Sul finire del 2012 lo
storico e sociologo Pierre Rosanvallon, professore al Collège de
France sintetizzò in una lectio magistralis
tenuta a Vienna alcune delle riflessioni contenute in un suo libro
che era appena uscito in Francia, La Société des égaux
(Seuoi, Paris, 2012). Ne
riprendo qui una versione ridotta che fu pubblicata nel 2013 da
“L'Indice” nella traduzione (dall'inglese) di Santina Mobiglia.
Mi pare che contenga non solo analisi storiche interessanti e
convincenti, ma anche qualche indicazione per il futuro. Credo per
esempio che vi si ritrovi qualche motivazione e qualche criterio per
la questione del reddito di cittadinanza (parlo di cose serie e non
della tessera dei poveri integrativa dei redditi di cui si ragiona
nella meschina ed incolta disputa italiota). (S.L.L.)
Pierre Rosanvallon |
Tutti sanno che le
ineguaglianze sono esplose dagli anni ottanta e che ciò è dovuto
essenzialmente all'enorme aumento dei redditi alti. Dappertutto si
trovano statistiche a documentarlo. Il punto è che la crescente
ineguaglianza si pone in netto contrasto con il suo precedente
declino in Europa e in America, ed è certamente rilevante il fatto
che il recente incremento sia conseguente a un lungo periodo di
riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza in entrambi i
continenti. L'attuale sistema segna una clamorosa rottura con il
passato, invertendo la tendenza del secolo scorso. Sembra essersi
avviato un ritorno al XIX secolo, con significative ripercussioni
sulle nostre democrazie.
Il “popolo”, inteso
in senso politico come entità collettiva che impone con sempre
maggior forza la sua volontà, è sempre meno un “ corpo sociale”.
La cittadinanza politica ha fatto dei passi avanti, mentre quella
sociale è regredita. Questa lacerazione della democrazia costituisce
un'inquietante minaccia per il nostro benessere; e il suo protrarsi
potrebbe alla fine mettere in pericolo il regime democratico stesso.
Di questa sofferenza, l'ascesa dei movimenti populisti è al tempo
stesso un indicatore e la forza trainante. Per capire la “ grande
inversione” attuale, dobbiamo partire dalla precedente “ grande
trasformazione” .
Il riformismo della
paura
Lo sviluppo del movimento
operaio e la sua traduzione in voti socialisti (con il suffragio
universale) alla fine del XIX secolo esercitò una pressione sui
governi conservatori. “ Dobbiamo scegliere tra una rivoluzione
fiscale e una rivoluzione sociale” , concluse Emile de Girardin in
Francia. L'esempio tedesco è il più rilevante al riguardo. Per
Bismarck, l'opzione riformista fu chiaramente un calcolo politico:
l'intento immediato era di contrapporsi alla diffusione delle idee
socialiste mostrando l'interessamento del governo per le classi
lavoratrici. In Germania, in altri termini, il programma teso a
ridurre le diseguaglianze sociali e a compensare le tribolazioni
lavorative degli operai fu dettato da quello che potremmo chiamare il
“ riformismo della paura” . La maggior parte degli altri paesi
europei seguirono la linea tedesca. Dopo il 1918, tutti questi
fattori politici e sociali conversero nello spingere i governi a
estendere e accelerare le riforme avviate prima della guerra.
Guerre mondiali e
nazionalizzazione della vita
Lo sviluppo delle
ineguaglianze è strettamente legato al distacco di alcuni individui
dalla media e alla legittimazione del loro diritto a distinguersi e a
separarsi dagli altri, dunque all'anteporre il privato alle norme
pubbliche. L'esperienza della prima guerra mondiale rovesciò questa
tendenza: in un certo senso, la guerra nazionalizzò le vite della
gente. Le attività private vennero ampiamente modellate dai vincoli
pubblici, e le relazioni sociali tesero quindi a polarizzarsi tra due
estremi: ripiegamento all'interno della cerchia familiare o
coinvolgimento nei superiori problemi della nazione. In pratica non
rimaneva alcun terreno intermedio tra la famiglia e il paese. Il
fatto che la guerra mettesse a rischio la vita di tutti riportava in
auge i principi fondamentali dello stato di natura. L'esperienza
della Grande guerra segnò pertanto una svolta decisiva nella
modernità democratica, reintroducendo in modo diretto e palpabile
l'idea di una società di esseri umani eguali. La fraternità nel
combattimento e la commemorazione del sacrificio sono fenomeni
complessi, ma contribuirono ad aprire la strada a una maggiore
solidarietà sociale. I versamenti previdenziali concessi ai reduci
portarono a una generale riconsiderazione dei sussidi sociali e degli
altri trasferimenti redistributivi.
