Il 30 agosto del 1964,
una decina di giorni dopo la morte improvvisa a Yalta del segretario
del Pci Palmiro Togliatti, “l'Unità” alla sua figura dedicò
alcune pagine “speciali”, con suoi scritti inediti e con
importanti testimonianze.
Il 25 si erano svolti i
funerali con una amplissima una amplissima e commossa partecipazione
di popolo, il cui significato – storico e simbolico – sarà
sottolineato da un celebre quadro di Guttuso e da un'importante film
dei fratelli Taviani (I sovversivi):
da tutta Italia arrivarono operai metallurgici, edili, minatori,
braccianti agricoli, commesse, infermiere, camerieri, mezzadri,
famiglie di popolani, organizzati o alla spicciolata, e nella
capitale intere borgate si trasferirono per le vie del centro, con in
prima fila i giovani operai romani, “col pianto in cuor e con il
pugno chiuso nel dolor”, come poi si cantò. Sono sentimenti che
oggi, a distanza di quasi sessantanni, hanno dell'incredibile, ma che
sono documentati ed evidenti nelle tante foto e negli spezzoni
filmati che di quel funerale furono girati. Dell'orgoglio e insieme
dello sgomento di quella scomparsa tra i militanti comunisti del mio
paese, quasi tutti contadini e operai, sono testimone anch'io, che al
tempo avevo 16 anni e mi stavo avvicinando alla sinistra sui temi
della guerra del Vietnam e per l'avversione all'opprimente e
pervasivo clericalismo (nella diocesi di monsignor Peruzzo lo spirito
del Concilio arrivò con qualche ritardo): si sentivano orfani di un
padre del quale andavano fieri e che anche gli avversari più
intelligenti consideravano un padre della patria. L'anno appresso la
mia prima tessera della Fgci avrebbe recato nel frontespizio
l'immagine del leader del Pci e la scritta Compagno Togliatti, nel
tuo nome l'Italia sarà socialista.
Fra
le testimonianze contenute su “l'Unità” (tra le altre quelle di
Carlo Levi e Concetto Marchesi) spiccava quella di Jean-Paul Sartre,
il grande filosofo e intellettuale francese, che occupava un'intera
pagina. Dimostrava come il prestigio internazionale di Palmiro
Togliatti non si limitava al mondo comunista e non riguardava solo il
campo politico. È quella che qui riprendo. (S.L.L.)
Io sono uno straniero, eppure sento il dolore dell’Italia come un dolore mio. Questo rende evidente, senza possibilità di dubbio, il prestigio internazionale di Togliatti. Ma c’è un’altra cosa: per chi incontrava dei responsabili del PCI fuori del loro paese, in mezzo a rappresentanti di altri partiti comunisti, balzava agli occhi la singolarità del vostro Partito: esso era amato. E, ho finito per comprenderlo, ciò che prima di tutto era amato in voi — al di là di ogni questione personale — era Togliatti. Per parlare solo della mia esperienza, non è stato lui quello che ho conosciuto per primo. Ma i miei primi amici comunisti — che facevano parte della delegazione italiana al Congresso di Vienna — facevano spicco sugli altri per una libertà di parola, una lucidità di pensiero, una lieve ironia verso se stessi, che non mascheravano né la loro passione né la loro fedeltà. Si citava molto Marx, attorno a loro; essi non lo citavano: applicavano i suoi principi e il suo metodo, non esclusivamente alla sola borghesia ma alla storia del loro partito, a quella dei paesi socialisti, rigorosamente. Il marxismo in loro diveniva ciò che deve essere: un immenso e paziente sforzo di ricerca che unisca alla pratica la teoria, una perpetua riflessione su se stessi.
Essi hanno sempre
rifiutato l’idea che le società socialiste e i partiti comunisti —
e il loro stesso partito sfuggano alle interpretazioni marxiste,
evitando con ciò quell’errore fin troppo naturale, ma grave di
conseguenze, che ha portato i figli di Freud, nei loro ricordi di
infanzia, a sottoporre tutti alla psicoanalisi eccetto il loro padre.
Io ne ero affascinato; mi dicevo: qui è l’intelligenza italiana.
