Cancro al colon |
Il cancro,
indipendentemente dal sito e della parte, organo o sistema
dell'organismo investito, è una patologia dei tessuti specifica e
sempre identica a se stessa, contrassegnata da abnorme proliferazione
di cellule irregolari che danno origine a una nuova formazione
(neoplasia maligna o carcinoma) e, se il processo morboso
progredisce, da una graduale dislocazione (metastasi) delle cellule
maligne in siti relativamente distanti dal focolaio principale. La
sua malignità è tale da farlo percepire come il principe
incontestato di tutte le malattie, un essere vero e proprio la cui
storia può essere ricostruita alla stregua della biografia di un
eroe malvagio. È quel che ha fatto Siddharta Mukherjee, medico e
oncologo indiano, docente nella Columbia University di New York,
Premio Pulitzer 2011, in un libro per molti versi straordinario:
L'imperatore del male.
Una biografia del cancro, Neri Pozza, 2011, pp. 736, euro
19.
L'ipotesi di Galeno
Il cancro era conosciuto
già nel XIII secolo a.C. dell'Egitto faraonico, ma solo nel V secolo
a.C. i medici greci della Scuola di Cos, fondata da Ippocrate
(460-370 a.C.), ne dettero una descrizione precisa e fu, pare, lo
stesso Ippocrate a chiamarlo karkínos (alla lettera
«granchio» - donde il nostro «cancro» - per la forma assunta nel
suo sviluppo). Proprio dalla scuola di Cos comincia l'indagine sulla
causa della malattia per mettere a punto la cura, ma l'indagine è
disperante. Il tumore maligno non appare come un morbo epidemico,
tale da ipotizzarne la genesi in un male esogeno di natura divina che
«visita» una popolazione (il termine greco epidemía
significa, per l'appunto, «visita a un demo»), ma piuttosto come
una patologia degenerativa apprezzabile soprattutto in individui
anziani e perciò quasi una malattia rara data l'allora modestissima
attesa media di vita alla nascita (24-30 anni).
I tratti degenerativi
tipici del cancro vengono così ricondotti a un fattore endogeno che,
parecchi secoli dopo, il grande medico greco Galeno (128-200 d.C.),
crede di cogliere nella condotta di uno degli umori, la bile nera
(mélaina cholé) che, sovrabbondante, ristagna in una parte
del corpo provocando ora la depressione o melanconia ora il cancro,
ma, talvolta l'uno e l'altra, al punto che, per paradossale che possa
essere, il secondo finisce con l'essere considerato (nella tarda
tradizione galenica) una conseguenza della prima. L'ipotesi di Galeno
si dimostrò comunque del tutto fantastica quando nel Rinascimento i
progressi dell'anatomia evidenziarono la totale inesistenza della
bile nera. La correlazione da lui stabilita tra cancro e «umor nero»
aveva tuttavia un forte potenziale esplicativo. Metteva infatti in
chiaro una verità che sarebbe emersa solo in epoca recentissima: la
causa del terribile morbo va infatti ricercata non fuori, ma dentro
il corpo umano.
A partire dalla seconda
metà del '700 i casi di cancro presero a moltiplicarsi rispetto al
passato. Come oggi sappiamo, a causa dell'ambiente degradato dei
centri urbani nella prima rivoluzione industriale, il cancro era
ormai diventato una minacciosa presenza. Questa situazione rinverdì,
da un lato, l'immagine medievale del morbo come quella di un mostro
che dall'esterno si avventa sul corpo umano, dall'altro l'adozione,
da parte della medicina istituzionale nel suo complesso, di una
condotta cui si ricorre sempre a fronte di mali la cui eziologia è
sconosciuta: pensare ai rimedi e poi, sulla scorta delle esperienze
terapeutiche, rifarsi a queste per trovare la chiave per scoprire la
causa.
Danni collaterali
A fronte dell'impellente
esigenza sociale di una risposta tagliata sul bisogno, la medicina
istituzionale rispose mobilitando la chirurgia che, ormai non più
arte di barbitonsori, formava chirurghi degni di esser definiti "mani
pensanti". Protagonista di questa svolta fu tra gli altri il
chirurgo scozzese John Hunter (1728-1793) che, acquisita una grande
competenza di anatomo-patologo, asportò numerosi cancri (solidi)
operando una sapiente distinzione tra quelli amovibili e quelli ormai
diffusi nell'organismo (metastatici).
