18.2.19

Questioni di parole. La lingua congelata dei vocabolari italiani (Mariarosa Bricchi)



Definiti da Samuel Johnson «mestieranti inoffensivi», in Italia i lessicografi hanno animato dibattiti lunghi, accesi e importanti. Nel suo «L'ordine delle parole» Claudio Marazzini li ripercorre, mettendo in luce come da noi la lingua sia considerata, più che un sistema di pensiero in movimento, un patrimonio lessicale,
In tema di vocabolari, l'Italia vanta alcuni indiscussi primati. Primato cronologico: si sa che la Crusca del 1612 fu il primo vocabolario di una lingua moderna realizzato secondo criteri scientifici. Primato nella densità, e varietà, di produzione. Vocabolari dei sinonimi, settoriali, generali, dialettali, metodici, nomenclatori, puristi, neologisti, tecnico-specialistici, etimologici, enciclopedici, storici, monolingui o bilingui, dell'uso o di voci fuori dall'uso, complementari o alternativi alla Crusca, realizzati da scrittori per uso privato o destinati alle scuole, in cd rom oppure online: il secolare affollamento lessicografico ha rasentato in alcuni periodi - segnatamente l'Ottocento (altresì definito «il secolo dei vocabolari») - l'horror vacui.
Oggetti controversi
E infine, primato non certo trascurabile, quello nella litigiosità: in nessun paese i dibattiti intorno ai vocabolari furono lunghi, accesi e culturalmente importanti come in Italia, da inizio Seicento fino alle soglie del Novecento. Il dottor Johnson, nel suo grande Dizionario inglese del 1755, alla voce «lessicografo», dava la definizione «un mestierante inoffensivo» (a harmless drudge): nulla di meno imbelle, per contro, dei lessicografi di casa nostra, impegnati ab originis a distinguere tra uso e buon uso della lingua, tra ben parlanti e malparlanti, tra norma e trasgressione.
Uno dei cuori pulsanti delle dispute linguistiche fu proprio, fin dalla sua prima pubblicazione, il vocabolario della Crusca, ora avversato come baluardo del conservatorismo, ora esaltato in quanto depositario e guardiano della purezza della lingua. Ma l'endemica questione ebbe natura pervasiva, e interminabili furono i dilemmi a proposito delle voci da accogliere o escludere, dalla Crusca come dagli altri dizionari.
Tra gli oggetti più controversi erano le parole agli estremi del ciclo vitale, cioè arcaismi e neologismi, ma anche forme specifiche di innovazione linguistica come i tecnicismi e i prestiti dalle lingue straniere - sintomo, gli uni e gli altri, di uno sviluppo dell'italiano che veniva classificato, di volta in volta, come fisiologia o come patologia. Più in generale, si dibatté ininterrottamente sull'opportunità di registrare, accanto alla lingua letteraria, quella del presente e, a partire dall'Ottocento, sulla distinzione tra vocabolari storici, rivolti al passato, e vocabolari dell'uso, orientati alle necessità quotidiane della comunicazione. Altri interrogativi coinvolsero i dizionari dialettali (i repertori bilingui andavano intesi per tramandare un dialetto e il suo patrimonio letterario, o per far da ponte tra quello e il toscano?); e i dizionari dei sinonimi (dovevano i sinonimi essere tesaurizzati come ornamento della lingua o analizzati e distinti per guidare la precisione del dettato?).
Questa storia secolare di parole e di dispute la racconta ora Claudio Marazzini nel suo L'ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani (il Mulino, 2009). Sembra strano che, in un paese tanto straripante di vocabolari, sia questo il primo volume sull'argomento pensato non come un rapido compendio ma come trattazione di largo respiro. Tant'è. Esistono naturalmente studi importanti dedicati a singoli episodi o stagioni di storia della lessicografia, e anche ottimi panorami complessivi, mai però così ampi, e disponibili per lo più in forma di capitoli entro storie linguistiche generali. Il libro di Marazzini - un vero manuale di quasi cinquecento pagine - si apre con i repertori e i glossari medievali antenati dei moderni vocabolari, e si chiude con un (breve) paragrafo dedicato agli strumenti lessicografici su cd rom e online. La struttura segue una linea cronologica, per scansioni grosso modo secolari, spezzata da capitoli centrati su temi rilevanti (la nascita dei dizionari etimologici; l'avventura, dall'Ottocento a oggi, dei dizionari dei sinonimi).