Attribuivo la loro libertà intellettuale alle tradizioni di questo
paese che ha visto tanta gloria e tanti lutti e che, nel pieno della
sua crescita, conserva il ricordo di tante glorie scomparse. In
questo senso, non mi ingannavo: ma le spiegazioni attraverso il
passato non valgono gran che, se non si aggiunge loro quella
attraverso il presente e attraverso l’avvenire. Il PCI era
l’Italia. Ma quando ho incontrato Togliatti, ho pensato: l’Italia
è lui. Egli la conserva, la mantiene e la trasforma. Lui, l’uomo
di tutti e l’uomo del suo Paese, preservando il suo partito da ogni
dogmatismo e guidandolo con pazienza, con fermezza verso il
socialismo.
Funerali di Togliatti (foto Carnicelli) |
Togliatti mi fece sedere
all’esterno e, sul principio, nessuno riconobbe quell’uomo
vestito da piccolo borghese, dal volto arguto, sorridente, dal gesto
facile ma marcato da una sorta di timidezza. E poi, tutto a un
tratto, mentre ci portavano la pasta asciutta, si fece folla. Moravia
mi aveva detto, vedendo passare la Lollobrigida, nel mese di giugno
1952: “Per avere una celebrità simile, bisogna essere una diva”.
Ebbene no: Togliatti non era un divo: proprio un uomo come gli altri,
sulla sessantina. Ma la folla circondava il ristorante: che occhi!
Avevano perduto ogni durezza. Vi leggevo un grande affetto. Prima
alcuni, poi tutti insieme si misero a gridare: «Togliatti! Viva
Togliatti!». I clienti stranieri si chiedevano con inquietudine
quale colonna del Foro, quale monumento fosse improvvisamente apparso
in mezzo a Trastevere. I clienti italiani sapevano chi fosse;
parlavano a bassa voce, a disagio. Se Togliatti fu contento di
verificare una volta di più la sua popolarità, non lo lasciò
trasparire. Parlava e soprattutto, con la sua estrema cortesia, la
sua curiosità sempre vigile, mi interrogava sulla Francia e mi
ascoltava. Curvo su una vecchia svizzera dalle chiome blu, il
cantante del ristorante sussurrava una canzone napoletana. Sentì
gridare, si voltò e venne verso di noi. Pallido di emozione:
«Compagno Togliatti, — disse, — io sono iscritto al Partito».
Tirò fuori il portafoglio e mostrò con fierezza la tessera. «Cosa
vuoi che canti?». « Cantaci — disse Togliatti, — qualche
vecchia canzone romana». Le cantò, e una la ricorderò sempre.
Reazionaria, indubbiamente: «Allarme! allarme! lì turchi so’
sbarcati Garibaldi è alle porte di Roma».
Togliatti ascoltava
sorridendo, sensibile più alla spontaneità delle canzoni che al
loro contenuto. Ai tempi quando il papa era padrone di Roma, degli
uomini avevano inventato questo. Degli uomini: questo a lui bastava.
Egli non ha mai condannato nessuno senza cercare di comprendere. La
folla accompagnava il cantante con le sue grida soffocate ma piene di
speranza. I clienti della trattoria avevano finito col capire. Che
strana scena: quell’uomo impassibile e sorridente circondato da un
piccolo cerchio di odio, e, più in là, da un grande semicerchio di
amore. Al nostro tavolo, ci si cominciava a preoccupare: una
provocazione dei ricchi avrebbe causato l’invasione del ristorante,
la gazzarra. Due americani scelsero proprio quel momento per
fischiare. Due fischi deboli, soffocati dalla paura. Fuori, li
udirono, vi fu un rumore di tuono. Alicata, Pajetta, Guttuso, gli
chiesero con fermezza dì lasciare il tavolo: sarebbe andata a finire
male, se fosse restato. Egli diede loro ascolto, si alzò di malumore
e, nell’automobile che ci conduceva via, non aprì quasi più
bocca. Vedevo davanti a me un uomo irritato perché era stato privato
dei diritti che gli altri uomini hanno.
