12.1.19

Ripensare l'eguaglianza in un'epoca di ineguaglianze (Pierre Rosanvallon)


Sul finire del 2012 lo storico e sociologo Pierre Rosanvallon, professore al Collège de France sintetizzò in una lectio magistralis tenuta a Vienna alcune delle riflessioni contenute in un suo libro che era appena uscito in Francia, La Société des égaux (Seuoi, Paris, 2012). Ne riprendo qui una versione ridotta che fu pubblicata nel 2013 da “L'Indice” nella traduzione (dall'inglese) di Santina Mobiglia. Mi pare che contenga non solo analisi storiche interessanti e convincenti, ma anche qualche indicazione per il futuro. Credo per esempio che vi si ritrovi qualche motivazione e qualche criterio per la questione del reddito di cittadinanza (parlo di cose serie e non della tessera dei poveri integrativa dei redditi di cui si ragiona nella meschina ed incolta disputa italiota). (S.L.L.)
Pierre Rosanvallon

Tutti sanno che le ineguaglianze sono esplose dagli anni ottanta e che ciò è dovuto essenzialmente all'enorme aumento dei redditi alti. Dappertutto si trovano statistiche a documentarlo. Il punto è che la crescente ineguaglianza si pone in netto contrasto con il suo precedente declino in Europa e in America, ed è certamente rilevante il fatto che il recente incremento sia conseguente a un lungo periodo di riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza in entrambi i continenti. L'attuale sistema segna una clamorosa rottura con il passato, invertendo la tendenza del secolo scorso. Sembra essersi avviato un ritorno al XIX secolo, con significative ripercussioni sulle nostre democrazie.
Il “popolo”, inteso in senso politico come entità collettiva che impone con sempre maggior forza la sua volontà, è sempre meno un “ corpo sociale”. La cittadinanza politica ha fatto dei passi avanti, mentre quella sociale è regredita. Questa lacerazione della democrazia costituisce un'inquietante minaccia per il nostro benessere; e il suo protrarsi potrebbe alla fine mettere in pericolo il regime democratico stesso. Di questa sofferenza, l'ascesa dei movimenti populisti è al tempo stesso un indicatore e la forza trainante. Per capire la “ grande inversione” attuale, dobbiamo partire dalla precedente “ grande trasformazione” .

Il riformismo della paura
Lo sviluppo del movimento operaio e la sua traduzione in voti socialisti (con il suffragio universale) alla fine del XIX secolo esercitò una pressione sui governi conservatori. “ Dobbiamo scegliere tra una rivoluzione fiscale e una rivoluzione sociale” , concluse Emile de Girardin in Francia. L'esempio tedesco è il più rilevante al riguardo. Per Bismarck, l'opzione riformista fu chiaramente un calcolo politico: l'intento immediato era di contrapporsi alla diffusione delle idee socialiste mostrando l'interessamento del governo per le classi lavoratrici. In Germania, in altri termini, il programma teso a ridurre le diseguaglianze sociali e a compensare le tribolazioni lavorative degli operai fu dettato da quello che potremmo chiamare il “ riformismo della paura” . La maggior parte degli altri paesi europei seguirono la linea tedesca. Dopo il 1918, tutti questi fattori politici e sociali conversero nello spingere i governi a estendere e accelerare le riforme avviate prima della guerra.


Guerre mondiali e nazionalizzazione della vita
Lo sviluppo delle ineguaglianze è strettamente legato al distacco di alcuni individui dalla media e alla legittimazione del loro diritto a distinguersi e a separarsi dagli altri, dunque all'anteporre il privato alle norme pubbliche. L'esperienza della prima guerra mondiale rovesciò questa tendenza: in un certo senso, la guerra nazionalizzò le vite della gente. Le attività private vennero ampiamente modellate dai vincoli pubblici, e le relazioni sociali tesero quindi a polarizzarsi tra due estremi: ripiegamento all'interno della cerchia familiare o coinvolgimento nei superiori problemi della nazione. In pratica non rimaneva alcun terreno intermedio tra la famiglia e il paese. Il fatto che la guerra mettesse a rischio la vita di tutti riportava in auge i principi fondamentali dello stato di natura. L'esperienza della Grande guerra segnò pertanto una svolta decisiva nella modernità democratica, reintroducendo in modo diretto e palpabile l'idea di una società di esseri umani eguali. La fraternità nel combattimento e la commemorazione del sacrificio sono fenomeni complessi, ma contribuirono ad aprire la strada a una maggiore solidarietà sociale. I versamenti previdenziali concessi ai reduci portarono a una generale riconsiderazione dei sussidi sociali e degli altri trasferimenti redistributivi.

