Ettore Troilo e i ragazzi della Maiella (dal sito Socialismoitaliano 1892) |
Il 5 dicembre del 1943,
70 anni or sono, si costituì a Casoli la Brigata Maiella, la sola
formazione partigiana, assieme al Corpo Volontari della Libertà,
decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare, la prima a
conquistarsi la fiducia e le armi degli alleati e l’unica che, una
volta liberata dai tedeschi la regione di origine, continuò a
combattere a fianco degli alleati attraverso le Marche, la Romagna e
l’Emilia, liberando Bologna e spingendosi fino agli altipiani di
Asiago. Una brigata – è importante ricordarlo dopo i troppi libri
di Pansa e dei suoi imitatori sul «sangue dei vinti» - che arrivò
ad una forza di 1.500 uomini e che pure non si macchiò mai di un
solo episodio di violenza verso i fascisti, al punto che gli alleati
(prima gli inglesi e poi i polacchi) affidavano proprio a loro la
tutela dell’ordine pubblico nei paesi e nelle città via via
liberati.
Promotore della sua
nascita fu mio padre, Ettore Troilo. Volontario a 18 anni nella
Grande Guerra, socialista riformista, allievo di Turati a Milano e
poi segretario di Matteotti a Roma, attivo avvocato antifascista
durante il ventennio, Troilo raggiunse il natio Abruzzo dopo aver
partecipato alla difesa di Roma a Porta San Paolo, fu catturato dalle
SS, riuscì a fuggire, radunò una quindicina di uomini, quasi tutti
contadini, ed arrivò a Casoli, dove chiese al comando alleato le
armi necessarie ai suoi uomini per combattere contro i nazisti. Dopo
molti e umilianti rifiuti (gli inglesi vedevano dovunque
«communists») Troilo incontrò l’ufficiale che per primo ebbe
fiducia nei montanari abruzzesi, il maggiore Lionel Wigram, una
figura di straordinario interesse: grande avvocato, baronetto, autore
di trattati militari usati per decenni dall’esercito inglese,
amante dell’Italia e della sua cultura, Wigram si fidò subito di
questo appassionato avvocato abruzzese, come lui non più
giovanissimo (entrambi avevano 45 anni e figli a carico). Purtroppo
dopo solo due mesi, il 4 febbraio del ’44, Wigram cadde assieme a
11 patrioti della «Maiella» e a 4 dei suoi uomini nel tentativo di
liberare Pizzoferrato ed aprire agli alleati la strada verso gli
altipiani di Roccaraso e verso Roma: una impresa arditissima, per la
forza della guarnigione tedesca e la posizione del paese, a 1.250
metri di altezza e con due metri di neve.
In questa importante
ricorrenza, più che ricordare le vicende della «Maiella» (rimando
per questo al libro di mio fratello Nicola Storia della Brigata
Maiella, editore Mursia, 2011), vorrei affrontare tre temi «di
contesto» che penso meritino una riflessione.
Il primo riguarda
l’importanza, militare e strategica, della guerra in Abruzzo. La
maggioranza degli italiani ritiene che la guerra sia semplicemente
«passata» nella nostra regione. E invece l’Abruzzo fu uno dei
principali terreni della guerra in Italia: alla fine del ’43, in
un’area per secoli tagliata fuori dalle grandi vicende della
storia, vi si incrociarono i destini di Mussolini, prigioniero al
Gran Sasso, del re e del suo governo, in vergognosa fuga dal porto di
Ortona, e dei due capi supremi degli opposti eserciti, il maresciallo
Montgomery ed il feldmaresciallo Kesselring. Le truppe alleate furono
impegnate per otto mesi nel tentativo di sfondare la linea Gustav,
incontrando una resistenza dei tedeschi fortissima, agevolata da un
inverno molto rigido e dalla conformazione della regione, con
montagne impervie e fiumi in piena che rendevano difficile il
passaggio dei mezzi corazzati e pesanti. Si parla sempre, e
giustamente, della battaglia di Montecassino, ma quasi mai di quella
di Ortona, caposaldo della Linea Gustav sull’Adriatico, che durò
settimane, provocò la morte di un numero impressionate di civili
(1.314, quasi l’intera popolazione) ed una vera ecatombe fra i
soldati delle due parti. Ne sono struggente testimonianza il cimitero
militare inglese di Torino di Sangro e quello di Ortona, dove
riposano – assieme al maggiore Wigram - duemila soldati canadesi,
che ebbero il ruolo principale nella conquista della città. Non a
caso Mongomery intitolò le sue memorie Da El Alamein al Sangro.
