9.1.19

La Germania dopo la Grande Guerra (Victor Serge)



Si respirava, in questa Germania, all’indomani di Versailles e sotto il presidente socialdemocratico Ebert, con la più democratica delle costituzioni repubblicane, l’aria di un mondo che finisce. Tutto vi era tenuto correttamente, le persone erano modeste, cortesi, attive, decadute, miserabili, debosciate, esasperate. Si costruiva una grande stazione in pieno centro della città, sopra la Sprea nera e la Friedrichstrasse, gli invalidi decorati della grande guerra vendevano fiammiferi alle porte dei cabaret, dove giovani donne, da vendere come tutto il resto, danzavano nude tra i tavoli dei consumatori. Un capitalismo delirante, di cui Hugo Stinnes sembrava l’anima, raccattava immense fortune nei fallimenti. In vendita le figlie della borghesia nei bar, le figlie del popolo in strada! In vendita i funzionari, le licenze di importazione e di esportazione, i documenti di Stato! In vendita le imprese, al cui avvenire nessuno più credeva! Il grosso dollaro e le sottili valute orgogliose dei vincitori spadroneggiavano, comprando tutto e credendo persino di poter comprare le anime. Le missioni militari alleate, incaricate di un impossibile controllo del disarmo, circolavano con belle uniformi, circondate da un odio educato ma evidente; numerose cospirazioni permanenti si ramificavano all’infinito: quella dei separatisti renani, pagati dagli stranieri, quella delle leghe militari reazionarie e quella dei rivoluzionari: la nostra. Oswald Spengler annunciava in termini filosofici Il declino dell’occidente (vedere l’Egitto morto, pensare alla fine di Roma!). I poeti rivoluzionari pubblicavano Die Dammerung der Menschen (Il crepuscolo degli uomini). I ritratti di Oskar Kokoschka, linee colori e volumi, erano scossi da una nevrosi cosmica; Georges Grosz tracciava con un tratto metallico profili di borghesi porcini e di carcerieri automi, al disotto dei quali vivevano una vita larvale prigionieri e proletari smunti. Barlach scolpiva contadini istupiditi dalla paura. Io stesso scrivevo:

La vita è come una malattia:
cura adatta: il ferro rovente
ma gli si preferiscono i veleni.

Le chiesette puntute coi tetti rossi sonnecchiavano ai margini di piazze sistemate a giardinetti. Con i caschi pesanti, i soldatacci scelti della Reichswehr montavano la guardia a un Ministero della guerra dalle finestre fiorite. La Madonna di Raffaello, nella sua camera luminosa della Galleria di Dresda, offriva al visitatore il suo profondo sguardo nero e dorato. L’organizzazione era così perfetta che, nelle foreste della Sassonia e dello Harz, trovai in piena solitudine dei cestini per le cartacce e dei cartelli indicatori: «Schoner Blick.» — paesaggio raccomandato, patentato in qualche modo. Le città di notte erano sontuosamente illuminate. In confronto con il nostro squallore russo, il benessere restava stupefacente.
Nessuno, in questa Germania salassata, credeva veramente all’avvenire; pochi pensavano al bene pubblico. I capitalisti vivevano nel terrore della rivoluzione. La media borghesia impoverita vedeva svanire i vecchi costumi e le speranze della vigilia. I socialdemocratici soli credevano all’avvenire del capitalismo, alla stabilizzazione di una democrazia tedesca e persino all’intelligenza e alla benevolenza dei vincitori di Versailles! Avevano la mentalità illuminata e ottimista della borghesia liberale del 1848. La gioventù si staccava da loro. Era nazionalista e socialisteggiante. La mia impressione è che desiderasse una rivoluzione e l’alleanza con la Russia per la guerra rivoluzionaria. L'energia, vuota di pensiero, si rifugiava nelle leghe militari; quando era tinta di dottrina, si polarizzava attorno al partito comunista. Charles Rappoport, con la smorfia di un sorriso nella sua barba cinica, mi diceva: «Non ci sarà rivoluzione tedesca per la stessa ragione per cui non ci sarà controrivoluzione in Russia: si è troppo stanchi, si ha troppa fame.

Da Memorie di un rivoluzionario, E/O, 2001

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