Al tempo dell'intervista
che segue imperversava il governo Monti, frutto di un golpe
oligarchico “europeista” che la sinistra politica e sindacale non
ebbero la forza e/o il coraggio di contrastare e che è all'origine
di molte disgrazie italiane. Nonostante i sette anni trascorsi le sue
riflessioni anticonformistiche mi paiono assai utili. (S.L.L.)
Luciano Canfora negli anni 80 del Novecento |
TORINO
Abbiamo incontrato
Luciano Canfora a Torino, la città che egli definisce «la vera
capitale d’Italia». Il suo ultimo libro, Il mondo di Atene,
Laterza, è un vasto affresco sulla democrazia antica che giunge in
tempi di grave crisi dei sistemi democratici contemporanei e riattiva
la memoria storica del lettore intorno a temi e problemi del nostro
mondo, dalla crisi della rappresentanza, al tramonto della
concertazione politica, al neoimperialismo del villaggio globale.
Partiamo
dalia Grecia di oggi. Dal dopoguerra, in Occidente, consideravamo
naturale che stato, istituzioni e democrazia costituissero un
trinomio solidale. Ma, se guardiamo quanto avviene oggi in Europa, e
in Grecia soprattutto, può venirci il lecito sospetto che stato e
istituzioni tornino a essere macchina dispotica di una classe
dominante. Dobbiamo recuperare, per fare un esempio, l'analisi di
Lenin in Stato e rivoluzione?
Il caso Grecia è un caso
limite dei processi economici e dei movimenti istituzionali dall’alto
verso il basso che coinvolgono ormai l’intera area euroatlantica,
perché di tali processi la Grecia è anche vittima. Ciò che accade
oggi in Grecia - paese molto più di confine dell’Italia - risale
sicuramente alla posizione geopolitica che essa ha avuto nel
confronto tra Est e Ovest dal 1945 al 1991. La guerra civile greca fu
un episodio tragico: l’abbandono dei partigiani a se stessi, la
brutale tutela sulla sovranità greca, la messa al bando di una serie
di formazioni politiche, e poi, dopo la parentesi democratica del
patriarca Papandreu, i Colonnelli, diretta emanazione dei servizi
americani, in un momento di conflitto totale tra Ovest e Est
dell’Europa. Oggi la Grecia è un paese massacrato, con una casta
ricca totalmente svincolata dalla popolazione e dal territorio, il
che rende la situazione ancor più umiliante e il dramma del povero
Papademos è quello di essere sempre prono e tuttavia di deludere
sempre i suoi mandanti.
E
quanto alla lettura leninista dello stato padrone?
Io non starei così
vicino nel tempo. Ci sono due testi, antipodici, più lontani
cronologicamente: tra il 1819 e il 1848 ci sono Benjamin Constant e
Karl Marx. I due dicono sul punto che ora ci interessa
sostanzialmente la stessa cosa: ad alcuni piace ad altri dà disagio.
Constant dice: la ricchezza è più forte del governo, il governo si
deve inchinare, la ricchezza alla fine si nasconde e vince. Marx
dice: i governi sono il comitato d’affari del capitale. Poi uno si
schiera come gli pare.
Nel suo libro appena
uscito, la democrazia ateniese risulta essere il prodotto di «una
grande élite che accetta di governare un popolo bigotto e
oscurantista». Si tratta forse di un principio strutturale che
genera il sorgere dei grandi sistemi democratici occidentali?
È strutturale. Certo,
può sembrare controcorrente dirlo per chi sostenga una versione
deamicisiano-democraticistica, o se vogliamo anche mazziniana,
risorgimentale, «quando il popolo si desta Dio si mette alla sua
testa...». Il culto del popolo come tale, di per sé portatore sano
di valori, è una generosa, simpatica ingenuità, perché non
esistono portatori di valori innati, se non nella fantasia o nei
mistici. Il popolo ha bisogno di un contrasto, di un’élite
dirigente - parola antipatica, diciamolo pure - che si ponga in
termini di educazione politica. Nessun perbenismo politico ci deve
impedire di comprendere questo e comprenderlo sdrammatizza il dramma
caratteristico di ogni formazione di sinistra, cioè disperarsi
perché non ottiene la maggioranza. La maggioranza non è data dal
padreterno: si conquista attraverso la pedagogia politica, ormai da
lungo tempo dismessa. Il demo ateniese, nel piccolissimo della
società di V e IV secolo, è al tempo stesso egemonico rispetto ai
sudditi finché può e incline a sfruttare coloro che ritiene
subalterni: il popolo della Lega, oggi, ritiene che gli immigrati
siano o dei potenziali schiavi o degli sfruttatori - quindi ha lo
stesso atteggiamento ostile e repulsivo, perché disabituato a
frequentare un’educazione di tipo progressivo. Ed è un popolo
bigotto nel senso che è vittima di pregiudizi di ogni genere: nel
caso ateniese pregiudizi di carattere religioso - come quando un noto
capo democratico propone di chiudere le scuole di filosofia per
andare incontro alla sua base, e in una situazione molto simile si
trovò anche il clan pericleo di Anassagora rispetto all’ateniese
medio democratico.
