Che cosa significa il
termine “natura” per un poeta latino che cerca la sua strada
nella prima età augustea e, incapace ancora di affrontare armi e
gesta eroiche, imbocca la carriera letteraria proprio con una
raccolta di componimenti, le Bucoliche, che danno una certa
rappresentazione dello spazio naturale?
Troppo lungo sarebbe
ripercorrere la storia dei significati che si associano a “natura”
nell’antichità previrgiliana. Qui basti dire che Virgilio aveva
alle spalle una tradizione di ricerche sulla physis che
iniziava dai presocratici e, passando per Platone, discendeva ad
Aristotele, agli stoici e agli epicurei. Il significato di physis
si è molto trasformato d’autore in autore, passando dal senso
ristretto di proprietà specifica di qualcosa a quello generale di
ambito del vivente. Ancora nel poema di Lucrezio, la fonte latina più
vicina a Virgilio, il termine “natura” esprime varie idee: è la
condizione della corporeità, l’insieme delle leggi che regolano i
processi dell’universo, ma è anche la voluptas che perpetua
la vita, il dominio totale dei processi generativi e delle operazioni
atomiche, l’intelligenza biologica.
Nelle Bucoliche la
natura è anzitutto paesaggio: ambiente della familiarità e della
proiezione interiore; angolo di paese che sta per il mondo intero,
secondo una definizione di Francois Jullien. Potremmo arrivare a dire
che le Bucoliche ci hanno fornito il prototipo di paesaggio
per eccellenza, irrigidendosi in vero e proprio paradigma, la
geografia-casa, destinata a riaffiorare per tutta la nostra storia
letteraria, giù giù fin nel cuore del Novecento, secondo molteplici
formulazioni linguistiche: uno scenario di elementi caratteristici -
vegetali, animali, atmosferici, climatici -, in cui l’individuo
umano, emblematizzato nella figura del pastore, si colloca
pacificamente e confidenzialmente, pur con qualche sospiro
malinconico.
Lo spazio della bucolica
tende all’armonia, perché è apolitico, antimilitare, istintuale.
È qualcosa che l’uomo guarda ricercandovisi e traendone piacere. I
conflitti vi si riducono a gare di canto, la sofferenza a pena
d’amore. La fatica è assente, perché la bucolica ricrea l’età
dell’oro, sommo ideale di vita comune nella propaganda augustea. La
morte non manca neppure lì, ma il lutto si risolve in riti
consolatori e nostalgie affettuose, quando non nella divinizzazione
del defunto.
Virgilio non è partito
da zero. Prima di lui il greco Teocrito ha rappresentato i tratti
naturalistici della bucolica. Virgilio, però, ha saputo fissare quei
tratti in un codice imperituro, per di più dando alla
natura-paesaggio una capacità di partecipazione alle vicende umane
che il modello greco aveva solo accennato. L’integrazione segue un
doppio senso di marcia. C’è osmosi tra tutti i viventi,
corrispondenza biunivoca, capacità di commuoversi gli uni per gli
altri indipendentemente dalla specie. Un diffuso senso di
appartenenza equipara umani e no, in una sorta di musicale
condivisione, anzi, in una vera e propria coscienza ecologica ante
litteram.