Funerali di Togliatti (foto l'Unità) |
Amava la vita delle
masse
Non era né una sfida né
una ostentazione: la lotta clandestina e la guerra di Spagna gli
avevano dato sufficienti occasioni di dimostrare il suo coraggio
perché non avesse più bisogno di mostrarlo. No: ho capito poco alla
volta che egli voleva essere contemporaneamente il capo del suo
partito e un uomo in mezzo agli uomini. Ricordo quell’aneddoto su
Lenin, che andava a piedi dal barbiere e aspettava il suo turno
leggendo il giornale: era allora — e da poco — il capo dell’URSS;
si voleva la sua morte un po’ dappertutto, tanto è vero che gli
spararono addosso e che non guarì mai da quelle ferite. Questa
condotta esemplare non è stata seguita, a quanto ne sappia io, che
da due uomini: Fidel Castro e Togliatti.
Per questo motivo, sin da
principio, l’ho amato. Ho visto altri capi, in seguito; sono
passato, per raggiungerli nel loro studio, tra siepi di poliziotti e
di guardie del corpo. Parlavano bene, ma erano soli: mai, in nessuno
di loro, ho trovato un simile amore semplice e forte per le strade
affollate, per le masse. Essi parlavano a queste, dall’alto, da
lontano, e godevano nel vedere, a perdita d’occhio, quel caviale
nero, le teste degli ascoltatori.
Ma non entravano in
queste, ripugnava loro di diventare un granello di quel caviale.
Togliatti amava gli uomini fino a questo punto: anche lui parlava
loro da una tribuna; era il suo compito. Ma, appena poteva, si
mescolava alle folle, queste lo spingevano e lo sballottavano. Quanto
le solitudini delle sue montagne, egli amava la vita unanime delle
città. Non si è tagliato mai fuori delle masse. Molto più che una
tattica, un simile amore — che io posso capire perché lo condivido
— era un elemento del suo carattere. Risultato: due milioni dì
militanti iscritti, otto milioni di elettori. Votando per lui, le
masse hanno capito che votavano per se stesse. E quando gli hanno
sparato addosso nel 1948. la collera le ha buttate per le strade,
contro i poliziotti e i soldati; il governo si è sentito perduto...
Il suo partito è fatto a
sua immagine. Quando vedevo sulle mura di San Gimignano — quasi su
quelle delle chiese — dei manifesti che invitavano tutti senza
distinzione alla festa dell’Unità, quando scoprivo, nel centro di
una cittadina italiana, nell’ora della siesta, un vecchio
sonnecchiante sulla soglia di una pesante porta aperta a due battenti
su una sala vuota e leggevo, sopra la sua testa.
«Sezione del PCI»,
comprendevo la portata politica di quella che era inizialmente una
dote personale. Il Partito non custodiva se stesso: si metteva sotto
la protezione del popolo. Esso rischiava così gli attentati
dinamitardi: ce ne sono stati, ma meno che altrove. Ma non si isolava
dalla Nazione, rifiutava agli anticomunisti il diritto di chiamarlo
«separatista».
Funerali di Togliatti (foto Carnicelli) |
Senza alcun dubbio, la
dura sorte del PCI fu di formarsi — a prezzo di quali sacrifici —
nella lotta clandestina contro Mussolini e di apparire agli altri
antifascisti come un movimento di resistenza nazionale contro il
fascismo che conduceva la nazione alla rovina. Allora esso non era né
antistaliniano né staliniano: l’URSS era lontana, la situazione
dell’Italia si imponeva su tutto. Dopo la guerra, fu necessario
temporeggiare. Ma quale sollievo, col XX Congresso! E chi, se non
Togliatti, ha compreso che il Partito del popolo deve vivere in
simbiosi col popolo, che gli insegnamenti della guerriglia non devono
essere dimenticati nell’istante in cui essa finisce? La guerra
popolare non termina con la pace: essa è la forma privilegiata della
lotta di classe, e l’unico modo, per un partito comunista, di
essere intemazionale, è di spingere fino in fondo la propria unità
con la 'Nazione. Da questo punto di vista, si può dire — e
Togliatti un poco me lo ha detto — che «la via italiana del
comunismo » era in germe nella lotta contro il fascismo. Sin da
quell’epoca, il PCI si batteva da solo, non poteva né giovarsi
dell’aiuto sovietico né seguire i consigli del Comintern:
contavano soltanto le sue alleanze con gli altri antifascisti, il
rapporto fluttuante delle forze in campo.
