Ho
trovato su “L'Indice” questo interessante articolo di Alessandro
Iannucci, che insegna Lingua e letteratura greca all'Università di
Bologna. Mi pare che vi si rintracci una sottovalutazione degli
esperimenti di traduzione omerica di Quasimodo, su cui il giudizio,
di sostanziale stroncatura, mi pare quanto meno affrettato. (S.L.L.)
Il
recupero ideologico del classico nel primo Novecento da parte delle
élite vicine al fascismo sembrano dar vita in Italia come in
Germania, a una singolare continuità del neoclassicismo. Mentre nel
resto d’Europa, proprio a partire da Omero, si avviano
interpretazioni radicalmente nuove, illuminate dalla prospettiva
antropologica e libere dai vincoli del modello, nella cultura
italiana permangono letture impastate di retorica in cui prevale
l’urgenza della
riappropriazione dei testi. Ettore Romagnoli, in
particolare, sviluppa un grandioso progetto di traduzione dei
classici che inaugura con Zanichelli un nuovo mercato editoriale
ancora oggi protagonista: Eschilo (1921), Aristofane
(1924-27), Sofocle (1926), i Lirici (1932-36) e
naturalmente Omero (l’Odissea nel 1923 e l’Iliade nel
1924). Romagnoli fu un grande divulgatore, sinceramente interessato a
una diffusione dei classici al di fuori dei circuiti accademici:
pubblicista brillante e polemista arguto nei giornali e nelle riviste
culturali, promotore di rappresentazioni dei testi teatrali classici,
prima a Padova con i suoi studenti, poi a Siracusa inaugurando nel
1914 la lunga stagione dell’Istituto nazionale del dramma antico.
L’acceso antifilologismo e la spontanea adesione al fascismo hanno
sicuramente pesato negativamente nel complessivo giudizio su
Romagnoli. Si è così forse trascurato il lato più innovativo e in
straordinario anticipo sui tempi del suo profilo: la generosa
attenzione rivolta a una comunicazione pubblica del proprio sapere,
oggi tanto in voga nell’ambito della cosiddetta terza missione
universitaria.
Ettore Romagnoli |
In
ogni caso la sua traduzione omerica resta confinata nella propria
epoca ed esprime una cultura ancora legata ai modi del rifacimento
letterario. Come nei precedenti esperimenti di Pascoli (1899) e in
quelli successivi di Quasimodo sull’Iliade (1966 e 1968 con
illustrazioni di de Chirico) il traduttore non accetta di farsi da
parte, di rendersi quasi “trasparente” – come suggeriva
Benjamin – per non coprire l’originale, ma al contrario lo
pervade con la sua personale poetica fino a trasformarlo in una nuova
opera, quasi imitazione e riscrittura dell’ipotesto piuttosto che
versione in grado di riprodurne, per quanto in modo sbiadito,
significati e significanti.
La
lingua utilizzata è quella della tradizione poetica italiana; il
neoclassicismo si coniuga con gli esiti delle poetiche
tardo-ottocentesche e del primo Novecento, in un intreccio che ha
come risultati un vocabolario aulico e antico, anche quando siano
esplicitamente ricercate semplicità e immediatezza.
