gli elementi fondanti e
peculiari dell'identità culturale della Cina di ieri che ancora oggi
determinano il modo di essere e di pensarsi della Cina di oggi, dalla
scrittura ai vari generi letterari che di questa particolare forma di
fissare la memoria si sono serviti. I caratteri cinesi sono infatti i
mattoni con cui è stato edificato un tessuto culturale tanto ricco,
dando forma a un pensiero filosofico, poetico, storico e religioso e
impregnando anche la cultura popolare, quella che si esprime nel
romanzo e nel teatro. Sono delle forme che perfettamente aderiscono
ai contenuti e questi si adattano a fatica alla trasposizione in
un'altra forma, quella alfabetica, come è il caso soprattutto della
scrittura poetica. Ma anche tutte le altre scritture (perché è di
una civiltà grafocentrica che qui si tratta) mantengono un qualcosa
di arcano, di non perfettamente traducibile, che deriva dal segno
scritto, un'invenzione culturale che dalla Cina si è irradiata
presso altri popoli dell'estremo oriente come il Giappone, la Corea e
il Vietnam.
Così,
mantenendosi costantemente aderenti al filone della scrittura in
tutte le sue manifestazioni, identificando, grazie al segno,
scrittura e civiltà, Lavagnino e Pozzi presentano non una storia
fattuale della Cina con il classico succedersi di date e dinastie, ma
qualcosa di inedito e di veramente prezioso: uno strumento complesso
e quanto mai sofisticato per comprendere l'identità culturale della
Cina di ieri e di oggi. Che si tratti di uno strumento sofisticato è
un bene, siamo giunti ormai fortunatamente a un punto di svolta in
cui è indispensabile liberarsi dalle mistificazioni dei sublimi
semplificatori, accettando sì la divulgazione purché sia una
divulgazione colta, che renda cioè partecipi tutti coloro che non si
considerano specialisti in materia del meglio di quanto è stato
scritto e pensato nei circoli chiusi delle accademie.
Per
quanto riguarda la Cina, che è diventata ormai una stella fissa del
nostro firmamento, la svolta è indispensabile per proteggersi da
frettolosi giudizi e previsioni prive di costrutto, luoghi comuni che
si affastellano e che nell'era della globalizzazione hanno trovato
terreno più che mai fertile. Prima della sua folgorante entrata in
scena come potenza economica, cioè fino a pochi anni fa, la Cina
veniva intesa o come un fossile vivente o come una speranza di
riscatto per una futura umanità. Ma il bello era che non se ne
sapeva niente o, per lo meno, chi la studiava e frequentava aveva
difficoltà a inserirne la specificità in un contesto ancora vivente
e tale da sollecitare feconde riflessioni. Infatti il fossile puzzava
di muffa, il sogno della futura umanità era svanito nei gulag dei
socialismi reali, i ripetuti fallimenti autorizzavano a ignorare la
vitalità ancora operante di una cultura che era stata soffocata e
avvilita negli anni del “secolo breve”.
A
questo volume sulla cultura cinese che dovrebbe leggere chiunque
intenda occuparsi di Cina, si affianca un interessante studio di
Christopher Bollas (La mente orientale. Psicoanalisi e Cina,
ed. orig. 2012, trad. dall'inglese di Maria Paola Nazzaro, pp. 199, €
14, Raffaello Cortina, Milano 2013), non dedicato unicamente alla
Cina ma alla “mente orientale” in generale, della quale, come lo
stesso Bollas riconosce, la mente cinese è magna pars. Il
sottotitolo è infatti Psicoanalisi e Cina e Bollas, noto
scrittore e psicoanalista, tenta di creare dei collegamenti tra
alcuni aspetti della pratica psicoanalitica e la mente orientale.
Riconosce che la Cina di oggi è al centro dei pensieri della
comunità globalizzata ma sottolinea come i cinesi, anche di fronte
ai fulminei sviluppi della loro crescita economica, non possano fare
a meno di portare con loro, quantomeno nell'inconscio collettivo,
quei testi e quegli assiomi etici che hanno costituito la base della
loro civiltà.
Come
Lavagnino e Pozzi nel loro libro mettono in stretta correlazione
scrittura e civiltà, anche Bollas si sofferma a lungo sulle
particolarità uniche del cinese scritto, sostenendo che ogni segno
ha acquisito molte altre associazioni rispetto alle originarie e si è
aperto a molteplici significati. Ma come psicoanalista va oltre e
scrive: “Tenendo presente che ogni carattere è ideografico e
carico di emotività, il semplice atto di imparare a scrivere è
simile a una identificazione psichica, di solito inconscia, con
l'intera storia di quel frammento di vita emotiva di una nazione”.
Gli
argomenti trattati in questo testo, che sicuramente segna una svolta
nel modo di avvicinarsi alla mente orientale, inducono a riflessioni
sulle differenze evidenti tra oriente e occidente, soprattutto per
quanto riguarda il sé individuale che in Cina si è sviluppato con
un forte senso della forma della vita umana (l'importanza dei riti),
mentre nel mondo occidentale manca un tale senso della presentazione
formale del sé. Ne deriva che attraverso il linguaggio la mente
orientale non riesce a rappresentare la vita interiore, il discorso
non riesce a deviare da norme accettate per secoli, mentre invece,
per la psicoanalisi occidentale, è l'enfasi sul discorso libero che
rivela i pensieri rimossi e dà importanza al significato del sé.
Sembrerebbero
due tipi di comportamento inconciliabili ma, dal momento che oggi
oriente e occidente tentano sempre più di incontrarsi, la
psicoanalisi potrebbe essere uno dei possibili ponti. Questa almeno è
la speranza espressa da Bollas, il quale ritiene che la lingua cinese
classica possa aggiungere una dimensione nuova alla libera
associazione freudiana in quanto, scrive, “la catena di immagini
svelate dal cinese equivale a un processo libero associativo più
esistenziale, composto da esperienze toccanti (...) essa mette in
giustapposizione le immagini con tale forza intelligente da formare
un nuovo oggetto emotivo”. La speranza è dunque quella di un
processo libero associativo “sino-freudiano”, in un futuro che si
spera prossimo dove tante altre categorie orientali e occidentali
andranno ripensate. Così si spera.
“l'Indice”,
Luglio-Agosto 2014
Nessun commento:
Posta un commento