«Non si fa ciò che si
vuole, — ha detto Togliatti, — si fa ciò che si può». Ma ciò
che si può determina ciò che si è. Il Partito poteva e doveva
liberare la nazione da Mussolini: per questo motivo, è diventato un
partito nazionale. Nazionale ma non nazionalista; Togliatti ha
spiegato bene che il policentrismo era l’unica via verso l’unità.
Accettare ordini esterni — fossero pure decisi dalla unione di
tutti i partiti comunisti — significa rischiare di tagliarsi fuori
dalla società contesa nella quale si vive, perché essi sono
difficilmente adattabili a ciascuna situazione particolare. La loro
stessa universalità li condanna. Occorrono princìpi comuni, uno
scopo universale e che ciascuno raggiunga questo scopo, partendo da
quei princìpi, come vuole. Il rimprovero che si è potuto muovere,
in certi momenti, all’URSS, il suo volontarismo, Togliatti lo
evitava assolutatamente: si fa ciò che si può. Questo non
significava che egli fosse fatalista: il campo dei possibili è,
certo, limitato, ma si può scegliere, e poi, una volta fatta la
scelta, Togliatti vi si ancorava con fermezza, volontariamente, senza
indietreggiare di un dito, né abbandonare nulla. Ma la sua
intelligenza viva e aperta, prima di intraprendere qualunque cosa,
voleva abbracciare tuffo il possibile e scegliere con calma. Dicono
che abbia mormorato, nel 1948, sul letto che si pensava dovesse
essere il suo letto di morte: «Nessuna avventura, compagni, nessuna
avventura!».
In quell’istante una
marea umana si rovesciava sull’Italia, pareva portar via tutto,
egli lo sapeva o lo indovinava; ma sapeva anche che il governo, dopo
il primo momento di panico, avrebbe reagito, avrebbe fatto ricorso
all’esercito. L’insurrezione popolare avrebbe dovuto fallire
perché non era preparata, perché sarebbe stata un atto passionale e
non una impresa. Un fallimento voleva dire il Terrore, dieci anni di
ritardo per il movimento operaio decimato. Fu lui, dal suo letto, a
fermare la tempesta di collera che gli industriali e i politici non
hanno dimenticato. Si vide la sua popolarità, si vide la sua
prudenza. Si vide soprattutto che egli non voleva mettere il paese a
ferro e a sangue. Di questa moderazione, quasi tutti — anche gli
anticomunisti — gli furono riconoscenti Egli voleva che l’Italia
fosse diversa, con un altro regime e altre strutture; non voleva —
come troppo spesso si era detto — gettare l’Italia in una
avventura nella quale forse sarebbe colata a picco. Da quel giorno,
il PCI, possente, robusto e tranquillo, diventò senza averlo voluto
di proposito, un partito nazionale. Lo accusavano, naturalmente —
come fanno dappertutto altrove — di prendere i suoi ordini da
Mosca. Ma non ci credevano, nessuno pensava sul serio che la
solidarietà profonda dei comunisti italiani col paese della
Rivoluzione si spingesse fino alla subordinazione. Vi furono momenti
duri, indubbiamente: fu necessario tacere.
Ma mi trovavo a Roma nel
novembre 1956 quando altrove gli insorti di Budapest venivano
chiamati versagliesi e fascisti. Io vivo da comunista, leggo tutti i
giorni l'Unità: non condividevo il loro punto di vista e non potevo
credere alla necessità dell’intervento russo. Ma, per me, erano
dei fratelli. Guttuso era sconvolto, ancor più di me. Lo era anche
Togliatti, non vi è alcun dubbio Mai tuttavi insultò i vinti.
Presentava l’insurrezione ungherese come una sventura nazionale e,
pur sostenendo l’intervento, invitava i vincitori a ricostruire in
modo tale che fosse impossibile il ritorno
di violenze simili.
Fu lui, infine, ad
opporsi finché poté alla condanna del Partito cinese, benché
questo lo prendesse a bersaglio e benché egli condividesse le idee
di Mosca sulla politica di Pechino. Così il suo Partito, nazionale e
libero — libero perché nazionale — faceva di tutto per
salvaguardare l’unità internazionale.
