11.1.19

La Cina nel flusso della lunga durata. La mentalità fissata dagli ideogrammi (Renata Pisu)

Osso oracolare del periodo Shang (II millennio a.C.)

Ho la strana impressione che ormai si viva in un'epoca dove è di moda raccontare favole, nel senso che spesso si è costretti a cominciare con un “c'era una volta”. La colpa è del tempo che è come se fosse diventato più “breve”: come durata, guardandoci alle spalle, appare breve, per esempio, il secolo che si è appena concluso, il XX, a causa dell'accelerazione degli eventi e delle trasformazioni a ritmo vorticoso che si sono succedute in appena cent'anni. Così, il “c'era una volta” di oggi si situa appena ieri, non secoli fa, decenni fa, ma ieri, proprio ieri, il tempo di schioccare le dita. Se ciò trova riscontro quasi ovunque e per le più diverse situazioni, è per quanto riguarda la Cina che la mutazione lascia esterrefatti.
C'era una volta la Cina, quintessenza dell'esotismo, terra di miseria e carestie. Non c'è più. C'era una volta la Cina della rivoluzione trionfante. Sparita. C'è invece oggi la Cina dello sfrenato sviluppo economico, delle megalopoli, delle ardite infrastrutture, del turbocapitalismo, del sogno di un benessere promesso e non ancora concesso ai più. È questo il finale della storia, un “e vissero per sempre felici e contenti”? Potrebbe anche darsi, se si volesse continuare a raccontare favole sulla Cina, ignorandone le specificità culturali, valutandone le diverse fasi con superficialità, come se il grande paese fosse nato ieri. e in tal caso forse si correrebbe il rischio, fra qualche anno, di dover raccontare un'altra favola: “C'era una volta la Cina del super sviluppo economico”... Per carità, mai vorremmo dover constatare che quella Cina non c'è più, però sono le incognite, le continue variazioni, il gioco delle probabilità nel contesto globale che suggeriscono di affrontare la questione della Cina in una prospettiva di più ampio respiro, tentando di capire quali sono le radici profonde da cui si è formata da oltre due millenni l'identità culturale di una civiltà che è “altra” rispetto alla nostra; e per la quale vale la pena di raccontare che la Cina che c'era una volta c'è ancora, visto che cento anni di certo non possono bastare a cancellarne duemila.
Alessandra Lavagnino e Silvia Pozzi, entrambe docenti universitarie, con Cultura cinese. Segno, scrittura e civiltà (pp. 243, € 18, Carocci, Roma 2013) si sono proposte di rintracciare gli elementi fondanti e peculiari dell'identità culturale della Cina di ieri che ancora oggi determinano il modo di essere e di pensarsi della Cina di oggi, dalla scrittura ai vari generi letterari che di questa particolare forma di fissare la memoria si sono serviti. I caratteri cinesi sono infatti i mattoni con cui è stato edificato un tessuto culturale tanto ricco, dando forma a un pensiero filosofico, poetico, storico e religioso e impregnando anche la cultura popolare, quella che si esprime nel romanzo e nel teatro. Sono delle forme che perfettamente aderiscono ai contenuti e questi si adattano a fatica alla trasposizione in un'altra forma, quella alfabetica, come è il caso soprattutto della scrittura poetica. Ma anche tutte le altre scritture (perché è di una civiltà grafocentrica che qui si tratta) mantengono un qualcosa di arcano, di non perfettamente traducibile, che deriva dal segno scritto, un'invenzione culturale che dalla Cina si è irradiata presso altri popoli dell'estremo oriente come il Giappone, la Corea e il Vietnam.
Così, mantenendosi costantemente aderenti al filone della scrittura in tutte le sue manifestazioni, identificando, grazie al segno, scrittura e civiltà, Lavagnino e Pozzi presentano non una storia fattuale della Cina con il classico succedersi di date e dinastie, ma qualcosa di inedito e di veramente prezioso: uno strumento complesso e quanto mai sofisticato per comprendere l'identità culturale della Cina di ieri e di oggi. Che si tratti di uno strumento sofisticato è un bene, siamo giunti ormai fortunatamente a un punto di svolta in cui è indispensabile liberarsi dalle mistificazioni dei sublimi semplificatori, accettando sì la divulgazione purché sia una divulgazione colta, che renda cioè partecipi tutti coloro che non si considerano specialisti in materia del meglio di quanto è stato scritto e pensato nei circoli chiusi delle accademie.