Sulla scorta di Hunter e
di altri grandi chirurghi, all'inizio soprattutto inglesi e francesi,
poi tedeschi e americani, la chirurgia nel XIX secolo fu a lungo la
principale, se non addirittura l'unica arma strategica contro il
cancro. Un'arma che affinava le sue tecniche rendendole sempre più
efficaci come quando l'americano William Stewart Halsted (1852-1922)
introdusse la mastectomia radicale, una procedura avverso il cancro
del seno che oltre a comportarne l'ablazione totale, implicava
altresì l'asportazione dei muscoli sottostanti e dei linfonodi
relativi. In buona sostanza, tuttavia, la chirurgia non eliminava il
cancro, ma si limitava ad estirparlo, con l'aggravante che la sua
natura invasiva era pagata a caro prezzo dai pazienti in termini di
danni collaterali, nonché di vere e proprie (e spesso inutili)
mutilazioni. Una procedura innovativa cruciale come l'introduzione
dell'anestesia, pur migliorando certamente la fattibilità e la
tollerabilità degli interventi, non ne ridusse il carattere
invasivo. L'adozione dei raggi X per l'estirpazione del cancro, in
sostituzione della chirurgia, anche se spesso a questa associata,
portò tuttavia all'attuazione di strategie concluse spesso con
remissioni..
Negli anni immediatamente
precedenti la Seconda Guerra Mondiale il cancro costituiva tuttavia
un problema irrisolto. Nel 1937 la rivista americana «Fortune»
pubblicava un articolo in cui se ne riassumeva la situazione nel
mondo e in particolare negli Usa: crescita esponenziale dei casi,
incertezza diagnostica, concentrazione esclusiva della cura nella
chirurgia e nella radioterapia. Di lì a poco, tuttavia, le cose
presero a cambiare e l'epicentro del cambiamento furono proprio gli
Stati Uniti. La sanità americana fu investita da un inedito
interesse da parte del Governo e contemporaneamente cominciarono a
intervenire decise novità nella ricerca. Attenzione governativa e
della classe dirigente americana in generale, da un lato, e
innovazioni terapeutiche corsero in parallelo avvitandosi in un
circolo virtuoso. A dare l'avvio all'opera di contrasto fu,
indirettamente, la vicenda di un'epidemia infettiva e di un suo
illustre malato, Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati
Uniti dal 1933 al 1945, anno della sua morte. Roosevelt, già vittima
nel 1921 della violenta epidemia di poliomielite che infuriava
soprattutto tra i bambini (conosciuta perciò come paralisi
infantile), candidandosi nel 1936 per la prima conferma del mandato,
contro il parere dei suoi consulenti si presentò in pubblico in
carrozzella e, una volta confermato, promosse nel 1937 una fondazione
nazionale per sostenere la ricerca sulla paralisi infantile.
Mostrando un'indubbia genialità politica, volle dimostrare agli
Americani come per lui battersi per sconfiggere una malattia dei
grandi numeri era una impresa non meno politica della lotta
coraggiosa sostenuta per contrastare la Grande Depressione, essa
stessa visualizzabile come una malattia dell'economia e della
società.
L'esempio dato da
Roosevelt nell'avviare un processo collettivo di contrasto di una
grave tabe infettiva non restò senza conseguenze. Si cominciò a
pensare che quanto si era fatto per la polio era fattibile anche per
i tumori maligni. Fu così che il cancro divenne oggetto di un
crescente coinvolgimento dei privati nell'organizzazione e nel
finanziamento della ricerca che per sua parte cominciò a presentare
novità positive. Uno dei massimi oncologi americani, Sidney Farber
(1907-1973) attivo nel Children's Hospital di Boston dove seguiva i
bambini malati di leucemia, lavorando nel laboratorio dell'ospedale,
nell'estate del 1947 ebbe, per così dire, la sua «mela di Newton»:
nell'assenza di una diagnostica strumentale (ecografia, TAC,
risonanza magnetica) che permettesse di «vedere» la patogenesi e lo
sviluppo del cancro in generale, la leucemia, tumore contrassegnato
da una proliferazione patologica dei globuli bianchi (leucociti) nel
sangue, si rendeva visibile al microscopio e poteva così essere
quantificata. La stessa cosa si poteva fare con i tessuti di altri
cancri.