La de-individualizzazione del mondo
La rivoluzione redistributiva fu resa possibile da queste condizioni storiche e politiche, ma fu anche il frutto di una rivoluzione intellettuale e morale che permise di concepirla. In breve, la redistribuzione divenne possibile perché l'economia e la società furono “ de-individualizzate” da pensatori che rigettarono le vecchie idee della responsabilità e del talento individuale. Ciò che emerse infine fu una nuova visione della stessa impresa. Una concezione nuova della natura della società cambiò il modo di pensare l'eguaglianza e la solidarietà sul finire del XIX secolo. I padri fondatori della sociologia europea - Albert Schàffle in Germania, John A. Hobson e Leonard T. Hobhouse in Inghilterra, Alfred Fouillée in Francia - concordavano tutti sul fatto che la società fosse un insieme organico.
Socialisti della cattedra in Germania, fabiani e New Liberals in Gran Bretagna, repubblicani solidaristi in Francia: alla fine del XIX secolo ci fu una convergenza tra questi vari movimenti politici e intellettuali. Tutti quanti riformularono in termini molto simili la questione di come è costituita la società. L'idea di una società composta da individui sovrani, autosufficienti, lasciò il posto a un approccio basato sull'interdipendenza. In questo nuovo contesto vennero completamente ridefinite le nozioni di diritto e dovere, di merito e responsabilità, di autonomia e solidarietà. L'eguaglianza come redistribuzione divenne non solo pensabile, ma anche possibile. L'introduzione dell'imposta progressiva sul reddito e i cambiamenti nelle tasse di successione furono da allora strettamente connessi alla crescente popolarità dell'idea che ognuno nasca con un debito verso la società.