Per quanto riguarda la Cina, che è diventata ormai una stella fissa del nostro firmamento, la svolta è indispensabile per proteggersi da frettolosi giudizi e previsioni prive di costrutto, luoghi comuni che si affastellano e che nell'era della globalizzazione hanno trovato terreno più che mai fertile. Prima della sua folgorante entrata in scena come potenza economica, cioè fino a pochi anni fa, la Cina veniva intesa o come un fossile vivente o come una speranza di riscatto per una futura umanità. Ma il bello era che non se ne sapeva niente o, per lo meno, chi la studiava e frequentava aveva difficoltà a inserirne la specificità in un contesto ancora vivente e tale da sollecitare feconde riflessioni. Infatti il fossile puzzava di muffa, il sogno della futura umanità era svanito nei gulag dei socialismi reali, i ripetuti fallimenti autorizzavano a ignorare la vitalità ancora operante di una cultura che era stata soffocata e avvilita negli anni del “secolo breve”.
A questo volume sulla cultura cinese che dovrebbe leggere chiunque intenda occuparsi di Cina, si affianca un interessante studio di Christopher Bollas (La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, ed. orig. 2012, trad. dall'inglese di Maria Paola Nazzaro, pp. 199, € 14, Raffaello Cortina, Milano 2013), non dedicato unicamente alla Cina ma alla “mente orientale” in generale, della quale, come lo stesso Bollas riconosce, la mente cinese è magna pars. Il sottotitolo è infatti Psicoanalisi e Cina e Bollas, noto scrittore e psicoanalista, tenta di creare dei collegamenti tra alcuni aspetti della pratica psicoanalitica e la mente orientale. Riconosce che la Cina di oggi è al centro dei pensieri della comunità globalizzata ma sottolinea come i cinesi, anche di fronte ai fulminei sviluppi della loro crescita economica, non possano fare a meno di portare con loro, quantomeno nell'inconscio collettivo, quei testi e quegli assiomi etici che hanno costituito la base della loro civiltà.
Come Lavagnino e Pozzi nel loro libro mettono in stretta correlazione scrittura e civiltà, anche Bollas si sofferma a lungo sulle particolarità uniche del cinese scritto, sostenendo che ogni segno ha acquisito molte altre associazioni rispetto alle originarie e si è aperto a molteplici significati. Ma come psicoanalista va oltre e scrive: “Tenendo presente che ogni carattere è ideografico e carico di emotività, il semplice atto di imparare a scrivere è simile a una identificazione psichica, di solito inconscia, con l'intera storia di quel frammento di vita emotiva di una nazione”.
Gli argomenti trattati in questo testo, che sicuramente segna una svolta nel modo di avvicinarsi alla mente orientale, inducono a riflessioni sulle differenze evidenti tra oriente e occidente, soprattutto per quanto riguarda il sé individuale che in Cina si è sviluppato con un forte senso della forma della vita umana (l'importanza dei riti), mentre nel mondo occidentale manca un tale senso della presentazione formale del sé. Ne deriva che attraverso il linguaggio la mente orientale non riesce a rappresentare la vita interiore, il discorso non riesce a deviare da norme accettate per secoli, mentre invece, per la psicoanalisi occidentale, è l'enfasi sul discorso libero che rivela i pensieri rimossi e dà importanza al significato del sé.
Sembrerebbero due tipi di comportamento inconciliabili ma, dal momento che oggi oriente e occidente tentano sempre più di incontrarsi, la psicoanalisi potrebbe essere uno dei possibili ponti. Questa almeno è la speranza espressa da Bollas, il quale ritiene che la lingua cinese classica possa aggiungere una dimensione nuova alla libera associazione freudiana in quanto, scrive, “la catena di immagini svelate dal cinese equivale a un processo libero associativo più esistenziale, composto da esperienze toccanti (...) essa mette in giustapposizione le immagini con tale forza intelligente da formare un nuovo oggetto emotivo”. La speranza è dunque quella di un processo libero associativo “sino-freudiano”, in un futuro che si spera prossimo dove tante altre categorie orientali e occidentali andranno ripensate. Così si spera.

“l'Indice”, Luglio-Agosto 2014

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