"Voglio vedere le cose..."
Il racconto di una leggenda
Enrico Filippini |
Un articolo secondo me assai bello,
di un intellettuale colto, moderno, onesto e geniale pochissimo ricordato, quasi sepolto dall'oblio: il racconto di una mostra diventa qui racconto di un'opera grande e complessa, di una personalità
eccezionale, di una vera e propria leggenda.
Un esempio di come si dovrebbe scrivere d'arte, di come si dovrebbero fare giornalismo e divulgazione. (S.L.L.)
Un esempio di come si dovrebbe scrivere d'arte, di come si dovrebbero fare giornalismo e divulgazione. (S.L.L.)
Nel 1978, Carlo Scarpa,
che aveva settantadue anni, essendo nato qui, in corte dell'Aseo, nel
1906, mentre camminava all'indietro come aveva l'abitudine di fare
per focalizzare meglio un oggetto o una proporzione che gli stavano
davanti, cadde da una piattaforma sopraelevata a Sendai, in Giappone,
e si ammazzò. L'emozione nel mondo dell'architettura e dell'arte in
generale fu enorme, non soltanto perché era morto un uomo, ma anche
perché Scarpa era già una sorta di leggenda.
Questa leggenda era fatta di molte cose: della genialità che gli veniva attribuita dai suoi ammiratori e delle nefandezze che gli rinfacciavano i suoi invidiosi detrattori. Era fatta soprattutto di un numero infinito di aneddoti, che in genere alludevano alla sua stravaganza e alla sua insistita venezianità. Questi aneddoti non verranno qui raccontati perché sono stranoti, stucchevoli e noiosi. Ma di due vale la pena di far menzione, perché alludono realmente alla sua personalità.
Questa leggenda era fatta di molte cose: della genialità che gli veniva attribuita dai suoi ammiratori e delle nefandezze che gli rinfacciavano i suoi invidiosi detrattori. Era fatta soprattutto di un numero infinito di aneddoti, che in genere alludevano alla sua stravaganza e alla sua insistita venezianità. Questi aneddoti non verranno qui raccontati perché sono stranoti, stucchevoli e noiosi. Ma di due vale la pena di far menzione, perché alludono realmente alla sua personalità.
Il primo me l'ha
raccontato Vittorio Gregotti. È il 1958, la direzione dell' Olivetti
è innervosita perché i lavori per il suo negozio sotto le
Procuratie vecchie, il suo "biglietto da visita" in Piazza
San Marco, si trascinano da tre anni e non accennano a finire. Il
giovane Gregotti passa di lì, vede Scarpa, gli domanda: "Come
va?" "Cosa ci vuoi fare", risponde il maestro
sconsolato, "quando si è costretti a lavorare così in
fretta...".
Il secondo lo racconta
Bruno Zevi: si sta allestendo una mostra di un pittore
cinquecentesco. Mentre si avvicina l'ora dell'inaugurazione
ufficiale, Scarpa guarda a lungo i quadri e lentissimamente,
nell'impazienza di tutti, ne decide la collocazione. Arriva l'ora
delle "autorità" e due quadri sono ancora per terra. "E
quelli?" gli domandano. Risposta: "Non so dove metterli, li
lascio lì". Più tardi si scopre che sono dei falsi.
La lentezza, la quasi
immobilità come infinita pazienza ideativa e costruttiva, e come
senso infallibile dell'autenticità.
Ora, a distanza di sette
anni, il comune di Venezia molto opportunamente gli dedica una mostra
che si è inaugurata venerdì scorso nel grande padiglione della
Chiesa della Carità dell' Accademia. Di questa mostra, che invito
tutti a visitare, va lodato tutto: primo, il magnifico lavoro di
ricerca e di ordinamento compiuto da Francesco Dal Co, ex allievo e
storico dell' architettura, e da Giuseppe Mazzariol, amico di sempre
e acuto interprete della misteriosa opera scarpiana; lavoro che con
l'aiuto del figlio Tobia, notissimo designer, ha permesso di censire
i 238 lavori che compongono l'Opera completa, infine raccolta
in un ottimo volume edito dall' Electa. Secondo, l'allestimento,
curato dagli architetti Mario Botta, ticinese, e Boris Podrecca,
triestino-viennese. Chi, come me, ha avuto il privilegio di entrare
alla mostra dalla porta di servizio, e quindi di salirvi per la
bellissima scala del Palladio, rimpiange un po' che essa non sia
stata inclusa nell'itinerario normale. Perché questa scala, fatta di
grandi scalini monolitici fissati nel muro, ricorda, benché a
chiocciola, quella che Scarpa disegnò nel 1954 per la Galleria
nazionale nel Palazzo Abatellis di Palermo. Certo, non era il
Palladio che ricordava Scarpa, era Scarpa che si ricordava del
Palladio. Ma appunto: è un'indicazione.
