2.1.19

La fama del Belli. Gogol lo ascoltò, poi disse: “Grande!”


Gioachino Belli non volle che i sonetti fossero stampati, però li leggeva in alcuni salotti di amici sicuri. Li leggeva atteggiando il viso a estrema serietà, anche quando si trattava di versi comici, e facendo una grande attenzione alla pronuncia. Sembra che fosse un dicitore irresistibile. Lo udì Gogol di passaggio a Roma, nel salotto della principessa Zenaide Wolkonsky e ne rimase affascinato, tanto da parlarne a Sainte-Beuve che a sua volta ne scrisse: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: si chiama Belli (o Beli). Gogol lo conosce e me ne ha parlato a fondo. Scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei Sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso serio del termine... Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso...”.
Clandestina in patria, la fama di Belli come poeta romanesco rimbalza così negli ambienti letterari internazionali e, stranamente, questa situazione si protrarrà a lungo anche dopo la morte del poeta e la fine delle condizioni che ne avevano consigliato la clandestinità. In Germania, in Inghilterra, in Russia, in Francia, i sonetti vengono tradotti e studiati, quando in Italia sul nome di Belli resta tenacemente incollata l'ombra del macchiettista, che lo relega fra i poeti minori e di genere. Molto più di lui, a Roma erano famosi e apprezzati Trilussa e Pascarella, più facili da capire, più espliciti, dice Carlo Muscetta, che ha molto contribuito con i suoi scritti a far conoscere il poeta: "Basti pensare che Benedetto Croce lo nomina solo di passaggio per opporgli la grandezza di Pascarella: un giudizio che i belliani, ancora oggi, non riescono a perdonargli".

“la Repubblica”, 9 febbraio 1991

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