Un aristocratico
inglese di antichissima famiglia, lord Romney, commentò in questo
modo, nel 2008, la perdita del proprio posto ereditario alla Camera
dei Lords, in seguito alla riforma già avviata da Blair, non ci
vuole democrazia, ma «magnanimità e dirigenza di chi è ben
educato», perché la democrazia è «un trucco per consultare tutti
e fare ciò che nessuno vuole». Sembra di sentir parlare il Vecchio
Oligarca della Costituzione degli Ateniesi. Secondo lei è
auspicabile oggi il governo di un'élite «magnanima e ben educata»?
Mi piace quest’episodio
evocato che si riannoda ad altri tasselli, uno dei quali è la parola
stessa democrazia, controversa in sé stessa e malvista in
Inghilterra fino agli inizi del Novecento. La reazione di fronte al
fenomeno democratico può essere di due tipi: uno è comprenderne la
dinamica e indirizzarla verso gli obiettivi dell’uguaglianza
sociale; l’altro e opposto, è quello che accomuna il Vecchio
Oligarca, gli artefici del colpo di stato del 411 a. C. ad Atene e
Lord Romney: i quali, tutti, sanno benissimo mettere in luce i
difetti del potere popolare in virtù di un cinico sofisma: poiché
siete una belva incondita, allora il potere passi a noi perché siamo
gli unici a potervi educare. Costoro vogliono trascurare che il
potere popolare può essere indirizzato in un senso piuttosto che in
un altro a seconda della cosciente avanguardia politica che lo guida.
Antifonte, nel suo scritto Sulla verità colpisce al cuore
l’antiegualitarismo sostanziale dei democratici liberi cittadini
primo iure e, però, come rimedio, propone il restringimento del
corpo civico ai ben educati. Ecco perché bisogna guardare il
fenomeno popolo-governante con due ottiche completamente diverse.
Lei cita più di una
volta la definizione che Max Weber dà della democrazia antica come
d’una «gilda politica che si spartisce il bottino». Possiamo
dirlo anche delle democrazie postmoderne e del nuovo imperialismo
globale, sia delle sue élites che dei suoi ‘popoli’?
Io sono un sostenitore
dell’analogia come forma a priori del conoscere storico, ma occorre
precisare alcune specificità. L’esempio del «vero ateniese» di V
sec. a. C. ha delle grandi potenzialità diagnostiche, a più uscite.
Da un lato ci fa pensare al meccanismo di esportazione del modello in
prospettiva giacobina, poi bonapartista, ovvero all’imposizione di
modelli di tipo collettivistico-sovietico, dopo il '45: paesi
fratelli, ma in realtà chi diserta viene schiacciato, proprio come
accade a Samo quando si ribella all’egemonia ateniese, e allora
Pericle porta dieci strateghi, una flotta immensa e la schiaccia. Ma
l’impero ateniese si può leggere anche da un’altra ottica
analogica che ci porta sul versante opposto. Ad esempio, il fenomeno
del gingoismo: il sindacalismo americano, nazionalistico,
patriottico, egoistico al massimo, che in nome del benessere d’una
parte cospicua della classe operaia americana, era intimamente
imperialistico, e riteneva, ad esempio, cosa sacrosanta l’America
del Sud come cortile di casa. Il demo ateniese che «si spartisce il
bottino» è la stessa cosa, perché compartecipa del vantaggio
dell’impero.
E l’attuale «gilda»
europea?
La novità nella quale
oggi ci troviamo è che, finito il periodo della contrapposizione di
sistema, con il disfacimento di uno dei due poli, si è determinato
un fenomeno che io amo chiamare la vittoria della Germania nella
Seconda Guerra Mondiale. Nella situazione nuova, la Germania ha vinto
la seconda guerra mondiale, diventando, con la riunificazione, il
pilastro di un impero continentale, che è la cosiddetta Unione
Europea, in cui c’è spesso un condominio a due, di antica data,
cioè l’asse franco-tedesco.
È una cosa molto
forte quella che dice...
In questo sono molto
legato a Teopompo: perché Teopompo prosegue Tucidide fino al 394?