La
lingua utilizzata è quella della tradizione poetica italiana; il
neoclassicismo si coniuga con gli esiti delle poetiche
tardo-ottocentesche e del primo Novecento, in un intreccio che ha
come risultati un vocabolario aulico e antico, anche quando siano
esplicitamente ricercate semplicità e immediatezza. È una lingua
altra, del tutto artificiale e sempre più distante dalla prosa che
in Svevo e Pirandello è ormai modernamente priva di eccessivi
reticoli letterari; una lingua poetica che riflette gli orizzonti di
attesa di una comunità ristretta e che offre anche a Omero un volto
affatto diverso rispetto al fervore degli studi e delle
trasformazioni di quegli anni. Mentre Parry e Lord rivoluzionano ogni
concezione letteraria di Omero, rivelandone la spontaneità orale del
linguaggio formulare, le versioni di Romagnoli, Pascoli, Quasimodo
sembrano confermare l’idea che Omero sia una palestra in cui la
cultura letteraria italiana possa e debba esercitare la propria
necessità di appropriazione, l’ostinata ricerca di radici
culturali che si rivelano falsificazione del modello. L’Omero di
Romagnoli è il cantore di un eroismo virile, diretto erede del
biancore neoclassico di Monti. Quello di Pascoli è più intimo e
segnato da una tensione poetica personale straripante, fitta di
simboli e di sentimentalizzazioni; a sua volta Quasimodo riproduce
nel testo di partenza i lampi delle sue inquiete e talora oscure
visioni.
La svolta della
traduzione di Rosa Calzecchi Onesti
In
questo scenario, a metà del secolo, tra il primo dopoguerra e gli
anni del boom economico, emergono improvvise due nuove tensioni
nell’approccio ai classici, espresse dai principali protagonisti
del cambio di passo della cultura letteraria italiana, Pavese e
Pasolini.
Pavese,
come noto, fu tra i promotori di una nuova stagione culturale legata
alla casa editrice Einaudi, nata da una confraternita di allievi del
liceo torinese D’Azeglio di cui era parte insieme allo stesso Luigi
Einaudi, a Norberto Bobbio, a Massimo Mila e Carlo Ginzburg,
modellata forse sulle suggestioni del poeta americano Walt Whitman,
oggetto della sua tesi di laurea (1930) e poi al centro del celebre,
e drammatico, magistero del professor Keating (Robin Williams) nel
film L’attimo fuggente (1989). L’attenzione ai miti
mediterranei, all’etnologia e alla storia delle religioni che diede
vita alla famosa collana viola, e soprattutto l’insoddisfazione per
quell’Omero letto attraverso la lente deformante del neoclassicismo
spingono Pavese a cercare una nuova traduzione che restituisse
finalmente l’autenticità dell’antico. Si rivolge quindi a un
grecista come Untersteiner, tra i primi in Italia a prestare
attenzione alle funzioni e ai significati originari del mito.
Untersteiner, a sua volta, propone a Pavese una giovane allieva
milanese, Rosa Calzecchi Onesti cui subito è affidato nello
scetticismo generale un progetto di traduzione interlineare
dell’Iliade in cui a ogni verso greco corrisponda una linea di
testo in italiano. Nasce il fortunato modello dei classici con il
testo a fronte in cui la versione tradotta non sostituisce il testo
originale e non ne rappresenta l’ennesimo rifacimento, ma si
propone piuttosto di guidare il lettore a una comprensione autentica,
a suo modo filologica perché fedele e aderente al testo. Lo stesso
Pavese aveva sperimentato questa modalità negli inediti o postumi
abbozzi di traduzione della Teogonia di Esiodo o del IX canto
dell’Odissea, cercando una corrispondenza assoluta tra le parole e
il loro ordine nell’originale a costo di violare la sintassi della
lingua italiana. Tra Pavese e Calzecchi Onesti nasce una
collaborazione straordinaria, il famoso “incruento duello” in cui
sono dibattute molte scelte traduttive; ma fin dall’inizio grava
sulla giovane traduttrice il dubbio che la responsabilità finale
dell’opera, o almeno di gran parte di essa, sia in realtà da
attribuire al ben più famoso e autorevole scrittore. Gli studiosi