Una nuova visione della povertà e dell'ineguaglianza
Lo sviluppo del Welfare State e delle istituzioni redistributive fu favorito dal fatto che venisse vieppiù riconosciuta la natura sociale dell'ineguaglianza. La gente era sempre più disposta a vederne la causa strutturale nell'organizzazione sociale, anziché nelle oggettive e legittime differenze individuali o nei comportamenti personali. Nella prima metà del XX secolo le critiche socialiste all'assetto sociale si diffusero grazie a questa nuova rappresentazione della società. E cambiava anche la visione della povertà.
È evidente che non esistono più i fattori politici e storici della “grande trasformazione”. Dopo la caduta del comunismo, non c'è più spazio per un riformismo della paura. Le paure sociali esistono ancora, ma riguardano cose come la violenza, la sicurezza o il terrorismo. Invocano uno stato autoritario invece che solidale. Analogamente, le minacce ecologiche suscitano paure rispetto al destino delle future generazioni, che vengono però espresse in modo generale e astratto, non in termini di redistribuzione sociale.
C'è poi, ancor più rilevante, l'impatto della trasformazione del capitalismo e della società. Il capitalismo che cominciò a emergere negli anni ottanta era diverso dalle sue precedenti forme organizzate per due aspetti. Innanzitutto cambiava il rapporto con il mercato, nonché il ruolo attribuito agli azionisti. In secondo luogo il lavoro veniva organizzato in modi nuovi: il fordismo, basato sulla mobilitazione di grandi masse di operai, lasciò il posto a un'esaltazione delle capacità creative individuali. La creatività divenne così il principale fattore di produzione. Per descrivere questo cambiamento furono coniate espressioni come “capitalismo cognitivo” o “soggettività produttiva”. La qualità è dunque diventata una caratteristica centrale della nuova economia, segnando una netta rottura con la precedente economia della quantità. Si sono quindi maggiormente diversificate le procedure lavorative e così pure i prodotti.
Questi mutamenti hanno fatto esplodere una crisi in società prima governate dallo spirito dell'eguaglianza redistributiva. Al tempo stesso, la nuova epoca dell'ineguaglianza e della solidarietà svigorita è stato un periodo di elevata consapevolezza delle discriminazioni sociali e di tolleranza di molti tipi di differenza, un fatto spesso trascurato dai critici. Il quadro è quanto meno contraddittorio, e mentre si sono fatti dei passi indietro, ci sono stati innegabili progressi rispetto alla condizione delle donne, all'accettazione delle differenze nell'orientamento sessuale, e in generale dei diritti individuali.
Se vogliamo capire i mutamenti recenti delle nostre società, dobbiamo prendere atto di tutte queste tendenze divergenti. Un buon modo è quello di guardare alle trasformazioni “interne” della “società degli individui”, che non comparve improvvisamente alla fine del XX secolo, ma ha costituito la cornice entro la quale si sono sviluppate per oltre due secoli le istituzioni moderne. In poche parole, ciò che abbiamo bisogno di comprendere è la transizione da un individualismo dell'universalità a un individualismo della singolarità, che rispecchia anch'esso nuove speranze democratiche. Nei regimi democratici associati all'individualismo universalistico, il suffragio universale significava che ogni individuo aveva titolo alla stessa porzione di sovranità di tutti gli altri. Nelle democrazie il cui modello sociale è l'individualismo della singolarità, l'individuo aspira a essere importante e unico agli occhi degli altri. Ciascuno rivendica implicitamente il diritto a essere considerato una celebrità, un esperto o un artista, ovvero, si aspetta che le proprie idee e giudizi vengano tenuti in conto e riconosciuti come validi.
In questo nuovo contesto l'eguaglianza non ha perso nulla della sua importanza. La forma più intollerabile di ineguaglianza è ancora il non essere trattato come un essere umano, il venire rifiutato come indegno. L'idea di eguaglianza implica quindi il desiderio di essere considerato uno che conta, una persona simile agli altri anziché esclusa in nome di una qualche differenza specifica. Essere riconosciuti “pari” agli altri vuol dire perciò che si è tali per la comune appartenenza al genere umano (rimandando al senso originario di “umanità” come qualità unitaria indistinta). Ma ciò ha assunto un significato più ampio e complesso, fino a includere il desiderio di una propria distinzione - una storia e caratteristiche personali proprie - riconosciuta dagli altri. Nessuno vuole essere “ridotto a un numero”.
Ciascuno vuole “essere qualcuno”. Di qui la centralità dell'idea di discriminazione, considerata il marchio di un'offesa tanto alla somiglianza quanto alla singolarità.
In seguito a questi diversi fattori, l'idea di eguaglianza è oggi entrata in una crisi profonda. Quali le opzioni?
