27.2.19

Virgilio e le Bucoliche. Quando la “natura” diventa paesaggio (Nicola Gardini)



Che cosa significa il termine “natura” per un poeta latino che cerca la sua strada nella prima età augustea e, incapace ancora di affrontare armi e gesta eroiche, imbocca la carriera letteraria proprio con una raccolta di componimenti, le Bucoliche, che danno una certa rappresentazione dello spazio naturale?
Troppo lungo sarebbe ripercorrere la storia dei significati che si associano a “natura” nell’antichità previrgiliana. Qui basti dire che Virgilio aveva alle spalle una tradizione di ricerche sulla physis che iniziava dai presocratici e, passando per Platone, discendeva ad Aristotele, agli stoici e agli epicurei. Il significato di physis si è molto trasformato d’autore in autore, passando dal senso ristretto di proprietà specifica di qualcosa a quello generale di ambito del vivente. Ancora nel poema di Lucrezio, la fonte latina più vicina a Virgilio, il termine “natura” esprime varie idee: è la condizione della corporeità, l’insieme delle leggi che regolano i processi dell’universo, ma è anche la voluptas che perpetua la vita, il dominio totale dei processi generativi e delle operazioni atomiche, l’intelligenza biologica.
Nelle Bucoliche la natura è anzitutto paesaggio: ambiente della familiarità e della proiezione interiore; angolo di paese che sta per il mondo intero, secondo una definizione di Francois Jullien. Potremmo arrivare a dire che le Bucoliche ci hanno fornito il prototipo di paesaggio per eccellenza, irrigidendosi in vero e proprio paradigma, la geografia-casa, destinata a riaffiorare per tutta la nostra storia letteraria, giù giù fin nel cuore del Novecento, secondo molteplici formulazioni linguistiche: uno scenario di elementi caratteristici - vegetali, animali, atmosferici, climatici -, in cui l’individuo umano, emblematizzato nella figura del pastore, si colloca pacificamente e confidenzialmente, pur con qualche sospiro malinconico.
Lo spazio della bucolica tende all’armonia, perché è apolitico, antimilitare, istintuale. È qualcosa che l’uomo guarda ricercandovisi e traendone piacere. I conflitti vi si riducono a gare di canto, la sofferenza a pena d’amore. La fatica è assente, perché la bucolica ricrea l’età dell’oro, sommo ideale di vita comune nella propaganda augustea. La morte non manca neppure lì, ma il lutto si risolve in riti consolatori e nostalgie affettuose, quando non nella divinizzazione del defunto.
Virgilio non è partito da zero. Prima di lui il greco Teocrito ha rappresentato i tratti naturalistici della bucolica. Virgilio, però, ha saputo fissare quei tratti in un codice imperituro, per di più dando alla natura-paesaggio una capacità di partecipazione alle vicende umane che il modello greco aveva solo accennato. L’integrazione segue un doppio senso di marcia. C’è osmosi tra tutti i viventi, corrispondenza biunivoca, capacità di commuoversi gli uni per gli altri indipendentemente dalla specie. Un diffuso senso di appartenenza equipara umani e no, in una sorta di musicale condivisione, anzi, in una vera e propria coscienza ecologica ante litteram.
Vorrei sottolineare che il modello della bucolica virgiliana è tutt’altro che omogeneo e statico, per quanto possa apparire e per quanto lo stesso Virgilio, selezionando e polendo fino all’autocitazionismo o al cliché, abbia raffinato i materiali in sommo grado. La verità è che la lustra maiolica esce dal laboratorio già percorsa da crepe e screpolature che lasciano intravedere profondità cupe e magmatiche, e modelli di natura non solo iperletterari. Il sogno d’evasione e l’idealizzazione atemporale, per cominciare, non escludono una concezione scientifica della natura, che invano si ricercherebbe in Teocrito e che fa di Virgilio un autore pienamente originale. Una coppa che Menalca mette in palio gareggiando con Dameta raffigura due celebri astronomi della storia: Conone, richiamato con tanto di nome (è quello che scoprì la Chioma di Berenice, di cui cantarono Callimaco e poi Catullo), e Archimede, evocato da una perifrasi: «l’altro, / che l’universo tracciò per i popoli con la bacchetta» (Bucoliche 3,40-41). Si noti che una coppa effigiata è anche in Teocrito, proprio nel primo degli Idilli, ma quello che vi è rappresentato non ha alcun contenuto scientifico: vi si vedono una contesa amorosa, un pescatore e una vigna, dove due volpi rubano l’uva e la colazione al giovanissimo guardiano, il quale sta costruendo una gabbietta per grilli.
Con geniale nonchalance Virgilio ha costretto la «visione astronomica» - quella di una natura matematica, misurabile, secondo una prospettiva che arriverà a Galileo Galilei e con lui si imporrà - nello spazio di una minuta ekphrasis. Tuttavia, tanta miniaturizzazione non è solo artistica ironia. Virgilio, infatti, nell’episodio di Menalca sta tenendo a bada la tentazione di un’altra possibile via, quella appunto della poesia astronomica, che altri hai no percorso prima di lui: Empedocle, Arato di Soli e il già ricordato Lucrezio, per citare i più rilevanti. Questa tentazione, d’altra parte, non smette di tentarlo, riapparendo qua e là in tutta la sua opera. Ne abbiamo un esempio nelle stesse Bucoliche, dove Sileno canta niente meno che una cosmogonia (Bucoliche 6,31-40). Il richiamo della poesia astronomica si riaffaccerà ne secondo libro delle Georgiche. Significativo è che questo passo sarà richiamato alla lettera alla fine del primo libro dell’Eneide nel canto di Iopa, il poeta della corte cartaginese, segno che l’ipotesi (forse il rimpianto) di una carriera scientifica in Virgilio neppure in quella fase apicale, l’epos tanto a fatica raggiunto, è del tutto dimenticata. Il confronto con il modello di Lucrezio, in tutto questo, ha certamente contato. L’ideale scientifico torna nel quarto delle Georgiche e riemerge memorabilmente, in ima sorta di testamento (a parlare, non a caso, è Anchise), nel centro stesso dell’Eneide, il sesto libro, in un passo che, ispirandosi alle dottrine dello stoico Posidonio, sottolinea l’unità originaria di tutte le forme viventi.
Torniamo alla terza bucolica. Ho detto del riferimento a Conone e ad Archimede. Poco sotto, in un’altra micro-ekphrasis, pure questa incisa su una coppa, troviamo in bocca a Dameta un’allusione a Orfeo. Anziché due scienziati, viene stavolta citato un poeta. A suo modo, però, Orfeo è uno scienziato pure lui: con la forza del canto è capace di intervenire direttamente sulla natura, di trascinarla perfino. Un buon canto (carmen), infatti, oltre che riportare l’amato a casa (nelle Georgiche Orfeo riuscirà col canto perfino a convincere le divinità della morte a restituirgli la moglie), produce imperativi irresistibili cui le stesse forze vitali non sono in grado di resistere. L’idea di natura implicita è questa: che la natura consta di energie senzienti e intelligenti; che la natura non è strutturalmente fissa ed estranea, ma si realizza nell’interazione con l’uomo, perché vive come l’uomo e perché l’uomo le appartiene. Questa magia verbale, l’incantesimo, di cui troviamo testimonianza in Virgilio, ha già lungo corso. Molta altra strada, d’altronde, avrà davanti, costituendo non solo un filone importante della nostra tradizione magica, ma anche una disciplina in cui poesia e scienza sanno ancora collaborare.

“Il Sole 24 Ore”, 30 settembre 2018

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