Per dire che non è vero che Sparta ha vinto la Guerra del
Peloponneso, in quanto Conone ricostruisce le mura, ricrea la flotta
e, quindi, la vittoria spartana del 404 si è dissolta. Ora, il
fenomeno che abbiamo adesso sott’occhio è che l’Unione è una
gabbia d’acciaio. Un uomo sicuramente intelligente, Tremonti, ha
scritto un libro, se vogliamo tardivo, intitolato Uscite di
sicurezza, dove si diverte a mettere tra virgolette le parole di
coloro che scrissero le regole di Maastricht, in primis Jacques
Attali, eminenza grigia dello staff Mitterrand: «abbiamo creato un
meccanismo che impedirà a chiunque di uscire dall’euro». Il senso
di questo gioco è creare la certezza che il mercato non si sarebbe
disfatto, perché esso è la base dell’egemonia. Noi siamo
costretti a stare là dentro perché la Germania ha bisogno del
mercato europeo e ha bisogno che abbia una moneta unica. Quindi non
c’è solo il processo di svuotamento della democrazia, ma c’è
anche un processo specifico di subalternità al paese dominante, cioè
al vero vincitore della Seconda Guerra Mondiale.
Lei ha dedicato un
libro, tempo addietro, alla filologia come scienza della verità e
della libertà. L’intellettuale, lo storico, almeno a partire dalla
Rivoluzione francese e in tutte le vere democrazie, ha questa
consegna: coltivare la verità e la libertà. Secondo lei,
nell’attuale quadro politico ed economico, qual è il compito
dell’intellettuale?
Io sono tendenzialmente
prudente quando qualcuno vuole additare i compiti dell’intellettuale.
L’intellettuale è molto più veloce: egli arriva cioè prima a
capire i processi. Quando si parla di opportunismo
dell’intellettuale, si dice una cosa vera, ma al cinquanta per
cento: perché è in virtù di questa velocità di comprensione che
l’intellettuale si spinge a fare per tempo cose le quali poi, a
posteriori, sembrano opportunistiche, cioè frutto dell’allineamento
rapido sul cangiamento del reale. E questo è un vantaggio e un
limite. È un vantaggio perché l’intelligenza va apprezzata
comunque. È un limite, perché quello intellettuale è un gruppo
sociale che ha bisogno di gratificazioni e, quindi, dove può
ottenerle se non dal potere al quale si propone come interlocutore
privilegiato? Nell’attuale panorama, in cui tutto è disperso o
frammentato in mille situazioni concrete, io credo che il modello
socratico del tafano, questo Socrate-tafano che dà una molestia
continua, sia un valore positivo, sgradevole sul momento, ma
produttivo sulla distanza.
In che senso
produttivo?
C’era un sofisma, un
tempo, che aveva un certo fascino: il partito politico come
intellettuale collettivo, un partito politico, cioè, che, educati i
propri quadri alla disciplina mentale e alla conoscenza, si facesse
catena di trasmissione di pensieri rispetto a una classe. Ora tutto
questo non c’è più. Dopo un’egemonia reazionaria, con varie
sfumature, il compito principale degli intellettuali è smascherare
un rapporto di potere: ci avete raccontato la favola che questo mondo
coniugava libertà e democrazia, non è né l’uno né l’altro e
spieghiamo il perché. Si tratta di squadernare questo equivoco
logoro, che è servito, durante una fase storica, a vincere una
grande partita. Ora che è stata vinta, dobbiamo parlar chiaro:
disturbare les fables convenues.
Le oligarchie, come
ci insegna l’esperienza degli antichi fino ai nostri tempi, hanno
bisogno di formazione e di cooptazione. E le democrazie - cioè noi
oggi - come garantiscono i ‘migliori’? Attualmente in Italia è
esploso il problema del reclutamento della dirigenza, finalmente...
Con la scuola. Secondo me
l’unico grande argine e vivaio fecondo, nel crollo complessivo
delle formazioni politiche, anche ormai per la loro povertà di
pensiero, è la scuola. Infatti la scuola è il bersaglio: ecco
perché viene umiliata, subissata di fatiche inutili, deprivata di
risorse, ridotta a parcheggio, perché è il luogo più pericoloso e
fecondo.
E l’Università?
Nell’Università è più
facile demolire: la riduzione della validità sacrosanta del titolo
di studio, la distruzione del sistema statale, le isole beate
dell’eccellenza e la depressione da «serie C» di tutto il resto.
L’Università è più debole perché non è un approdo obbligato e
quindi si può dire meglio che bisogna rinunciare a un egualitarismo
deteriore. Purtroppo, le premesse di questo sono state nel
semplicismo della rivoluzione culturale sessantottesca, obiettivo
altissimo che, poi, di fatto, ha dato una mano a intaccare il
funzionamento di quell’istituzione contro cui oggi si può sparare.