La prima è un ritorno ai mali del tardo Ottocento, l'epoca della prima ondata della globalizzazione, come dire: nazionalismo aggressivo, xenofobia e protezionismo. Quest'ultimo era sorretto da un'idea puramente negativa dell'eguaglianza. La espresse brutalmente Barrès: “L'idea di ‘patria' implica una forma di ineguaglianza, ma a danno degli stranieri”. In altre parole, l'obiettivo era di compattare al loro interno (alcuni) gruppi di persone sfruttando una relazione di diseguaglianza. La peculiarità del protezionismo nazionale della fine del XIX secolo era che rappresentava un caso estremo, l'esito di una polarizzazione sia dell'identità sia dell'eguaglianza, restringendo l'idea di eguaglianza all'unica dimensione dell'appartenenza nazionale vista come omogeneità, ridotta essa stessa a una definizione negativa (“non stranieri”). La creazione di un'identità richiede sempre una demarcazione, una separazione, in qualche modo un gioco di specchi. Ma l'identità deve anche essere legata a un'idea propriamente positiva di vita in comune per produrre un sentimento democratico di appartenenza. È ciò che distingueva la nazione rivoluzionaria del 1789 dal nazionalismo di fine Ottocento. La prima era associata alla formazione di una società di eguali, mentre il secondo concepiva l'integrazione in modo non-politico, semplicemente come fusione di individui in un blocco omogeneo. Tale visione nazional-protezionistica è oggi alla base dei movimenti populistici in Europa e negli Stati Uniti.
La seconda opzione è una politica della nostalgia che invoca una rinascita del repubblicanesimo civico e/o degli antichi valori e istituzioni delle socialdemocrazie del passato. La invocava il defunto Tony Judt nel suo libro-testamento Guasto è il mondo. Per quanto altamente nobile, tale visione non tiene purtroppo in adeguata considerazione il carattere irreversibile dell'individualismo della singolarità, che non va confuso con l'egoismo e l'atomismo. Il punto cruciale è che la grande inversione non è la conseguenza di un “patto violato” (si veda George Packer, The broken contract, “Foreign Affairs”, 2011, n. 6) o di una perversione morale. È il prodotto di fattori storici e politici tanto quanto di trasformazioni strutturate che investono il modo di produzione e la natura del legame sociale. Il neoliberalismo è stato, finora, l'interpretazione più attiva di tali cambiamenti: considera la società di mercato e la prospettiva di una competizione generalizzata come il compimento della modernità in quanto modello auspicabile di umanità e di realizzazione personale. Ma ne andrebbero evitati i malintesi. Non è soltanto un'ideologia vincente e negativa, è anche una strumentalizzazione perversa della singolarità. Che le aziende attuali, ad esempio, usano come un mezzo di produzione, senza tenere in alcun conto l'autorealizzazione dei lavoratori. Di qui, nuovi tipi di conflitti sociali sui temi del rispetto e delle vessazioni morali. Il problema è che le critiche al neoliberalismo molto spesso trascurano l'aspirazione positiva alla singolarità e non tengono conto di come esso modifichi profondamente i giudizi riguardanti forme praticabili di eguaglianza nonché forme tollerabili di ineguaglianza.
Oggi, esiste in realtà un'unica risposta positiva alle sfide dei tempi. Le teorie della giustizia riesaminano la questione dell'ineguaglianza spostandola dal terreno sociale a quello dei rapporti interindividuali. Si fondano su una nuova considerazione delle “ineguaglianze giuste” in quanto dettate da criteri di merito e responsabilità. Una prospettiva che è stata ovunque chiamata delle pari opportunità, pur con una grande varietà di definizioni, dalle minimaliste a quelle radicali. Ma giustizia non è sinonimo di eguaglianza. Non dice nulla circa la natura di una società democratica.
Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo modello di solidarietà e integrazione in un'epoca di singolarità. Tuttavia, se oggi si vuole una maggiore redistribuzione, questa va re-legittimata. In che modo? Ridefinendo l'eguaglianza in una dimensione universalistica, ovvero con un ritorno alle visioni delle Rivoluzioni francese e americana: a un'idea dell'eguaglianza come relazione sociale e non come misura aritmetica. In quei momenti storici, l'eguaglianza venne intesa innanzitutto come relazione, come un modo di costruire una società, di produrre e vivere insieme. Veniva considerata una qualità democratica, e non solo una misura distributiva della ricchezza. Questa idea relazionale dell'eguaglianza era articolata in rapporto ad altri tre concetti: somiglianza, indipendenza, cittadinanza. La somiglianza corrisponde all'eguaglianza come equivalenza: essere “simili” vuol dire avere le stesse proprietà essenziali, tali da rendere ininfluenti le restanti differenze. L'indipendenza è l'eguaglianza come autonomia: definita negativamente come assenza di subordinazione e positivamente come equilibrio nello scambio. La cittadinanza implica l'eguaglianza come partecipazione: è data dall'appartenenza comunitaria e dall'attività civica. Fu così che il progetto dell'eguaglianza come relazione venne interpretato nei termini di un mondo di esseri umani simili (o semblables, come direbbe Tocqueville), di una società di individui autonomi e di una comunità di cittadini.
Queste idee furono scardinate dalla rivoluzione industriale, che aprì la prima grande crisi dell'eguaglianza. Per superare la seconda grande crisi, dobbiamo riconquistare lo spirito originario dell'eguaglianza in una forma adeguata all'epoca attuale.
Oggi i principi di singolarità, reciprocità e comunanza possono ricostituire l'idea di una società di eguali e far rinascere un progetto per crearla. Devono essere questi principi a fornire la legittimazione di base per nuove politiche redistributive. Realizzare una società di eguali dovrebbe essere la nuova denominazione del progresso sociale in una dimensione universalistica. Perché la cosiddetta “questione sociale” non riguarda soltanto la povertà e l'esclusione: si tratta anche di ricostruire un mondo comune per l'intera società.

L'Indice, gennaio 2013

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