A questo punto diventava
possibile pensare a farmaci in grado di aggredire e distruggere le
cellule maligne al modo stesso in cui si procedeva nel trattamento
delle malattie infettive, ma c'era un problema: come discriminare
nella distruzione le cellule malate da quelle sane? Stabilito così
l'obiettivo della sperimentazione, il paradigma di riferimento fu il
principio dell'affinità specifica, già scoperto dall'immunologo
tedesco Paul Ehrlich (1854-1915), vale a dire la proprietà di alcune
sostanze di «legarsi» con i veleni del tessuto canceroso e di
distruggerli, in una parola il principio base dell'immunità
cellulare che fa sì che la tossina della cellula malata sia una
sorta di serratura disposta a essere aperta, come da una chiave,
unicamente da un'antitossina specifica per quella tossina. Come dire
che per ogni tossina andava ricercata l'antitossina - più tardi
ribattezzata anticorpo - congenere. Una volta individuata
l'antitossina specifica, si trattava di produrre la molecola giusta e
poi passare all'applicazione terapeutica.
Campagne di stampa
Era nata così la
chemioterapia che, traendo origine dalle pionieristiche esperienze di
Ehrlich, ebbe tuttavia il suo pieno sviluppo in America a partire
dagli anni Cinquanta. L'affermazione della chemioterapia richiedeva
un enorme impegno di risorse finanziarie e umane non solo per la
produzione industriale, ma anche per formare un personale in grado di
organizzare e condurre la sperimentazione clinica. Per sensibilizzare
il governo e i privati sul problema del cancro, si mobilitarono divi
del cinema, imprenditori di successo e due filantropi milionari, i
coniugi Albert e Mary Lasker che, sul finire della Seconda Guerra
Mondiale rilanciarono una vecchia associazione per la ricerca sul
cancro con una capillare campagna di stampa, appoggiandosi, per la
necessaria copertura scientifica, a Farber, l'insuperato campione
della lotta contro la leucemia. La cosa ebbe un successo tale da fare
dell'associazione il referente privilegiato del Congresso per tutte
le questioni relative al morbo. Ebbe luogo una sorta di
americanization of cancer che toccò il culmine durante la
presidenza di Richard Nixon quando nel 1970 il «New York Times»
pubblicò un appello a prima pagina, a firma di Farber e di Mary
Lasker, in cui si invitava il Presidente a sostenere la «Guerra
contro il cancro».
Al pubblico americano
questa guerra, di cui si faceva intravedere la vittoria, veniva
presentata come l'impresa di una grande nazione (meglio, della
«Grande Nazione» per antonomasia) che avrebbe aggiunto un nuovo
trionfo a quello dello sbarco sulla Luna nel 1969 e al «sicuro»
esito della guerra in Vietnam.
La vittoria sul cancro
per i Laskeriti poteva esser ottenuto perfezionando la chemioterapia,
il che implicitamente incoraggiava Nixon a privilegiare il sostegno
della ricerca applicata a tutto discapito della ricerca di base. Se
in linea di principio è sempre auspicabile che questa non venga
sacrificata, va aggiunto che la trasformazione di una malattia in
un'entità tale da farne un nemico pubblico «numero 1», finì con
l'avere conseguenze misurabili ad almeno due livelli: sotto il
profilo operativo, perché venne indebolita l'opera di persuasione
del pubblico ad adottare i corretti comportamenti di prevenzione;
sotto il profilo etico, perché indusse a pensare che il cancro, alla
stregua di un moderno diavolo, si impossessasse del malato colpevole
di comportamenti illeciti e quindi quale peccatore suo complice (è
del resto quanto è puntualmente successo negli Stati Uniti con il
Sarcoma di Kaposi associato all'Aids allorché agli inizi degli anni
Ottanta si conobbero i primi casi della terribile malattia: la
Sindrome da Immunodeficienza Acquisita venne definita Gay syndrome,
«malattia dell'omosessuale», dal Center for Disease Control di
Atlanta).