Nel lavoro di questo
maestro contemporaneo c'è una persistente rammemorazione o, come
dice Dal Co, un'intensa "memoria involontaria" della
tradizione. Poi, di sopra, la grande sala dell'Accademia è stata
svuotata dei mobili e pannelli che l'ingombravano. Poche pitture
rinascimentali sono appese alle pareti. Dalla capriata scendono
cavetti d'acciaio che tagliano e sfrangono la luce e a cui sono
appesi orizzontalmente dei doppi telaietti di metallo in cui sono
fissate, a contenere i disegni, delle lastre di plastica bombata.
Finalmente una maniera di esporre che consente di vedere i disegni
nonostante i riflessi e le instabilità della luce. Inoltre, se
intenzionalmente o inavvertitamente si sfiorano i telai, i disegni si
mettono in movimento, e sembrano galleggiare sull'acqua: su
quell'elemento nativo che fluisce silenzioso lungo tutto il lavoro
dell' architetto...
A sinistra dell' entrata,
in un gazebo, ecco i famosi "vetri" che Scarpa inventò tra
il 1927 e il ' 30 per i Maestri vetrai
Cappellin di Murano e dal 1933
al '47 per Venini. Sono cristalli molati, vasi opalizzati e
"tessuti", coppe "murrine" di incredibile
bellezza, oggetti-sintesi di varie tradizioni e innovazioni
cromatiche e decorative, nonchè oggetti-testimonianza di una
profonda attenzione artigianale. I vetri sono centrali per intendere
le forme di Scarpa. Eppure erano nati per una ragione contingente:
Scarpa non era un architetto laureato, cosa che, in anni di molto
successivi, gli valse ben tre denunce per esercizio abusivo della
professione, e che prima, in anni di fascismo e di monumentalità,
gli precluse l'accesso alla progettazione e lo costrinse
nell'isolamento. Tuttavia, l'articolazione dello spazio e
l'intervento sullo spazio già articolato erano nella sua vocazione e
nel suo destino, come dimostrano già i primi progetti: non so, gli
arredi per la Casa Asta di Venezia, il progetto di concorso per il
ponte dell'Accademia (1932), il progetto per il fabbricato
viaggiatori dell'aeroporto Nicelli al Lido (1934), il progetto di
arredamento per uno yacht (1935), o il restauro e la risistemazione
di Ca' Foscari del 1935-37...
Due "murrine" di Scarpa |
I disegni sono qui e,
come quelli successivi, sono straordinariamente emozionanti, anche se
non è facile dire perché. Sono disegni in cui si leggono gli
influssi dei maestri: Mies van der Rohe, Alvar Aalto, più tardi
Frank Lloyd Wright, nonché dei pittori Lèger, Braque, Sironi,
soprattutto Klee, nonché dei poeti che Scarpa prediligeva e che
erano Giacomo Noventa e Baudelaire. Ma sono soprattutto disegni molto
diversi dai normali disegni di architettura, che tendono
all'ufficializzazione del progetto. Destinati "ai muratori",
fitti di annotazioni scritte che spesso indicano insoddisfazioni e
ripensamenti, sporchi per l'uso sul cantiere, colorati con matite
opaline e coralline, vivono di una vita incerta e come aurorale:
cercano a tentoni una forma, testimoniano della genesi di una forma,
introducono nello spazio e nel tempo una forma che è una sorta di
enigmatica intermittenza, un' interruzione nel flusso delle opache
abitudini visive.
Interno del negozio Olivetti |
La scala di Palazzo Abatellis a Palermo |
Ai visitatori di questa
mostra consiglio una visita almeno a Verona e a Treviso. A Verona,
guardando la statua di Cangrande della Scala, sospesa da Scarpa, come
dice Mafredo Tafuri, "su un abisso", capiranno cosa vuol
dire mostrare un'opera d'arte; a Treviso capiranno cosa vuol dire per
un architetto intervenire sul paesaggio e insieme affrontare il tema
della morte. Nel suo saggio per il catalogo, Dal Co ha ottimamente
sintetizzato il modo e il senso della lunga opera (quasi tutta non
realizzata o distrutta e quasi clandestina) di Scarpa: il suo senso
dei materiali, la sua cura degli elementi "tettonici",
costruttivi, il significato strutturale del suo ornamento (le famose
cornici "a dentelli") che si ritrova negli edifici in
cemento armato come nei piccoli oggetti di design), la sua concezione
sacrale del progetto, la sua allergia all'ordine e la sua meditata
trasgressività, il suo arcaismo e la sua modernità, la sua
sensibilità al momento simbolico dell'architettura, al suo legame
profondo col movimento dell' origine, della durata e della fine.
Condivido tutti i suoi giudizi. E sono un po' perplesso sul fatto che
questa mostra abbia risuscitato una domanda oziosa: Scarpa era poi un
architetto? Lo era sul senso più autentico del termine. Difatti, si
esce dalla mostra arricchiti di una sorta di sesto senso: "Voglio
vedere le cose", ha scritto Scarpa, "non mi fido che di
questo. Le metto qui davanti a me sulla carta per poterle vedere.
Voglio vedere e per questo disegno. Posso vedere un' immagine solo se
la disegno"... Ecco, uscendo dalla mostra si vede un po' di più.
"la Repubblica", 5 luglio 1984
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