Un ruolo simbolico
L'ordine delle parole dà conto, naturalmente, non solo delle caratteristiche dei vocabolari, e del loro divenire storico, ma delle questioni e delle tensioni che ne hanno ritmato la vicenda secolare. Alla base dei tanti rovelli finalmente ripercorsi da Marazzini in racconto unitario, sta una realtà che, nel nostro paese, è parsa a lungo difficile da accogliere: la lingua non è una, ma molte. Cambia nel tempo, in un avvicendarsi di parole che nascono, muoiono e rinascono; cambia nello spazio, coi dialetti e le varianti regionali; cambia in relazione agli usi (la lingua letteraria è diversa da quella della comunicazione quotidiana; il linguaggio della tecnica non ha nulla a che fare con quello della burocrazia; e via di seguito).
Italiani scritti è il nome di un libro di qualche anno fa di Luca Serianni che, appunto fin dal titolo, assumeva come oggetto di analisi le varietà della lingua, e la loro diversa funzione comunicativa. Molta della storia vocabolaristica italiana si è invece confrontata con la mutevolezza cercando, piuttosto che di descriverla, di frenarla. E i lessicografi hanno spesso speso i loro sforzi non per registrare un sistema autonomo e complesso, ma per legiferare, accordando permessi o divieti.
L'approccio interventista ha contato, nei secoli, molteplici adepti. A partire dai cruscanti che, recuperando attraverso il filtro di Leonardo Salviati l'opzione retrospettiva di Bembo, eleggevano a modello per il presente, con uno scarto di tre secoli, la lingua scritta del Trecento, evidenziandone la continuità col toscano contemporaneo. Quindi i puristi di ogni stagione, accesi partigiani di una bellezza ideale collocata in un punto-culmine del passato, per definizione imitabile, se pur ineguagliabile. E infine lo stesso Manzoni, che tentò di affermare il toscano come obiettivo da conquistare attraverso un percorso sul quale proprio il vocabolario vigilava come consigliere e giudice.
L'infinita questione della lingua si attorciglia insomma, di preferenza, attorno al vocabolario, deposito e modello, sedimento e norma, strumento di descrizione ma anche di acquisizione di quell'italiano che incessantemente, per secoli, i lessicografi schedano, dissertando contemporaneamente sulla sua esistenza e consistenza. Alla base, un postulato, in fondo mai discusso (e qui sta il problema): che il vocabolario crea la lingua ed è la lingua; che vocabolario e lingua coincidono. Donde la vivacità drammatica di un dibattito che investe appunto il vocabolario del ruolo anche simbolico di rappresentare la lingua tout court, e addirittura, per metonimia, lo spirito della nazione («non è la lingua carissimo vincolo nazionale in questa Italia così divisa?», stabiliva, pratico e magniloquente, un lessicografo per nulla imbelle come Pietro Fanfani, in pieno Risorgimento).
Vocabolario come condensato della lingua, dunque? Ciò che appare, al contrario, evidente, anche grazie al limpido grandangolo di Marazzini, è che i vocabolari sono stati, nel corso dei secoli, gravati di troppe responsabilità. Perché il vocabolario fotografa il presente della lingua, per definizione transitorio, piuttosto che stabilirne il futuro. E soprattutto perché una lingua è certamente un sistema lessicale, che ogni parlante eredita e che i dizionari classificano, organizzano e tramandano. Ma è anche un meccanismo più complesso: è un patrimonio di schemi per combinare le parole in frasi, operazione che prevede norme e obblighi (descritti da quella parte della grammatica che si definisce sintassi), insieme ad ampi margini di libertà individuale. Insomma, il processo di selezione dei termini si affianca, per chiunque parli o scriva, alla creazione dell'architettura del periodo e quindi del testo.

Il cancro della retorica
Ne discende che i vocabolari sono soltanto uno degli strumenti utili per parlare e per pensare. Pur fondamentali, non possono esaurire il rapporto con la lingua, né, da soli, guidarne l'uso, proprio perché, per loro natura, trascurano i processi di aggregazione delle parole in frasi. E non è forse un caso che, mentre l'italiano dispone oggi di eccellenti grammatiche, la produzione di grammatiche sia stata meno ricca di quella di vocabolari, e abbia per secoli prestato alla sintassi attenzione inferiore che alla fonologia e alla morfologia. Indizio, certo, di un modo di guardare alla lingua come patrimonio lessicale più che come sistema di pensiero. O addirittura un altro segnale dell'antichissimo cancro della retorica?
La parola conclusiva a uno che, i vocabolari, li usava, li amava e, proprio per questo, rifiutava di subirne l'arbitrio: «Chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il Vocabolario d'una lingua, si debbano intendere annullate senz'altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa di questo mondo». Così scriveva, nel 1824, Giacomo Leopardi.

“il manifesto” 19 gennaio 2010

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