18.2.19

Kariba, la diga che ridiede onore all’Italia (Andrea Goldstein)

Un interessante articolo rievocativo, finale ideologico a parte (si collega la morte dell'ing. Baldassarini in Svizzera alle diffidenze che oggi in Italia circonderebbero le grandi opere). Va ricordato peraltro che la diga sullo Zambesi che creò il più grande lago artificiale del mondo soffre oggi per i ritardi nelle manutenzioni straordinarie che la mettono in pericolo. (S.L.L.)

Un giovane ingegnere toscano che sfida Nyaminyami, il dio fiume dello Zambesi; un consorzio di agguerrite imprese italiane che prevale su prestigiose multinazionali; un Paese che ha perso la Seconda guerra mondiale che fa concorrenza alle potenze vincitrici e diventa un alleato prezioso dei governi post-coloniali in Africa australe. La costruzione della diga di Kariba negli anni 50 fu qualcosa di più del semplice racconto di una immensa realizzazione tecnica, il cui sbarramento creò il più grande lago artificiale al mondo, 13 volte il Garda.
All’origine di tutto ciò stava Impresit (Imprese italiane all’estero), del gruppo Ifi-Fiat, che le dighe le sapeva fare (aveva costruito in Val Venosta), ma i cui tentativi di conquistare i mercati esteri (Pakistan, Oceania) si erano saldati con sconfitte, in parte dovute all’assenza di ingegneri anglofoni. L’Africa, dove la società iniziò a costruire strade negli anni 40, offriva nuove opportunità in un momento in cui in Italia rallentava la ricostruzione post-bellica. Altre due società si trovavano nella stessa situazione: Lodigiani aveva costruito la sua prima diga nel 1906, Girola ne contava 30 al proprio attivo. Insieme allo studio dell’ingegnere Giuseppe Torno, crearono Impresit South Africa nel 1955, che presto si aggiudicò tre progetti in Rhodesia e Mozambico, un carnet di lavori con cui dare vita al patto Gilt e concorrere all’appalto per Kariba. Un progetto da 82 milioni di dollari al confine tra le due Rhodesie (attuali Zambia e Zimbabwe) finanziato dalla Banca Mondiale (36%), dai produttori di rame (25%) e dalla Colonial Development Corp. (19%).
Per un ritardo dell’aereo dall’Europa, ad aprile 1956 la busta tricolore arrivò a Sainsbury (l’odierna Harare) 10 minuti prima della chiusura dei termini, con poche speranze di prevalere sul meglio dell’ingegneria civile britannica (John Laing & Son, Cementation, Richard Costain). A giugno l’annuncio creò la sorpresa e a sancire la forza del Sistema Italia concorse il contratto per le linee di trasmissione aggiudicato a Rhodesia Power Lines, filiale della Sae. Si combinavano qualità di giovani professionisti (che nel frattempo avevano imparato l’inglese!), basso costo della manodopera e modesta marginalità della proposta Impresit (3%, contro 14% dei concorrenti anglosassoni). Se l’appalto finì a Impresit è perché in ogni caso le maestranze sarebbero state italiane, chiunque avesse vinto, un punto che enfatizzò Godfrey Huggins, primo ministro della Central African Federation, quando i sovranisti dell’Impero criticarono la scelta, temendo che gli immigrati italiani in Africa ci sarebbero restati...
Quando Mario Baldassarrini si trasferisce nell’odierno Zambia per dirigere i cantieri, poco sa dell’Africa. Ha 35 anni, si è laureato a Pisa dopo che i suoi studi erano stati interrotti dalla chiamata alle armi, e ha lavorato con l’ingegner Peppino Lodigiani in quatto cantieri italiani (Lovero, Recco, Val Zebrù e Cancano). Ma l’avventura è nei geni dei Baldassarrini. Da Baldassarre Baltazarini, musicista che nel 1572 organizzò la joute mascarade per le nozze di Enrico di Navarra con Margherita di Valois, all’architetto e ingegnere, Alula, emigrato in Argentina negli anni 1910 e a cui si devono le ville che fecero di Mar del Plata la Biarritz dell’Atlantico del Sud.
