Un interessante articolo
rievocativo, finale ideologico a parte (si collega la morte dell'ing.
Baldassarini in Svizzera alle diffidenze che oggi in Italia
circonderebbero le grandi opere). Va ricordato peraltro che la diga sullo
Zambesi che creò il più grande lago artificiale del mondo soffre
oggi per i ritardi nelle manutenzioni straordinarie che la mettono in
pericolo. (S.L.L.)
Un giovane ingegnere
toscano che sfida Nyaminyami, il dio fiume dello Zambesi; un
consorzio di agguerrite imprese italiane che prevale su prestigiose
multinazionali; un Paese che ha perso la Seconda guerra mondiale che
fa concorrenza alle potenze vincitrici e diventa un alleato prezioso
dei governi post-coloniali in Africa australe. La costruzione della
diga di Kariba negli anni 50 fu qualcosa di più del semplice
racconto di una immensa realizzazione tecnica, il cui sbarramento
creò il più grande lago artificiale al mondo, 13 volte il Garda.
All’origine di tutto
ciò stava Impresit (Imprese italiane all’estero), del gruppo
Ifi-Fiat, che le dighe le sapeva fare (aveva costruito in Val
Venosta), ma i cui tentativi di conquistare i mercati esteri
(Pakistan, Oceania) si erano saldati con sconfitte, in parte dovute
all’assenza di ingegneri anglofoni. L’Africa, dove la società
iniziò a costruire strade negli anni 40, offriva nuove opportunità
in un momento in cui in Italia rallentava la ricostruzione
post-bellica. Altre due società si trovavano nella stessa
situazione: Lodigiani aveva costruito la sua prima diga nel 1906,
Girola ne contava 30 al proprio attivo. Insieme allo studio
dell’ingegnere Giuseppe Torno, crearono Impresit South Africa nel
1955, che presto si aggiudicò tre progetti in Rhodesia e Mozambico,
un carnet di lavori con cui dare vita al patto Gilt e concorrere
all’appalto per Kariba. Un progetto da 82 milioni di dollari al
confine tra le due Rhodesie (attuali Zambia e Zimbabwe) finanziato
dalla Banca Mondiale (36%), dai produttori di rame (25%) e dalla
Colonial Development Corp. (19%).
Per un ritardo dell’aereo
dall’Europa, ad aprile 1956 la busta tricolore arrivò a Sainsbury
(l’odierna Harare) 10 minuti prima della chiusura dei termini, con
poche speranze di prevalere sul meglio dell’ingegneria civile
britannica (John Laing & Son, Cementation, Richard Costain). A
giugno l’annuncio creò la sorpresa e a sancire la forza del
Sistema Italia concorse il contratto per le linee di trasmissione
aggiudicato a Rhodesia Power Lines, filiale della Sae. Si combinavano
qualità di giovani professionisti (che nel frattempo avevano
imparato l’inglese!), basso costo della manodopera e modesta
marginalità della proposta Impresit (3%, contro 14% dei concorrenti
anglosassoni). Se l’appalto finì a Impresit è perché in ogni
caso le maestranze sarebbero state italiane, chiunque avesse vinto,
un punto che enfatizzò Godfrey Huggins, primo ministro della Central
African Federation, quando i sovranisti dell’Impero criticarono la
scelta, temendo che gli immigrati italiani in Africa ci sarebbero
restati...
Quando Mario
Baldassarrini si trasferisce nell’odierno Zambia per dirigere i
cantieri, poco sa dell’Africa. Ha 35 anni, si è laureato a Pisa
dopo che i suoi studi erano stati interrotti dalla chiamata alle
armi, e ha lavorato con l’ingegner Peppino Lodigiani in quatto
cantieri italiani (Lovero, Recco, Val Zebrù e Cancano). Ma
l’avventura è nei geni dei Baldassarrini. Da Baldassarre
Baltazarini, musicista che nel 1572 organizzò la joute mascarade per
le nozze di Enrico di Navarra con Margherita di Valois,
all’architetto e ingegnere, Alula, emigrato in Argentina negli anni
1910 e a cui si devono le ville che fecero di Mar del Plata la
Biarritz dell’Atlantico del Sud.
