Definiti da Samuel
Johnson «mestieranti inoffensivi», in Italia i lessicografi hanno
animato dibattiti lunghi, accesi e importanti. Nel suo «L'ordine
delle parole» Claudio Marazzini li ripercorre, mettendo in luce come
da noi la lingua sia considerata, più che un sistema di pensiero in
movimento, un patrimonio lessicale,
In tema di vocabolari,
l'Italia vanta alcuni indiscussi primati. Primato cronologico: si sa
che la Crusca del 1612 fu il primo vocabolario di una lingua moderna
realizzato secondo criteri scientifici. Primato nella densità, e
varietà, di produzione. Vocabolari dei sinonimi, settoriali,
generali, dialettali, metodici, nomenclatori, puristi, neologisti,
tecnico-specialistici, etimologici, enciclopedici, storici,
monolingui o bilingui, dell'uso o di voci fuori dall'uso,
complementari o alternativi alla Crusca, realizzati da scrittori per
uso privato o destinati alle scuole, in cd rom oppure online: il
secolare affollamento lessicografico ha rasentato in alcuni periodi -
segnatamente l'Ottocento (altresì definito «il secolo dei
vocabolari») - l'horror vacui.
Oggetti controversi
E infine, primato non
certo trascurabile, quello nella litigiosità: in nessun paese i
dibattiti intorno ai vocabolari furono lunghi, accesi e culturalmente
importanti come in Italia, da inizio Seicento fino alle soglie del
Novecento. Il dottor Johnson, nel suo grande Dizionario inglese
del 1755, alla voce «lessicografo», dava la definizione «un
mestierante inoffensivo» (a harmless drudge): nulla di meno
imbelle, per contro, dei lessicografi di casa nostra, impegnati ab
originis a distinguere tra uso e buon uso della lingua, tra ben
parlanti e malparlanti, tra norma e trasgressione.
Uno dei cuori pulsanti
delle dispute linguistiche fu proprio, fin dalla sua prima
pubblicazione, il vocabolario della Crusca, ora avversato come
baluardo del conservatorismo, ora esaltato in quanto depositario e
guardiano della purezza della lingua. Ma l'endemica questione ebbe
natura pervasiva, e interminabili furono i dilemmi a proposito delle
voci da accogliere o escludere, dalla Crusca come dagli altri
dizionari.
Tra gli oggetti più
controversi erano le parole agli estremi del ciclo vitale, cioè
arcaismi e neologismi, ma anche forme specifiche di innovazione
linguistica come i tecnicismi e i prestiti dalle lingue straniere -
sintomo, gli uni e gli altri, di uno sviluppo dell'italiano che
veniva classificato, di volta in volta, come fisiologia o come
patologia. Più in generale, si dibatté ininterrottamente
sull'opportunità di registrare, accanto alla lingua letteraria,
quella del presente e, a partire dall'Ottocento, sulla distinzione
tra vocabolari storici, rivolti al passato, e vocabolari dell'uso,
orientati alle necessità quotidiane della comunicazione. Altri
interrogativi coinvolsero i dizionari dialettali (i repertori
bilingui andavano intesi per tramandare un dialetto e il suo
patrimonio letterario, o per far da ponte tra quello e il toscano?);
e i dizionari dei sinonimi (dovevano i sinonimi essere tesaurizzati
come ornamento della lingua o analizzati e distinti per guidare la
precisione del dettato?).
Questa storia secolare di
parole e di dispute la racconta ora Claudio Marazzini nel suo
L'ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani (il
Mulino, 2009). Sembra strano che, in un paese tanto straripante di
vocabolari, sia questo il primo volume sull'argomento pensato non
come un rapido compendio ma come trattazione di largo respiro.
Tant'è. Esistono naturalmente studi importanti dedicati a singoli
episodi o stagioni di storia della lessicografia, e anche ottimi
panorami complessivi, mai però così ampi, e disponibili per lo più
in forma di capitoli entro storie linguistiche generali. Il libro di
Marazzini - un vero manuale di quasi cinquecento pagine - si apre con
i repertori e i glossari medievali antenati dei moderni vocabolari, e
si chiude con un (breve) paragrafo dedicato agli strumenti
lessicografici su cd rom e online. La struttura segue una linea
cronologica, per scansioni grosso modo secolari, spezzata da capitoli
centrati su temi rilevanti (la nascita dei dizionari etimologici;
l'avventura, dall'Ottocento a oggi, dei dizionari dei sinonimi).
