Ava Gardner sul set di "Pandora" |
Il caso di Ava Gardner
nel cinema di Hollywood è stato quantomeno singolare. La sua
perfetta bellezza ne faceva un soggetto paradossalmente
incorreggibile, intrattabile. Si pensi un momento alle squadre di
estetisti degli studios pronti ad affilare i ferri del
mestiere per dare o togliere a un volto, a un corpo ciò che madre
natura ha creato in eccesso o in difetto. Ebbene, torse non avevano
ancora avuto per le mani qualcuno che li lasciasse praticamente
disoccupati.
Certo Ava non ha trovato
magici registi che sapessero invaghirsi della sua unicità (uno
Stiller per la Garbo, uno Sternberg per Marlene). In questo senso si
può dire che non sia stata né una diva con la maiuscola né
un'attrice dotata di particolare carisma. Sapeva anche recitare e
tuttavia la sua recitazione in ruoli normalmente hollywoodiani non
sembrava mai corrispondere in pieno alla sua presenza fisica sullo
schermo. Recitava sì, almeno nei casi più felici, eppure si
avvertiva sempre qualcosa di stridente, come se lei optasse per la
propria vita e non per la sua finzione cinematografica. E torse ha
davvero preferito consumarsi al ritmo della realtà, contravvenendo
alle regole feroci solitamente imposte a chi - una Rila Hayworth, una
Marilyn Monroe - si abbandona a diventare mito.
Bellissima lo era dunque
di suo. La ricordiamo, come fosse ieri, nel film che la lanciò nel
1946, lo stesso anno di Gilda. Si chiamava I gangsters
(in realtà I killers), era diretto da Robert Siodmak e tratto
da un racconto di Hemingway rispettato solo fino a un certo punto,
anzi soltanto nel fulmineo inizio. Era l'esordio per Burt Lancaster
ma già il ventiduesimo ruolo per Ava. che aveva avuto tutto il tempo
di “studiare da diva” e anche di sposarsi una prima volta (con
Mickey Rooney). Eccellente film “nero” che presupponeva
un'ammaliatrice, una tentatrice, una di quelle femmine diaboliche
tipicamente d'epoca. Corpo sinuoso, lunghi capelli corvini, viso
d'angelo, Ava non faceva nessuna fatica a irretire e portare alla
rovina un giovanotto baldo e sorridente, cosi biondo da esser
chiamalo “lo Svedese”, come il Lancaster di allora.
Il bacio di Venere |
Statuaria, marmorea, gli
aggettivi che la riguardavano erano sempre da scultura greca. La
definirono il più bell'animale del mondo, e comunque un animale di
sangue freddo. Nata a Smithfield, North Carolina, nel 1922, era
venuta a New York per fare l'impiegata e in men che non si dica s’era
vista offrire un contratto quinquennale dalla Metro-Goldwyn-Mayer.
Sensazionale per la forma, senza che occorresse la sostanza. Chiunque
l'avesse incontrala per la strada, al bar, in un grande magazzino,
avrebbe giurato che il suo posto era alla mecca del cinema,
nell'Olimpo della mitologia moderna. Hollywood, infatti, non
si lasciò sfuggire l'occasione di mitizzarla, o almeno di cercare di
farlo.
Due operazioni del genere si presentarono a breve distanza. Nel 1948 Il bacio di Venere: lei è appunto la statua della
dea. rianimata dall'amore. Ma siamo nel banale. Nel '51, con Pandora,
il tentativo è un pochino più sottile. Albert
Lewin era uno strano
tipo di regista-produttore-sceneggiatore, lo stesso del Ritratto
di Dorian Gray più sofisticato e, in fondo, più attendibile
apparso sullo schermo (anche perché nessuno ha mai visto quello di
Mejerchol'd girato prima della rivoluzione d'Oltobre). Alle prese con
la leggenda di Pandora e dell’olandese volante (James Mason), Lewin
ha l'alzata d'ingegno di ambientarla in pieno sole mediterraneo: così
Ava diventa una donna di sogno. ma anche d'amore e di morte. Gli
uomini muoiono per lei, lei muore per un uomo. Una donna di carne e
di sangue. Chissà se da qui è nata la sua passione per la Spagna,
le corride e i toreri, che sarà meglio documentata nella Contessa
scalza. Come mito, dunque, siamo già sulla terra.