Fu una partenza sbagliata e si è rivelata tale. L’indurre un
processo di banalizzazione o di abbassamento di livello sembrava,
all’inizio, solo demagogia e il tutto è stato accolto con
entusiasmo da chi voleva realizzare la disuguaglianza. Oggi capiamo
che è servito a determinare le isole di quella parola insopportabile
che è «eccellenza». E le riforme di centro-sinistra ci hanno
sospinto verso il Quarto Mondo: l’Università dovrebbe
alfabetizzare masse enormi, facendo passi spaventosi e gratuiti. La
sinistra deve fare grossa autocritica su questo punto.
Nel suo libro, ha un
ruolo importante l’occhio del comico, Aristofane, puntato sulla
scena politica democratica, e d’altra parte lei concesse tempo fa
un’intervista a Sabina Guzzanti per Viva Zapatero. Di che cosa
ridiamo o vogliamo ridere, in questo momento...?
Sì, certo, ne ho precisa
informazione. La gente adesso ride e vuole ridere di questa élite di
cui non si fida perché è piovuta dal cielo, élite ancora una volta
egemonica, scaturita da mediazioni più o meno credibili, come le
ginnastiche elettorali. E ha ragione a non fidarsi: anche l’oligarca
Antifonte era un uomo di primo ordine, ma ciò non toglie che non c’è
la volontà giusta. Questa reazione nei confronti del nuovo governo
si è prodotta in neanche due mesi ed è già sul proscenio.
Chiudiamo sul filo
mordente della battuta comica. Ho sentito dire, da più di un amico
filologo (non giovane), che l’attuale governo è paragonabile alla
svolta oligarchica del 411 a. C. in Atene. Come commenterebbe?
Sì, lo è. Non so se si
debba paragonare più a quella del 411 o a quella del 404: il 404 è
ancora più ideologizzato. Nel 404 lo stato guida da additare era un
modello più completo: si veniva da una catastrofe e da una sconfitta
irreparabile. Effettivamente, il governo che è stato abbattuto usava
il populismo in maniera quasi perfetta, populismo malvisto dai ricchi
veri e professionali, mentre la grande sintonia era con «la bestia
bionda», il popolo leghista e televisivo. Quel governo era esemplare
dal punto di vista populistico: il consenso è dominio. Questi
dell’attuale governo no, perché sono raffinati, sono preparati,
tecnici, sanno benissimo che non potrebbero affrontare una campagna
elettorale se non con l’aiuto esterno e quindi si tratta di un
gruppo oligarchico a tutti gli effetti. Dopodiché la loro tragedia
sarà di dover scegliere in che direzione applicare e indirizzare il
rigorismo. E sarà appunto la loro tragedia.
Box
IL LIBRO: EXCURSUS E
ANATOMIA IDEOLOGICA
Il ritratto di Alcibiade del Museo di Sparta (fonte Wikipedia) |
Il libro di Luciano
Canfora Il mondo di Atene (Laterza, pp. 508, € 22,00) è una
diagnosi politica della democrazia ateniese tra V e IV sec. a. C.
Prende le mosse dal mito di Atene, con l’archetipo dell’epitafìo
di Pericle in Tucidide, e da lì si rifrange in altre letture
(Platone, Isocrate, Lisia, la Costituzione degli Ateniesi), sino alla
moderna elaborazione storiografica: la reazione antigiacobina di
Constant, per un verso, e di Tocqueville, per l’altro, raccolta,
quest’ultima, da Weber e, via-Weber, da Finley, la linea weimariana
di destra (Bogner) che si nobilita nel nome di Wilamowitz, e di
sinistra, Rosenberg, che rimprovera alla democrazia ateniese il
bolscevismo imperfetto; la linea Tory britannica (Mitford); quella
del progressismo liberale di Grote fino a Glotz. Quindi si passa alle
componenti strutturali della democrazia ateniese - la parola pubblica
in assemblea e in teatro, la questione della ricchezza,
l’egualitarismo -, considerate da entrambi i fronti del conflitto
intemo alla città, la maggioranza democratica e la minoranza
oligarchica, sul terreno di due casi esemplari: Melo (con Tucidide,
Euripide, Isocrate) e la crisi del 415. La parte centrale del libro
esamina la Guerra del Peloponneso come fenomeno storico e politico,
evento bellico e sedizione civile: prodotti necessari della polis
imperialista, e ‘analoghi’ del lungo periodo di guerra che
impegnò l’Europa tra il 1914 e il 1945. Segue l’analisi dei
movimenti operati dalle oligarchie all’interno del contesto bellico
post-siciliano sino ai Trenta e alla guerra civile finale: Antifonte,
Frinico, Teramene, Crizia, tra il va e vieni di un Alcibiade
«ornamento di tutte le cospirazioni», sono i protagonisti esaminati
nella polifonia delle voci antiche e delle molteplici «verità» su
di essi. Figura simbolica del IV secolo, su cui il libro si chiude, è
Demostene, che cerca un’ultima possibilità di autonomia per Atene.
(ma.ste.)
talpa libri - il manifesto, 11 marzo 2012
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