Un ruolo simbolico
L'ordine delle parole
dà conto, naturalmente, non solo delle caratteristiche dei
vocabolari, e del loro divenire storico, ma delle questioni e delle
tensioni che ne hanno ritmato la vicenda secolare. Alla base dei
tanti rovelli finalmente ripercorsi da Marazzini in racconto
unitario, sta una realtà che, nel nostro paese, è parsa a lungo
difficile da accogliere: la lingua non è una, ma molte. Cambia nel
tempo, in un avvicendarsi di parole che nascono, muoiono e rinascono;
cambia nello spazio, coi dialetti e le varianti regionali; cambia in
relazione agli usi (la lingua letteraria è diversa da quella della
comunicazione quotidiana; il linguaggio della tecnica non ha nulla a
che fare con quello della burocrazia; e via di seguito).
Italiani scritti è
il nome di un libro di qualche anno fa di Luca Serianni che, appunto
fin dal titolo, assumeva come oggetto di analisi le varietà della
lingua, e la loro diversa funzione comunicativa. Molta della storia
vocabolaristica italiana si è invece confrontata con la mutevolezza
cercando, piuttosto che di descriverla, di frenarla. E i lessicografi
hanno spesso speso i loro sforzi non per registrare un sistema
autonomo e complesso, ma per legiferare, accordando permessi o
divieti.
L'approccio interventista
ha contato, nei secoli, molteplici adepti. A partire dai cruscanti
che, recuperando attraverso il filtro di Leonardo Salviati l'opzione
retrospettiva di Bembo, eleggevano a modello per il presente, con uno
scarto di tre secoli, la lingua scritta del Trecento, evidenziandone
la continuità col toscano contemporaneo. Quindi i puristi di ogni
stagione, accesi partigiani di una bellezza ideale collocata in un
punto-culmine del passato, per definizione imitabile, se pur
ineguagliabile. E infine lo stesso Manzoni, che tentò di affermare
il toscano come obiettivo da conquistare attraverso un percorso sul
quale proprio il vocabolario vigilava come consigliere e giudice.
L'infinita questione
della lingua si attorciglia insomma, di preferenza, attorno al
vocabolario, deposito e modello, sedimento e norma, strumento di
descrizione ma anche di acquisizione di quell'italiano che
incessantemente, per secoli, i lessicografi schedano, dissertando
contemporaneamente sulla sua esistenza e consistenza. Alla base, un
postulato, in fondo mai discusso (e qui sta il problema): che il
vocabolario crea la lingua ed è la lingua; che vocabolario e lingua
coincidono. Donde la vivacità drammatica di un dibattito che investe
appunto il vocabolario del ruolo anche simbolico di rappresentare la
lingua tout court, e addirittura, per metonimia, lo spirito della
nazione («non è la lingua carissimo vincolo nazionale in questa
Italia così divisa?», stabiliva, pratico e magniloquente, un
lessicografo per nulla imbelle come Pietro Fanfani, in pieno
Risorgimento).
Vocabolario come
condensato della lingua, dunque? Ciò che appare, al contrario,
evidente, anche grazie al limpido grandangolo di Marazzini, è che i
vocabolari sono stati, nel corso dei secoli, gravati di troppe
responsabilità. Perché il vocabolario fotografa il presente della
lingua, per definizione transitorio, piuttosto che stabilirne il
futuro. E soprattutto perché una lingua è certamente un sistema
lessicale, che ogni parlante eredita e che i dizionari classificano,
organizzano e tramandano. Ma è anche un meccanismo più complesso: è
un patrimonio di schemi per combinare le parole in frasi, operazione
che prevede norme e obblighi (descritti da quella parte della
grammatica che si definisce sintassi), insieme ad ampi margini di
libertà individuale. Insomma, il processo di selezione dei termini
si affianca, per chiunque parli o scriva, alla creazione
dell'architettura del periodo e quindi del testo.
Il cancro della
retorica
Ne discende che i
vocabolari sono soltanto uno degli strumenti utili per parlare e per
pensare. Pur fondamentali, non possono esaurire il rapporto con la
lingua, né, da soli, guidarne l'uso, proprio perché, per loro
natura, trascurano i processi di aggregazione delle parole in frasi.
E non è forse un caso che, mentre l'italiano dispone oggi di
eccellenti grammatiche, la produzione di grammatiche sia stata meno
ricca di quella di vocabolari, e abbia per secoli prestato alla
sintassi attenzione inferiore che alla fonologia e alla morfologia.
Indizio, certo, di un modo di guardare alla lingua come patrimonio
lessicale più che come sistema di pensiero. O addirittura un altro
segnale dell'antichissimo cancro della retorica?
La parola conclusiva a
uno che, i vocabolari, li usava, li amava e, proprio per questo,
rifiutava di subirne l'arbitrio: «Chiunque stima che nel punto
medesimo che si pubblica il Vocabolario d'una lingua, si debbano
intendere annullate senz'altro tutte le facoltà che tutti gli
scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che
quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi
a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che
diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa di questo
mondo». Così scriveva, nel 1824, Giacomo Leopardi.
“il manifesto” 19
gennaio 2010
Nessun commento:
Posta un commento