Grazie alle doti
professionali e umane, Baldassarrini, nel frattempo raggiunto a
Kariba dalla moglie e dai giovani figli, riesce a portare a termine
il più grande progetto di ingegneria civile del dopoguerra. Gestisce
la relazione con Angus Paton («One of the most able civil engineers
of the modern era» secondo il necrologio dell’Independent nel
1999), Sir Henry Olivier (Chief Engineer) e il francese André Coyne.
Regna su una forza lavoro che arrivò a contare 8mila africani e
1.600 europei. Gli operai venivano dal Nord Italia (bergamaschi e
friulani, in particolare), ma anche da Motta San Giovanni, in
Calabria.
Certo non tutto fu rose e
fiori. Le condizioni di lavoro erano dure, gli stipendi appena
accettabili, i contratti incomprensibili anche per i manovali
italiani, dozzine dei quali perirono sul cantiere e nel cui ricordo
fu costruita la chiesa di Santa Barbara. L’African National
Congress era fortemente contrario a Kariba, che per oltre 55mila
indigeni Tonga (Batonka) significò il trasferimento coatto. Non
mancarono i momenti di tensione, ma, secondo Sir Olivier,
Baldassarrini era «grosso, molto duro e con la stretta di mano di un
gorilla».
Ancora più insidiose si
rivelarono le piogge del marzo 1957, le più intense mai registrate
nella zona, che ingrossarono a dismisura lo Sanyati, un affluente
dello Zambesi, provocando danni ingenti. Eppure a fine anno i lavori
rispettavano perfettamente il cronoprogramma, tanto che a inizio 1958
si iniziò a bonificare il fondo del futuro lago in modo da popolarlo
di pesci e creare un’industria ittica. Poco dopo arrivò però
un’altra piena, altrettanto devastante, ma nel corso dell’anno
tutto il ritardo venne recuperato e la diga venne completata a
dicembre 1958. A far parlare di Kariba nel mondo concorse anche
l’Operazione Noè, il salvataggio di 6mila animali minacciati dal
risalire delle acque, tra cui 23 elefanti e 44 rinoceronti.
Il 17 maggio 1960, per
l’entrata in funzionamento del «biggest piece of masonry in Africa
since the Pharaohs built the Pyramids» (scripsit il Sunday Mail)
venne pure la Regina Madre, mentre in Italia le celebrazioni furono
più sotto tono – anche se in Senato il 12 maggio 1960 Emanuele
Samek Lodovici celebrò «il coraggio, l’abilità, la fatica, la
tenacia e la fede che permisero la realizzazione [della] “diga
degli italiani”». In compenso l’anno successivo Kariba apparve
in Italia 61, il documentario realizzato dalla Walt Disney per conto
della Fiat per celebrare le italiche glorie riprese dal cielo.
Degli italiani, privi di
boria coloniale, i locali apprezzarono la disponibilità a
condividere e insegnare. Aveva ragione Samek Lodovici ad affermare
che Kariba «ci ha fatto guadagnare in Africa più prestigio di
qualsiasi guerra imperiale» e presto venne la conferma «dello
spirito di fraternità e cooperazione umana, tra bianchi e negri
(sic) che ha presieduto alla sua realizzazione».
Nel 1966, sul Guardian
apparve un articolo intitolato “Italian Economic Invasion of
Zambia”, che raccontava come la Fiat avesse venduto 450 camion, la
Snamprogetti stesse costruendo un oleodotto e l’Agip avrebbe presto
«dominate the petroleum markets of Tanzania, Zambia and the Congo».
Tutto ciò grazie alla disponibilità del Sistema Italia a concedere
finanziamenti e lasciare il controllo sulle infrastrutture nelle mani
delle neonate nazioni.
Anche Baldassarrini
rimase in Africa, a dirigere cantieri di competenza di Lodigiani
(Akosombo in Ghana, Roseires in Sudan, Kainji in Nigeria), per poi
passare a Mantaro in Perù, Tarbela in Pakistan e Lar in Iran, prima
di rientrare a Milano nel Comitato esecutivo di Impregilo. E di
spegnersi a 93 anni, in Svizzera, forse per non assistere allo
spettacolo della sua Italia sospettosa di ogni opera
infrastrutturale.
Il Sole 24 Ore, 2
settembre 2018
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