L’unità, è, io credo,
una parola chiave per capirlo. Ma quest’uomo umano e buono non
voleva che essa fosse imposta dall’esterno né al suo Partito da
un’assemblea internazionale né ai suoi militanti da una autorità
superiore e separata dalle masse. I suoi modi erano singolari e
profondamente efficaci. L’ho visto parlare con dei militanti che
non sempre erano d’accordo fra di loro. Egli diventava il loro capo
soltanto in quanto riprendeva per suo conto le loro contraddizioni,
le dissolveva nell’unità della sua unica persona, e impediva, con
ciò stesso, che i conflitti esplodessero e i gruppi rivali si
affrontassero.
Un amico mi ha raccontato
questa storia. Egli è in disaccordo con certi aspetti di
“Rinascita”, va a pranzo con Togliatti e glielo dice. Togliatti
confuta uno per uno i suoi argomenti e lo lascia senza averlo
convinto. Qualche tempo dopo, riunione dei redattori di “Rinascita”
e dei responsabili della cultura. I primi oratori sostengono il
medesimo punto di vista di Togliatti; il mio amico chiede la parola
per rispondere; Togliatti si alza e gli dice: «Se tu non hai niente
in contrario, parie prima io». E il mio amico, meravigliato, lo
sente riprendere per suo conto la maggior parte delle obiezioni che
la settimana precedente egli stesso aveva confutato. Insomma era,
adesso, Togliatti contro Togliatti. Terminò criticando il mio amico
e alcuni altri per non averlo avvertito prima.
Funerali di Togliatti (foto Carnicelli) |
In molti altri paesi,
coloro che lasciano il Partito o che ne sono cacciati sarebbero stati
colpiti a morte. Moralmente e a volte fisicamente: è un fatto che la
direzione delle masse si concilia difficilmente con il rispetto della
persona. Togliatti sapeva unire l’una all’altra: gli esclusi —
ce ne sono stati, naturalmente, ma meno che altrove — non perdono
la loro personalità il giorno in cui il Partito non vuol più
saperne di loro; vivono.
L’aneddoto che ho
raccontato mostra bene la cura che questo responsabile di un partito
di due milioni di uomini sapeva avere di ciascuno di loro: non
spezzare, non umiliare mai, era la sua regola. Per merito suo, un
comunista italiano può vantarsi di essere un uomo intero. Quanto a
me, ho sentito spesso, dalla cortesia con la quale mi interrogava, su
un paese che egli conosceva bene quanto me, che nella sua attenzione
c’era un rispetto per l’uomo, chiunque fosse, che gli esponeva
delle idee sincere e vissute. E anche, che le idee sue erano formate
ma nessuna preconcetta, che egli conservava sempre la speranza che
l’interlocutore, anche senza rendersene conto, lo avrebbe aiutato a
metterle a fuoco, se necessario a cambiarle.
Un grande capo e un
grande intellettuale
Il giorno dei suoi
funerali ho visto, accanto alla sede del suo Partito, la parola
«monolite » tracciata su un muro, indubbiamente dalla mano di un
giovane fascista. Mi avrebbe fatto sorridere se ne avessi avuto
l’animo: nessuno era meno monolitico di lui e — di conseguenza —
del suo partito Egli aveva saputo congiungere due facoltà
difficilmente compatibili, una delle quali deve appartenere al capo
responsabile e l’altra è indispensabile all’intellettuale:
incrollabile nella azione senza mai rimettere in causa i princìpi,
il metodo e lo scopo, non formulava mai un pensiero che non
contenesse il germe della propria critica.
Per questo motivo la
grande maggioranza degli scrittori ha sempre avuto buoni rapporti col
Partito. Diversamente (falla Francia dove, per tradizione, gli
intellettuali conservatori o reazionari sono una forza reale,
l’Italia annovera, a destra, molto pochi intellettuali. La
maggioranza degli intellettuali italiani non sono entrati nel
partito, ma conducono con esso la maggior parte delle sue lotte. Così
— come deve essere, ma come non è sempre — il partito degli
sfruttati è anche il partito degli intellettuali.
Anche questa, è opera
sua. Quando fondò “Rinascita”, dopo la guerra, alcuni comunisti
protestarono; bisognava ricostruire e combattere, che bisogno c’era
di una rivista teorica? Anche tra coloro che avevano più
ardentemente combattuto Mussolini, vent’anni di fascismo avevano
lasciato delle tracce: credevano al divorzio tra pensiero e azione.