La
de-individualizzazione del mondo
La rivoluzione
redistributiva fu resa possibile da queste condizioni storiche e
politiche, ma fu anche il frutto di una rivoluzione intellettuale e
morale che permise di concepirla. In breve, la redistribuzione
divenne possibile perché l'economia e la società furono “
de-individualizzate” da pensatori che rigettarono le vecchie idee
della responsabilità e del talento individuale. Ciò che emerse
infine fu una nuova visione della stessa impresa. Una concezione
nuova della natura della società cambiò il modo di pensare
l'eguaglianza e la solidarietà sul finire del XIX secolo. I padri
fondatori della sociologia europea - Albert Schàffle in Germania,
John A. Hobson e Leonard T. Hobhouse in Inghilterra, Alfred Fouillée
in Francia - concordavano tutti sul fatto che la società fosse un
insieme organico.
Socialisti della cattedra
in Germania, fabiani e New Liberals in Gran Bretagna, repubblicani
solidaristi in Francia: alla fine del XIX secolo ci fu una
convergenza tra questi vari movimenti politici e intellettuali. Tutti
quanti riformularono in termini molto simili la questione di come è
costituita la società. L'idea di una società composta da individui
sovrani, autosufficienti, lasciò il posto a un approccio basato
sull'interdipendenza. In questo nuovo contesto vennero completamente
ridefinite le nozioni di diritto e dovere, di merito e
responsabilità, di autonomia e solidarietà. L'eguaglianza come
redistribuzione divenne non solo pensabile, ma anche possibile.
L'introduzione dell'imposta progressiva sul reddito e i cambiamenti
nelle tasse di successione furono da allora strettamente connessi
alla crescente popolarità dell'idea che ognuno nasca con un debito
verso la società.
Una nuova visione
della povertà e dell'ineguaglianza
Lo sviluppo del Welfare
State e delle istituzioni redistributive fu favorito dal fatto che
venisse vieppiù riconosciuta la natura sociale dell'ineguaglianza.
La gente era sempre più disposta a vederne la causa strutturale
nell'organizzazione sociale, anziché nelle oggettive e legittime
differenze individuali o nei comportamenti personali. Nella prima
metà del XX secolo le critiche socialiste all'assetto sociale si
diffusero grazie a questa nuova rappresentazione della società. E
cambiava anche la visione della povertà.
È evidente che non
esistono più i fattori politici e storici della “grande
trasformazione”. Dopo la caduta del comunismo, non c'è più spazio
per un riformismo della paura. Le paure sociali esistono ancora, ma
riguardano cose come la violenza, la sicurezza o il terrorismo.
Invocano uno stato autoritario invece che solidale. Analogamente, le
minacce ecologiche suscitano paure rispetto al destino delle future
generazioni, che vengono però espresse in modo generale e astratto,
non in termini di redistribuzione sociale.
C'è poi, ancor più
rilevante, l'impatto della trasformazione del capitalismo e della
società. Il capitalismo che cominciò a emergere negli anni ottanta
era diverso dalle sue precedenti forme organizzate per due aspetti.
Innanzitutto cambiava il rapporto con il mercato, nonché il ruolo
attribuito agli azionisti. In secondo luogo il lavoro veniva
organizzato in modi nuovi: il fordismo, basato sulla mobilitazione di
grandi masse di operai, lasciò il posto a un'esaltazione delle
capacità creative individuali. La creatività divenne così il
principale fattore di produzione. Per descrivere questo cambiamento
furono coniate espressioni come “capitalismo cognitivo” o
“soggettività produttiva”. La qualità è dunque diventata una
caratteristica centrale della nuova economia, segnando una netta
rottura con la precedente economia della quantità. Si sono quindi
maggiormente diversificate le procedure lavorative e così pure i
prodotti.
Questi mutamenti hanno
fatto esplodere una crisi in società prima governate dallo spirito
dell'eguaglianza redistributiva. Al tempo stesso, la nuova epoca
dell'ineguaglianza e della solidarietà svigorita è stato un periodo
di elevata consapevolezza delle discriminazioni sociali e di
tolleranza di molti tipi di differenza, un fatto spesso trascurato
dai critici. Il quadro è quanto meno contraddittorio, e mentre si
sono fatti dei passi indietro, ci sono stati innegabili progressi
rispetto alla condizione delle donne, all'accettazione delle
differenze nell'orientamento sessuale, e in generale dei diritti
individuali.