Il secondo tema riguarda
la sorte terribile dei paesi dell’alto chetino, rasi al suolo
all’80-90 per cento dai tedeschi per fare «terra bruciata»
dinanzi agli Alleati: anche da qui, l’emigrazione di massa che nel
dopoguerra caratterizzò l’Abruzzo più di ogni altra regione del
centro-sud. E riguarda, soprattutto, le stragi di civili, che in
Abruzzo furono tra le più atroci: migliaia di abitanti, per lo più
vecchi, donne e bambini, massacrati a Pietransieri, a Sant’Agata di
Gessopalena, a Onna, a Filetto, in tante altre sconosciute località,
affratellati nella morte ai giovani martiri delle insurrezioni di
Lanciano e de L’Aquila. E furono stragi – in particolare quella
di Pietransieri, per la prima volta non motivata nemmeno con una
ragione di rappresaglia - volute personalmente da Kesselring, che le
riteneva il metodo più efficace, e meno «costoso » per le truppe
tedesche, per scoraggiare da un lato la nascita di formazioni
partigiane, dall’altro il sostegno della popolazione civile agli
stessi partigiani ed ai militari alleati.
Ed è questo il terzo
tema di riflessione, quello di cui maggiormente avverto l’urgenza
morale. Forse nessuna popolazione, in Italia, si prodigò come quella
abruzzese nell’aiutare non solo i partigiani locali ma i tanti
sconosciuti soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre e le
migliaia di militari alleati fuggiti dagli affollatissimi campi di
prigionia tedeschi. Italiani, inglesi, americani, canadesi,
australiani, neozelandesi, sud africani, indiani furono nascosti
nelle case e nelle masserie - soprattutto dalle nostre donne, eroiche
e silenziose - furono nutriti («si divisero il pane che non c’era»,
come ha scritto il Presidente Ciampi, che fu fra quei giovani
ufficiali che percorsero «Il sentiero della libertà»), furono
aiutati da organizzazioni spontanee a superare d’inverno i valichi
nevosi della Maiella per passare le linee e raggiungere l’esercito
italiano al Sud o quello alleato al di là del fiume Sangro.
In queste organizzazioni
di volontari vi erano insegnanti, impiegati e operai, ma soprattutto
contadini e pastori, spesso analfabeti: uomini e donne indifferenti
alle consistenti taglie in danaro offerte dai tedeschi e pronti
invece a sfidare i rastrellamenti e le rappresaglie, e spesso a
pagare con la vita dinanzi ai plotoni di esecuzione nazisti. Le
stragi furono anche una rabbiosa reazione all’opera di queste
organizzazioni, ma non riuscirono a soffocare l’umanità profonda e
l’indomito coraggio dei nostri conterranei. C’è una Medaglia
d’Oro per la Resistenza che dovrebbe ancora essere assegnata, ed è
quella al popolo abruzzese, protagonista silenzioso e modesto di una
vera epopea. In nome dei caduti e dei reduci della Brigata Maiella,
mi permetto di sottoporre questa proposta al Presidente Napolitano,
che pochi giorni fa ha ricevuto al Quirinale una delegazione della
«Maiella» ed ha ribadito, ancora una volta, il suo vivo e sincero
apprezzamento per i patrioti abruzzesi e per i loro conterranei.
l’Unità 1 febbraio
2014
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