Si respirava, in questa
Germania, all’indomani di Versailles e sotto il presidente
socialdemocratico Ebert, con la più democratica delle costituzioni
repubblicane, l’aria di un mondo che finisce. Tutto vi era tenuto
correttamente, le persone erano modeste, cortesi, attive, decadute,
miserabili, debosciate, esasperate. Si costruiva una grande stazione
in pieno centro della città, sopra la Sprea nera e la
Friedrichstrasse, gli invalidi decorati della grande guerra vendevano
fiammiferi alle porte dei cabaret, dove giovani donne, da vendere
come tutto il resto, danzavano nude tra i tavoli dei consumatori. Un
capitalismo delirante, di cui Hugo Stinnes sembrava l’anima,
raccattava immense fortune nei fallimenti. In vendita le figlie della
borghesia nei bar, le figlie del popolo in strada! In vendita i
funzionari, le licenze di importazione e di esportazione, i documenti
di Stato! In vendita le imprese, al cui avvenire nessuno più
credeva! Il grosso dollaro e le sottili valute orgogliose dei
vincitori spadroneggiavano, comprando tutto e credendo persino di
poter comprare le anime. Le missioni militari alleate, incaricate di
un impossibile controllo del disarmo, circolavano con belle uniformi,
circondate da un odio educato ma evidente; numerose cospirazioni
permanenti si ramificavano all’infinito: quella dei separatisti
renani, pagati dagli stranieri, quella delle leghe militari
reazionarie e quella dei rivoluzionari: la nostra. Oswald Spengler
annunciava in termini filosofici Il declino dell’occidente
(vedere l’Egitto morto, pensare alla fine di Roma!). I poeti
rivoluzionari pubblicavano Die Dammerung der Menschen (Il
crepuscolo degli uomini). I ritratti di Oskar Kokoschka, linee colori
e volumi, erano scossi da una nevrosi cosmica; Georges Grosz
tracciava con un tratto metallico profili di borghesi porcini e di
carcerieri automi, al disotto dei quali vivevano una vita larvale
prigionieri e proletari smunti. Barlach scolpiva contadini istupiditi
dalla paura. Io stesso scrivevo:
La vita è come una
malattia:
cura adatta: il ferro
rovente
ma gli si preferiscono i
veleni.
Le chiesette puntute coi
tetti rossi sonnecchiavano ai margini di piazze sistemate a
giardinetti. Con i caschi pesanti, i soldatacci scelti della
Reichswehr montavano la guardia a un Ministero della guerra dalle
finestre fiorite. La Madonna di Raffaello, nella sua camera luminosa
della Galleria di Dresda, offriva al visitatore il suo profondo
sguardo nero e dorato. L’organizzazione era così perfetta che,
nelle foreste della Sassonia e dello Harz, trovai in piena solitudine
dei cestini per le cartacce e dei cartelli indicatori: «Schoner
Blick.» — paesaggio raccomandato, patentato in qualche modo. Le
città di notte erano sontuosamente illuminate. In confronto con il
nostro squallore russo, il benessere restava stupefacente.
Nessuno, in questa
Germania salassata, credeva veramente all’avvenire; pochi pensavano
al bene pubblico. I capitalisti vivevano nel terrore della
rivoluzione. La media borghesia impoverita vedeva svanire i vecchi
costumi e le speranze della vigilia. I socialdemocratici soli
credevano all’avvenire del capitalismo, alla stabilizzazione di una
democrazia tedesca e persino all’intelligenza e alla benevolenza
dei vincitori di Versailles! Avevano la mentalità illuminata e
ottimista della borghesia liberale del 1848. La gioventù si staccava
da loro. Era nazionalista e socialisteggiante. La mia impressione è
che desiderasse una rivoluzione e l’alleanza con la Russia per la
guerra rivoluzionaria. L'energia, vuota di pensiero, si rifugiava
nelle leghe militari; quando era tinta di dottrina, si polarizzava
attorno al partito comunista. Charles Rappoport, con la smorfia di un
sorriso nella sua barba cinica, mi diceva: «Non ci sarà rivoluzione
tedesca per la stessa ragione per cui non ci sarà controrivoluzione
in Russia: si è troppo stanchi, si ha troppa fame.
Da Memorie di un
rivoluzionario, E/O, 2001
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