Se vogliamo capire i
mutamenti recenti delle nostre società, dobbiamo prendere atto di
tutte queste tendenze divergenti. Un buon modo è quello di guardare
alle trasformazioni “interne” della “società degli individui”,
che non comparve improvvisamente alla fine del XX secolo, ma ha
costituito la cornice entro la quale si sono sviluppate per oltre due
secoli le istituzioni moderne. In poche parole, ciò che abbiamo
bisogno di comprendere è la transizione da un individualismo
dell'universalità a un individualismo della singolarità, che
rispecchia anch'esso nuove speranze democratiche. Nei regimi
democratici associati all'individualismo universalistico, il
suffragio universale significava che ogni individuo aveva titolo alla
stessa porzione di sovranità di tutti gli altri. Nelle democrazie il
cui modello sociale è l'individualismo della singolarità,
l'individuo aspira a essere importante e unico agli occhi degli
altri. Ciascuno rivendica implicitamente il diritto a essere
considerato una celebrità, un esperto o un artista, ovvero, si
aspetta che le proprie idee e giudizi vengano tenuti in conto e
riconosciuti come validi.
In questo nuovo contesto
l'eguaglianza non ha perso nulla della sua importanza. La forma più
intollerabile di ineguaglianza è ancora il non essere trattato come
un essere umano, il venire rifiutato come indegno. L'idea di
eguaglianza implica quindi il desiderio di essere considerato uno che
conta, una persona simile agli altri anziché esclusa in nome di una
qualche differenza specifica. Essere riconosciuti “pari” agli
altri vuol dire perciò che si è tali per la comune appartenenza al
genere umano (rimandando al senso originario di “umanità” come
qualità unitaria indistinta). Ma ciò ha assunto un significato più
ampio e complesso, fino a includere il desiderio di una propria
distinzione - una storia e caratteristiche personali proprie -
riconosciuta dagli altri. Nessuno vuole essere “ridotto a un
numero”.
Ciascuno vuole “essere
qualcuno”. Di qui la centralità dell'idea di discriminazione,
considerata il marchio di un'offesa tanto alla somiglianza quanto
alla singolarità.
In seguito a questi
diversi fattori, l'idea di eguaglianza è oggi entrata in una crisi
profonda. Quali le opzioni?
La prima è un ritorno ai
mali del tardo Ottocento, l'epoca della prima ondata della
globalizzazione, come dire: nazionalismo aggressivo, xenofobia e
protezionismo. Quest'ultimo era sorretto da un'idea puramente
negativa dell'eguaglianza. La espresse brutalmente Barrès: “L'idea
di ‘patria' implica una forma di ineguaglianza, ma a danno degli
stranieri”. In altre parole, l'obiettivo era di compattare al loro
interno (alcuni) gruppi di persone sfruttando una relazione di
diseguaglianza. La peculiarità del protezionismo nazionale della
fine del XIX secolo era che rappresentava un caso estremo, l'esito di
una polarizzazione sia dell'identità sia dell'eguaglianza,
restringendo l'idea di eguaglianza all'unica dimensione
dell'appartenenza nazionale vista come omogeneità, ridotta essa
stessa a una definizione negativa (“non stranieri”). La creazione
di un'identità richiede sempre una demarcazione, una separazione, in
qualche modo un gioco di specchi. Ma l'identità deve anche essere
legata a un'idea propriamente positiva di vita in comune per produrre
un sentimento democratico di appartenenza. È ciò che distingueva la
nazione rivoluzionaria del 1789 dal nazionalismo di fine Ottocento.
La prima era associata alla formazione di una società di eguali,
mentre il secondo concepiva l'integrazione in modo non-politico,
semplicemente come fusione di individui in un blocco omogeneo. Tale
visione nazional-protezionistica è oggi alla base dei movimenti
populistici in Europa e negli Stati Uniti.