Intanto, nella vita
reale, il tempestoso matrimonio con Frank Sinatra, che per lei ha
lascialo moglie e famiglia, sembra influire sulla carriera di lui,
almeno fino a quando non ottiene la parte in Da qui all'etenità
(1953). Ma non sembra né scalfire né intaccare quella di lei. ormai
solidamente attestata nel suo statuto di star. Le nevi del
Kilimangiaro è piuttosto brutto. Mogambo è di poco
migliore perché diretto da John Ford: entrambi sono ambientati in
Africa (con Sinatra, Ava ha imparato a girare il mondo). L'attrice è
costretta a confrontarsi con Jean Harlow che nello Schiaffo
aveva sostenuto lo stesso ruolo vent'anni prima e sempre con Clark
Gable. Ora Gable è invecchiato e quindi più malleabile: non occorre
più l'esplosiva forza di natura ch'era la blonda-platino Harlow.
Anche la bruna Gardner se la cava: aggressiva e sentimentale come
John Ford la desidera.
Nel 1954 La contessa
scalza di Manklewicz è l'autoritratto della diva come poteva
darlo Hollywood senza avere a disposizione né una vecchia gloria
come Gloria Swanson, né un regista grintoso come Billy Wilder (per
non parlare di Stroheim). Il melodramma non era privo di risvolti
ridicoli grazie al personaggio di Rossano Brazzi: un latin lover
impotente, e proprio con lei. Ma rimane il film prediletto dai suoi
fans. Affiancata da un Humphrey Bogart in veste di cineasta
pigmalione e testimone. essa vi trasferisce infatti la propria
biografia: le povere origini, la scalata al successo, i capricci e
gli errori, le esigenze di donna e il cuore di bambina, la sua
superba fisicità e quella infantile fossetta sul mento.
Questi i punti più
rilevanti nella carriera della star. Che nel frattempo è anche una
protagonista della vita mondana. del jet set internazionale, una snob
odiosamata. una bevitrice sempre più cupa. Toccò il fondo girando
in Spagna La Maja desnuda (1959); ma prima e dopo seppe fare
di meglio, e sono i momenti che preferiamo ricordare. Fu persuasiva
nel panni di una meticcia angloindiana in un kolossal di George
Cukor, Sangue misto (1956). salvato dai suoi primi piani di
estasi amorosa. E fu all'altezza del piuttosto impervio ruolo anche
nel film drammatico di Huston La notte dell'iguana (1964).
Tra l'altro si deve
proprio a Huston l'omaggio personale più sentito che le sia stato
dedicato in cinema: il finale dell'Uomo dei sette capestri,
nel 1972. L'attrice continuerà, magari in piccole parti, a
signoreggiare l'inquadratura per un altro decennio: incarnò perfino
la Lussuria nella prima coproduzione sovietico-americana, Il
giardino della felicità, diretta ancora da Cukor. Ma nel curioso
western hustoniano c'era qualcosa di più. La sua favolosa beltà era
indubbiamente un po' sfiorita rispetto ai tempi eroici: cosicché
alla vena autobiografica si aggiungeva ora un pizzico di intelligente
ridimensionamento autoironico. E quel vecchiaccio di John Huston
coronava l'opera, facendo si che un paladino da forca - Paul Newman,
sex-symbol maschile come Ava Gardner lo era stato in campo femminile
- disegnasse della donna, con dolcezza e con rispetto, un ritratto da
cavalier cortese.
“l'Unità”, 26
gennaio 1990
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