Grazie alle doti professionali e umane, Baldassarrini, nel frattempo raggiunto a Kariba dalla moglie e dai giovani figli, riesce a portare a termine il più grande progetto di ingegneria civile del dopoguerra. Gestisce la relazione con Angus Paton («One of the most able civil engineers of the modern era» secondo il necrologio dell’Independent nel 1999), Sir Henry Olivier (Chief Engineer) e il francese André Coyne. Regna su una forza lavoro che arrivò a contare 8mila africani e 1.600 europei. Gli operai venivano dal Nord Italia (bergamaschi e friulani, in particolare), ma anche da Motta San Giovanni, in Calabria.
Certo non tutto fu rose e fiori. Le condizioni di lavoro erano dure, gli stipendi appena accettabili, i contratti incomprensibili anche per i manovali italiani, dozzine dei quali perirono sul cantiere e nel cui ricordo fu costruita la chiesa di Santa Barbara. L’African National Congress era fortemente contrario a Kariba, che per oltre 55mila indigeni Tonga (Batonka) significò il trasferimento coatto. Non mancarono i momenti di tensione, ma, secondo Sir Olivier, Baldassarrini era «grosso, molto duro e con la stretta di mano di un gorilla».
Ancora più insidiose si rivelarono le piogge del marzo 1957, le più intense mai registrate nella zona, che ingrossarono a dismisura lo Sanyati, un affluente dello Zambesi, provocando danni ingenti. Eppure a fine anno i lavori rispettavano perfettamente il cronoprogramma, tanto che a inizio 1958 si iniziò a bonificare il fondo del futuro lago in modo da popolarlo di pesci e creare un’industria ittica. Poco dopo arrivò però un’altra piena, altrettanto devastante, ma nel corso dell’anno tutto il ritardo venne recuperato e la diga venne completata a dicembre 1958. A far parlare di Kariba nel mondo concorse anche l’Operazione Noè, il salvataggio di 6mila animali minacciati dal risalire delle acque, tra cui 23 elefanti e 44 rinoceronti.
Il 17 maggio 1960, per l’entrata in funzionamento del «biggest piece of masonry in Africa since the Pharaohs built the Pyramids» (scripsit il Sunday Mail) venne pure la Regina Madre, mentre in Italia le celebrazioni furono più sotto tono – anche se in Senato il 12 maggio 1960 Emanuele Samek Lodovici celebrò «il coraggio, l’abilità, la fatica, la tenacia e la fede che permisero la realizzazione [della] “diga degli italiani”». In compenso l’anno successivo Kariba apparve in Italia 61, il documentario realizzato dalla Walt Disney per conto della Fiat per celebrare le italiche glorie riprese dal cielo.
Degli italiani, privi di boria coloniale, i locali apprezzarono la disponibilità a condividere e insegnare. Aveva ragione Samek Lodovici ad affermare che Kariba «ci ha fatto guadagnare in Africa più prestigio di qualsiasi guerra imperiale» e presto venne la conferma «dello spirito di fraternità e cooperazione umana, tra bianchi e negri (sic) che ha presieduto alla sua realizzazione».
Nel 1966, sul Guardian apparve un articolo intitolato “Italian Economic Invasion of Zambia”, che raccontava come la Fiat avesse venduto 450 camion, la Snamprogetti stesse costruendo un oleodotto e l’Agip avrebbe presto «dominate the petroleum markets of Tanzania, Zambia and the Congo». Tutto ciò grazie alla disponibilità del Sistema Italia a concedere finanziamenti e lasciare il controllo sulle infrastrutture nelle mani delle neonate nazioni.
Anche Baldassarrini rimase in Africa, a dirigere cantieri di competenza di Lodigiani (Akosombo in Ghana, Roseires in Sudan, Kainji in Nigeria), per poi passare a Mantaro in Perù, Tarbela in Pakistan e Lar in Iran, prima di rientrare a Milano nel Comitato esecutivo di Impregilo. E di spegnersi a 93 anni, in Svizzera, forse per non assistere allo spettacolo della sua Italia sospettosa di ogni opera infrastrutturale.

Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2018

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