La seconda opzione è una
politica della nostalgia che invoca una rinascita del
repubblicanesimo civico e/o degli antichi valori e istituzioni delle
socialdemocrazie del passato. La invocava il defunto Tony Judt nel
suo libro-testamento Guasto è il mondo. Per quanto altamente
nobile, tale visione non tiene purtroppo in adeguata considerazione
il carattere irreversibile dell'individualismo della singolarità,
che non va confuso con l'egoismo e l'atomismo. Il punto cruciale è
che la grande inversione non è la conseguenza di un “patto
violato” (si veda George Packer, The broken contract,
“Foreign Affairs”, 2011, n. 6) o di una perversione morale. È il
prodotto di fattori storici e politici tanto quanto di trasformazioni
strutturate che investono il modo di produzione e la natura del
legame sociale. Il neoliberalismo è stato, finora, l'interpretazione
più attiva di tali cambiamenti: considera la società di mercato e
la prospettiva di una competizione generalizzata come il compimento
della modernità in quanto modello auspicabile di umanità e di
realizzazione personale. Ma ne andrebbero evitati i malintesi. Non è
soltanto un'ideologia vincente e negativa, è anche una
strumentalizzazione perversa della singolarità. Che le aziende
attuali, ad esempio, usano come un mezzo di produzione, senza tenere
in alcun conto l'autorealizzazione dei lavoratori. Di qui, nuovi tipi
di conflitti sociali sui temi del rispetto e delle vessazioni morali.
Il problema è che le critiche al neoliberalismo molto spesso
trascurano l'aspirazione positiva alla singolarità e non tengono
conto di come esso modifichi profondamente i giudizi riguardanti
forme praticabili di eguaglianza nonché forme tollerabili di
ineguaglianza.
Oggi, esiste in realtà
un'unica risposta positiva alle sfide dei tempi. Le teorie della
giustizia riesaminano la questione dell'ineguaglianza spostandola dal
terreno sociale a quello dei rapporti interindividuali. Si fondano su
una nuova considerazione delle “ineguaglianze giuste” in quanto
dettate da criteri di merito e responsabilità. Una prospettiva che è
stata ovunque chiamata delle pari opportunità, pur con una grande
varietà di definizioni, dalle minimaliste a quelle radicali. Ma
giustizia non è sinonimo di eguaglianza. Non dice nulla circa la
natura di una società democratica.
Ciò di cui abbiamo
bisogno è un nuovo modello di solidarietà e integrazione in
un'epoca di singolarità. Tuttavia, se oggi si vuole una maggiore
redistribuzione, questa va re-legittimata. In che modo? Ridefinendo
l'eguaglianza in una dimensione universalistica, ovvero con un
ritorno alle visioni delle Rivoluzioni francese e americana: a
un'idea dell'eguaglianza come relazione sociale e non come misura
aritmetica. In quei momenti storici, l'eguaglianza venne intesa
innanzitutto come relazione, come un modo di costruire una società,
di produrre e vivere insieme. Veniva considerata una qualità
democratica, e non solo una misura distributiva della ricchezza.
Questa idea relazionale dell'eguaglianza era articolata in rapporto
ad altri tre concetti: somiglianza, indipendenza, cittadinanza. La
somiglianza corrisponde all'eguaglianza come equivalenza: essere
“simili” vuol dire avere le stesse proprietà essenziali, tali da
rendere ininfluenti le restanti differenze. L'indipendenza è
l'eguaglianza come autonomia: definita negativamente come assenza di
subordinazione e positivamente come equilibrio nello scambio. La
cittadinanza implica l'eguaglianza come partecipazione: è data
dall'appartenenza comunitaria e dall'attività civica. Fu così che
il progetto dell'eguaglianza come relazione venne interpretato nei
termini di un mondo di esseri umani simili (o semblables, come
direbbe Tocqueville), di una società di individui autonomi e di una
comunità di cittadini.
Queste idee furono
scardinate dalla rivoluzione industriale, che aprì la prima grande
crisi dell'eguaglianza. Per superare la seconda grande crisi,
dobbiamo riconquistare lo spirito originario dell'eguaglianza in una
forma adeguata all'epoca attuale.
Oggi i principi di
singolarità, reciprocità e comunanza possono ricostituire l'idea di
una società di eguali e far rinascere un progetto per crearla.
Devono essere questi principi a fornire la legittimazione di base per
nuove politiche redistributive. Realizzare una società di eguali
dovrebbe essere la nuova denominazione del progresso sociale in una
dimensione universalistica. Perché la cosiddetta “questione
sociale” non riguarda soltanto la povertà e l'esclusione: si
tratta anche di ricostruire un mondo comune per l'intera società.
L'Indice, gennaio 2013
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