Gioachino Belli non volle
che i sonetti fossero stampati, però li leggeva in alcuni salotti di
amici sicuri. Li leggeva atteggiando il viso a estrema serietà,
anche quando si trattava di versi comici, e facendo una grande
attenzione alla pronuncia. Sembra che fosse un dicitore
irresistibile. Lo udì Gogol di passaggio a Roma, nel salotto della
principessa Zenaide Wolkonsky e ne rimase affascinato, tanto da
parlarne a Sainte-Beuve che a sua volta ne scrisse: “Straordinario!
Un grande poeta a Roma, un poeta originale: si chiama Belli (o Beli).
Gogol lo conosce e me ne ha parlato a fondo. Scrive dei Sonetti in
dialetto trasteverino, ma dei Sonetti che si legano e formano un
poema: sembra che sia un poeta raro nel senso serio del termine...
Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta:
piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso...”.
Clandestina in patria, la
fama di Belli come poeta romanesco rimbalza così negli ambienti
letterari internazionali e, stranamente, questa situazione si
protrarrà a lungo anche dopo la morte del poeta e la fine delle
condizioni che ne avevano consigliato la clandestinità. In Germania,
in Inghilterra, in Russia, in Francia, i sonetti vengono tradotti e
studiati, quando in Italia sul nome di Belli resta tenacemente
incollata l'ombra del macchiettista, che lo relega fra i poeti minori
e di genere. Molto più di lui, a Roma erano famosi e apprezzati
Trilussa e Pascarella, più facili da capire, più espliciti, dice
Carlo Muscetta, che ha molto contribuito con i suoi scritti a far
conoscere il poeta: "Basti pensare che Benedetto Croce lo nomina solo
di passaggio per opporgli la grandezza di Pascarella: un giudizio che
i belliani, ancora oggi, non riescono a perdonargli".
“la Repubblica”, 9
febbraio 1991
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