Crociata
internazionale
A misura che il XX secolo
si avviava alla fine, la cura del cancro, dei tumori solidi in
particolare, prevedeva (e ancora prevede) un iter rituale: intervento
chirurgico, chemioterapia, radioterapia. Certo non mancano i
successi: le recidive sono meno frequenti e le remissioni prolungate
spesso sino alla definita guarigione. I progressi clinici sono
agevolati da una conoscenza più approfondita dell'epidemiologia, da
una prassi sofisticata nell'allestimento e nella conduzione dei
trials, dal monitoraggio degli stress ambientali e delle abitudini di
vita (che investono soprattutto i costumi alimentari e notissime
dipendenze come quella dal fumo), nonché dalle campagne mediatiche
di prevenzione alle cui indicazioni il pubblico si mostra ora sempre
più sensibile.
Nel frattempo comunque
molte cose stanno cambiando. Per cominciare la «guerra contro il
cancro» non è più una delle tante «crociate» americane.
L'America resta certo la mecca della ricerca, ma una mecca
decisamente internazionalizzata dalla presenza di cervelli in fuga
dall'Europa e dall'Asia. Costoro non si limitano a diffondere
conoscenze acquisite nella loro formazione remota, ma comunicano un
modo diverso di considerare il cancro in sé. A molti di loro, come
ad Howard Martin Temin (1934-1964) e David Baltimore (1934), allievi
di Renato Dulbecco (1914), si devono ricerche genetiche che hanno
prodotto un mutamento di prospettiva.
Il cancro non va studiato
come una malattia (anche se ovviamente lo è) ma come un processo di
crescita cellulare che sembra seguire un suo progetto consistente
nell'attivare gli oncogeni e disattivare i geni oncosoppressori,
agendo su meccanismi molecolari che agiscono da regolatori.
Attivazione e disattivazione conseguono da mutazioni fuori dal nostro
controllo. Come l'organismo normale è esso stesso un organismo in
via di sviluppo e le sue cellule paiono programmate per produrre una
vita «diversa» parassitaria. È per questa ragione che il paziente
lo avverte come un ingombro, un peso (è questo, d'altronde, il
significato della parola greca ónkos che Mukherjee riconduce
al radicale indoeuropeo nek).
La morale della
compassione
Questo peso, tuttavia, al
di là di un problematico intervento di ingegneria genetica inteso a
«scaricarlo», si presta a essere declinato diversamente: o è una
vita che tenta di sostituirsi a quella presente secondo scansioni che
sono al tutto imprevedibili e che, pertanto, ci invita ad abituarci a
convivere con il cancro invincibile come lo è il bíos,
tenendo altresì conto del fatto che viviamo di più e meglio, per
cui abbiamo maggiori occasioni di avere a che fare con i tumori
maligni; oppure è un'occasione per vivere con una maggiore
intensità, da medici in particolare, le disavventure non solo
sanitarie dell'altro. Nell'aura di affetti evocata dal medico e
ricercatore indiano, un'aura nella quale la medicina si volge in
un'austera morale della compassione, sembra davvero, come suggerisce
Ingmar Bergman nel Posto delle fragole, che «il primo dovere
del medico è quello di chiedere perdono».
BOX
Da un dialogo con
una paziente l'idea che ha dato avvio al libro
Come tanti libri,
L'imperatore del male è nato per caso. Racconta infatti
l'autore, l'oncologo indiano ( trapiantato negli Stati Uniti)
Siddharta Mukherjee che l'idea di scrivere una «biografia del
cancro» gli è venuta parlando con una paziente affetta da tumore
allo stomaco: «Sono pronta a combattere - ha detto la donna al
medico - ma devo conoscere bene quello contro cui mi sto battendo».
«È stato un momento imbarazzante», ha commentato poi Mukherjee,
«perché mi sono reso conto che non avrei potuto indicarle nessun
titolo adatto». Così l'oncologo, che è professore associato alla
Facoltà di medicina della Columbia University, ha cominciato a
scrivere il libro mancante, seguendo una pratica che lui stesso
definisce «di totale indisciplina», cinque minuti un giorno, dieci
l'altro, finché il testo non è stato chiuso. Con risultati più che
soddisfacenti, visto che «L'imperatore del male» gli ha fatto
vincere il Pulitzer.
il manifesto, 10 novembre
2011
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