Togliatti non cedette. L’uomo aveva questa contraddizione, la più
feconda: gli italiani e gli spagnoli, al tempo della guerra di
Spagna, avevano riconosciuto il suo talento di organizzatore. Ma
quest’uomo di azione era rimasto fino alla punta delle unghie un
intellettuale.
Funerali di Togliatti (foto Carnicelli) |
Leggendo i suoi discorsi,
i suoi scritti, salta agli occhi cento volte una parola: nuovo. Tutto
per lui è sempre nuovo: in ogni situazione, egli vede prima di tutto
il nuovo, l’imprevisto. Il dopoguerra vedrà sorgere l’Ordine
Nuovo dove egli lavora con Gramsci, il fascismo propone compiti
nuovi, è esso stesso una reazione della borghesia senza precedenti;
nuova è la seconda guerra mondiale, e nuovi i problemi del secondo
dopoguerra, e, infine, quelli che nascono dal dominio dei monopoli e
da quello che, davvero a torto, viene chiamato «il miracolo
italiano». Ogni volta, bisogna adattarsi, capire. Adoperare fino in
fondo il metodo marxista: sì, è l'unico vero. Pretendere che Marx
abbia previsto tutto, che niente sia cambiato dopo il Manifesto
comunista e cavarsela con qualche citazione, questo no. Egli ha
detto una volta che bisogna spingere l’analisi più sul
particolare, non trascurare nulla; non si spiegherà mai nulla se ci
si limita a vedere in qualsivoglia congiuntura la famosa manovra
difensiva del capitalismo minacciato.
Ci sono le tradizioni, il
passato, le masse, i rapporti interni delle forze di sinistra, le
false manovre, cento altri fattori, nessuno dei quali va trascurato:
anche il capitalismo fa ciò che può, non ciò che vuole; in ogni
momento, se lo si vuol comprendere, occorre determinare il campo
delle sue possibilità. E, è ancora lui a dirlo, le forme che
nascono dalla storia, cioè dalle nostra lotte, sono troppo complesse
perché noi possiamo prevederle.
Funerali di Togliatti (foto Carnicelli) |
Per questo motivo, per
merito di questo spirito di analisi e di sintesi, che viene da
Gramsci e da Togliatti, il PCI non è unicamente il partito degli
operai, e neppure quello degli intellettuali: è il più intelligente
dei partiti. Dopo un momento di sbandamento, è stato il primo ad
adattare la sua lotta a quella forma «nuova e complessa» sorta
dalla politica dei monopoli e che viene chiamata, a torto o a
ragione, «neocapitalismo». Grazie alla libertà del suo capo, esso
è diventato per i suoi aderenti non soltanto la promessa di una
futura liberazione, ma la loro libertà presente di pensare e di
agire e di capire il mondo e di spezzare le proprie alienazioni. Per
questi stessi motivi e non soltanto per i motivi tattici che sappiamo
— difendere le libertà borghesi perché esse fra le mani delle
masse diventano eccellenti strumenti di lotta — il PCI è diventato
in Italia contro gli stessi borghesi il migliore difensore della
democrazia.
Per tutti questi motivi,
io lo amavo: ritrovavo lui in tutti i miei amici comunisti, anche
quando non lo vedevo. C’era uno stile Togliatti che, spero, gli
sopravviverà. Eppure lui, nella sua tranquilla semplicità, col suo
sorriso, la sua ironia — che, mi è stato detto, poteva essere
corrosiva, ma che io trovavo affascinante, — con la sua cultura e,
sotto la sua calma, la sua forza a fior di pelle, come se un gigante
si fosse insinuato per magia e concentrato nel corpo di un professore
di liceo, lui era inimitabile. Anche per questo colui che rimpiango
non è soltanto l’uomo che ha forgiato con le sue mani un partito
di uomini duri e liberi: questo partito gli saprà sopravvivere e
seguire la sua strada. È prima di tutto il vecchio calmo e possente
che ho visto per l’ultima volta nel maggio scorso. Un uomo che
amavo. Il mio amico Togliatti.
“l'Unità”, domenica
30 agosto 1964
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