Vorrei sottolineare che
il modello della bucolica virgiliana è tutt’altro che omogeneo e
statico, per quanto possa apparire e per quanto lo stesso Virgilio,
selezionando e polendo fino all’autocitazionismo o al cliché,
abbia raffinato i materiali in sommo grado. La verità è che la
lustra maiolica esce dal laboratorio già percorsa da crepe e
screpolature che lasciano intravedere profondità cupe e magmatiche,
e modelli di natura non solo iperletterari. Il sogno d’evasione e
l’idealizzazione atemporale, per cominciare, non escludono una
concezione scientifica della natura, che invano si ricercherebbe in
Teocrito e che fa di Virgilio un autore pienamente originale. Una
coppa che Menalca mette in palio gareggiando con Dameta raffigura due
celebri astronomi della storia: Conone, richiamato con tanto di nome
(è quello che scoprì la Chioma di Berenice, di cui cantarono
Callimaco e poi Catullo), e Archimede, evocato da una perifrasi:
«l’altro, / che l’universo tracciò per i popoli con la
bacchetta» (Bucoliche 3,40-41). Si noti che una coppa effigiata è
anche in Teocrito, proprio nel primo degli Idilli, ma quello
che vi è rappresentato non ha alcun contenuto scientifico: vi si
vedono una contesa amorosa, un pescatore e una vigna, dove due volpi
rubano l’uva e la colazione al giovanissimo guardiano, il quale sta
costruendo una gabbietta per grilli.
Con geniale nonchalance
Virgilio ha costretto la «visione astronomica» - quella di una
natura matematica, misurabile, secondo una prospettiva che arriverà
a Galileo Galilei e con lui si imporrà - nello spazio di una minuta
ekphrasis. Tuttavia, tanta miniaturizzazione non è solo
artistica ironia. Virgilio, infatti, nell’episodio di Menalca sta
tenendo a bada la tentazione di un’altra possibile via, quella
appunto della poesia astronomica, che altri hai no percorso prima di
lui: Empedocle, Arato di Soli e il già ricordato Lucrezio, per
citare i più rilevanti. Questa tentazione, d’altra parte, non
smette di tentarlo, riapparendo qua e là in tutta la sua opera. Ne
abbiamo un esempio nelle stesse Bucoliche, dove Sileno canta
niente meno che una cosmogonia (Bucoliche 6,31-40). Il
richiamo della poesia astronomica si riaffaccerà ne secondo libro
delle Georgiche. Significativo è che questo passo sarà richiamato
alla lettera alla fine del primo libro dell’Eneide nel canto
di Iopa, il poeta della corte cartaginese, segno che l’ipotesi
(forse il rimpianto) di una carriera scientifica in Virgilio neppure
in quella fase apicale, l’epos tanto a fatica raggiunto, è del
tutto dimenticata. Il confronto con il modello di Lucrezio, in tutto
questo, ha certamente contato. L’ideale scientifico torna nel
quarto delle Georgiche e riemerge memorabilmente, in ima sorta
di testamento (a parlare, non a caso, è Anchise), nel centro stesso
dell’Eneide, il sesto libro, in un passo che, ispirandosi alle
dottrine dello stoico Posidonio, sottolinea l’unità originaria di
tutte le forme viventi.
Torniamo alla terza
bucolica. Ho detto del riferimento a Conone e ad Archimede. Poco
sotto, in un’altra micro-ekphrasis, pure questa incisa su
una coppa, troviamo in bocca a Dameta un’allusione a Orfeo. Anziché
due scienziati, viene stavolta citato un poeta. A suo modo, però,
Orfeo è uno scienziato pure lui: con la forza del canto è capace di
intervenire direttamente sulla natura, di trascinarla perfino. Un
buon canto (carmen), infatti, oltre che riportare l’amato a
casa (nelle Georgiche Orfeo riuscirà col canto perfino a
convincere le divinità della morte a restituirgli la moglie),
produce imperativi irresistibili cui le stesse forze vitali non sono
in grado di resistere. L’idea di natura implicita è questa: che la
natura consta di energie senzienti e intelligenti; che la natura non
è strutturalmente fissa ed estranea, ma si realizza nell’interazione
con l’uomo, perché vive come l’uomo e perché l’uomo le
appartiene. Questa magia verbale, l’incantesimo, di cui troviamo
testimonianza in Virgilio, ha già lungo corso. Molta altra strada,
d’altronde, avrà davanti, costituendo non solo un filone
importante della nostra tradizione magica, ma anche una disciplina in
cui poesia e scienza sanno ancora collaborare.
“Il Sole 24 Ore”, 30
settembre 2018
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