Un classico che sembra
improponibile e di fronte a cui viene da storcere il naso. Che alcuni
non ricordano, altri associano a coercizioni infantili da parte di
una scuola che imponeva la frequentazione della biblioteca d’istituto
e la circolazione dei libri all’interno delle classi: I ragazzi
della via Pál di Ferenc Molnár.
Scritto da un ungherese
110 anni fa e ancora in grado (provare per credere) a incatenare al
banco per un’ora di ascolto una classe di ragazzi della scuola
media. Qual è la chiave di questo capolavoro? Innanzitutto proprio
quell’esotismo che discende dall’appartenenza a un altro secolo e
a un altro mondo: i ragazzi fanno parte della “società dello
stucco” (perché masticano lo stucco delle finestre per tenerlo
fresco e preparare i proiettili delle cerbottane) e oppongono un
forte muro di resistenza al fronte degli insegnanti. Sono poveri,
sporchi e cattivi. Intingono le penne nei calamai e si macchiano gli
abiti e quando hanno due soldi comprano un pezzo di torrone da un
ambulante italiano all’angolo della strada. Se si dividono in bande
è per contendersi uno spazio vitale per potere giocare a calcio.
Ma nulla è più serio di
questa lotta fra ragazzi della via Pál e Camicie rosse, perché nel
rapporto fra i ragazzi emergono i caratteri eterni delle nostre
classi: Boka, il capo carismatico, generoso e giusto, Geréb, il
traditore (che vive tutte le angosce di un Giuda redivivo), il
sottoposto Nemecsek a cui va intera la simpatia del lettore; è
l’unico soldato semplice nell’esercito improvvisato dei ragazzi e
a lui toccano tutti i lavori pesanti e pericolosi, quelli che gli
altri scansano e detestano.
Nessuna attività su
bullismo e ruoli all’interno della classe vale la lettura di questo
libro. E in più è un ottimo esempio (se letto in una terza) di come
uno scrittore sappia sentire “nell’aria” un evento imminente:
la lotta fra bande, con tutto il grottesco messo in campo
dall’antimilitarismo di Molnár, altro non è se non una
rappresentazione minima della prima guerra mondiale che inizierà a
breve. La vittima sacrificale di questo conflitto sarà proprio
Nemecsek: piccolo grande eroe a cui tutta la classe si sarà nel
frattempo terribilmente affezionata. Un ragazzo cinese che non
riusciva che a scambiare qualche monosillabo con i compagni e si
trincerava sempre dietro la difficoltà di comprendere le richieste
dell’insegnante, si tradì proprio durante la lettura del passo
relativo alla fine di Nemecsek: “Ma è davvero morto, prof?”.
La scena della morte del
piccolo soldato è in effetti indimenticabile, con il padre sarto
stroncato dal dolore che, per non bagnare con le sue lacrime la
giacca del signor Csetneski che stava riparando, la lascia scivolare
sul pavimento: “Boka, in piedi in mezzo alla stanza, abbassò la
testa. Poco prima, quando era seduto sulla sponda del letto, era
riuscito a stento a trattenere le lacrime: adesso si meravigliava di
non poter sfogare col pianto il suo immenso dolore. Si guardò
attorno e sentì un gran vuoto dentro di sé. I suoi compagni erano
rimasti in un angolo, vicini e sbigottiti. Davanti a tutti, Weiss con
il diploma d’onore in mano, che Nemecsek non aveva potuto vedere
(…). Non capivano nulla, avevano la mente vuota. Il loro compagno
era morto, ma cosa significava per essi la morte? Se ne stavano in
silenzio, turbati e perplessi davanti a quell’avvenimento strano e
incomprensibile che, per la prima volta, tanto li turbava”.
Una lettura eloquente,
per la classe, quanto quella di Veglia di Ungaretti, che tiene
insieme l’idea dell’insensatezza della guerra e il senso dello
sbigottimento di fronte a una morte assurda e indecifrabile. Nel
prato conteso dalle due bande verrà costruito un palazzo a tre
piani: con l’immagine di Boka, che si allontana pensando
all’inutilità della morte dell’amico, si chiude la storia della
piccola comunità infantile di Budapest. La vicenda, piena di colpi
di scena e imprevisti, imboscate, agguati e tradimenti, è avvincente
e coesa, e non conosce cadute della tensione narrativa.
“l'Indice”,giugno
2016
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