ancora ne discutono, spulciando nella fitta corrispondenza tra i due
conservata presso il Fondo Einaudi dell’Archivio di Stato di
Torino. In ogni caso l’Iliade einaudiana esce nel 1950, dopo il
suicidio di Pavese avvenuto il 26 agosto 1950, mentre Calzecchi
Onesti ne correggeva le bozze e intanto già preparava la traduzione
dell’Odissea che sarà poi pubblicata solo nel 1963. Nella
sua ultima lettera alla traduttrice datata 25 luglio di quella stessa
estate, ambiguamente, Pavese sembra quasi prendere congedo da
un’opera che aveva almeno in parte avvertito come propria e le
scrive, a proposito delle sue prime prove sull’Odissea, che ormai
tradurre Omero le “riusciva benissimo, come la frittata” e che a
questo punto non avrebbe più avuto bisogno di lui. In una lettera
del 1948, nelle fasi iniziali di questo felice ma fin troppo breve
incontro, Pavese aveva invece fissato l’ambizioso obiettivo di
“rendere contemporaneo Omero”. E davvero questo irripetibile –
e rapidissimo – lavoro aveva restituito al poema almeno in parte il
suo carattere ancestrale e orale. La traduzione era
programmaticamente intesa come oggettiva, sfrondata da ogni
abbellimento tipico dei rifacimenti e ambiva ad essere strumento in
grado di riflettere e accostare l’originale greco. L’utilizzo a
volte straniante del sistema di traduzione rigo per rigo consentiva
sia di seguire il testo antico sia di marcarne la distanza rispetto
al lettore moderno. Il progetto coglie nel segno. La traduzione di
Calzecchi Onesti rappresenta una svolta epocale: ha segnato intere
generazioni di studenti, studiosi e lettori per oltre mezzo secolo,
consegnando finalmente Omero a una lettura antropologica e
contemporanea, libera da vincoli monumentali.
A
breve distanza di tempo, in quello stesso decennio Pasolini si
rivolgerà ai classici con l’urgenza creativa dello scrittore che
intende manipolarne i testi, anche attraverso forme di riscrittura
più che di traduzione o meglio di “traslazione”, come la famosa
versione in romanesco del Miles gloriosus di Plauto intitolata
Il vantone (1963). In quelle stesse rappresentazioni
siracusane in cui ancora andavano in scena le vecchie versioni di
Romagnoli, la Orestiade di Pasolini (1960), ancorché con
qualche errore di traduzione, è una svolta altrettanto significativa
del progetto omerico di Pavese (e Calzecchi Onesti). Mentre la
ricerca scientifica produce e sviluppa nuove interpretazioni e teorie
critiche – con la scoperta del lato oscuro e irrazionale dei Greci
da parte di Dodds e con gli studi di antropologia storica della
scuola francese di Vernant – l’Iliade einaudiana e
l’Orestiade di Pasolini hanno il grande merito di
contribuire a quel decisivo cambiamento di prospettiva che sgombra
definitivamente il campo da ogni tentazione neoclassica o neoumanista
e che restituisce i classici alla cultura del proprio tempo e a una
lettura ben oltre gli ambiti dei rituali di apprendimento scolastico
e universitario o gli esoterismi accademici degli addetti ai lavori.
Ma
la contemporaneità di Omero, raggiunta nel 1950 e durata ben oltre
le aspettative va continuamente aggiornata. Le scelte traduttive di
Calzecchi Onesti quasi sempre risultavano un radicale svecchiamento
del testo omerico dalle briglie di una lunga tradizione letteraria;
ma questa traduzione mostra tutti i suoi anni e ora, paradossalmente,
è suo malgrado aulica, infarcita di latinismi e parole sentite ormai
come arcaicizzanti. Progettata perché fosse semplice e trasparente,
oggi non è quasi più comprensibile senza un ricco apparato di note
a esegesi della lingua italiana più che di Omero. Eppure gli effetti
di questa operazione editoriale rivoluzionaria permangono ancora nel
suo principale risultato: l’esigenza di attualità che impone di
riproporre continuamente nuove traduzioni, sia perché in specie
quelle omeriche invecchiano in fretta, sia perché lo scenario
interpretativo si trasforma costantemente.
L'Indice, febbraio 2017
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