Articolo vecchio di un
anno e più. Nel frattempo c'è stato un altro Davos, ma non mi pare
che il problema sia entrato nell'agenda politica, men che mai con il
nuovo governo. I sovranisti se la prendono con i poveracci che
vengono, non con i capitali che vanno. (S.L.L.)
L'Applepark di Cupertino, detto l'Astronave |
Distratti dall’arrivo
di Donald Trump, i manager presenti all’ultimo Forum di Davos
andrebbero perdonati nel caso si fossero persi un dettaglio: vale 627
miliardi di euro la base imponibile nascosta solo nel 2015 da poche
grandi multinazionali al fisco di Paesi come Germania, Francia e
Italia (e vari altri). In quell’anno - uno fra i molti nei quali
gli stessi fenomeni si ripetono - è di duecento miliardi di euro il
gettito sottratto ai governi attraverso la rete dei paradisi fiscali.
Per compensare l’ammanco, hanno dunque dovuto versare più tasse i
normali lavoratori dipendenti o autonomi, i pensionati e anche -
attraverso l’Iva sui beni di consumo - le persone i cui redditi
sono così bassi da restare al di sotto delle soglie tassabili.
Il danno per
l’Italia
Per l’Italia, il
trasferimento artificiale all’estero dei ricavi alcune grandi
multinazionali ha prodotto nel 2015 un’erosione di quasi un quarto
della base imponibile del prelievo sulle società: 7,4 miliardi di
euro in tutto, una perdita di 0,5% del reddito nazionale sul 2015 che
con ogni probabilità si sta riproducendo ogni anno. In media, i
Paesi dell’Unione Europea perdono così circa un quinto delle
entrate alle quali avrebbero titolo dalle imprese. Ma non va
malamente allo stesso modo per tutti. I tre più grandi paradisi
fiscali per le grandissime imprese non sono infatti annidati in
qualche isola dei Caraibi o dell’Oceano Pacifico. Al contrario,
prosperano in gran parte indisturbati nel cuore della zona euro:
Olanda, Lussemburgo e Irlanda sono tre piccoli Paesi - poco più del
6% della popolazione dell’unione monetaria - ma rappresentano nel
complesso quasi metà dell’elusione fiscale internazionale delle
grandi società. In gran parte questi tre Paesi operano in questo
modo direttamente a danno degli altri, gli stessi con i quali
condividono la moneta e severe regole di vigilanza sui bilanci
pubblici.
L’occasione per
parlarne è arrivata qualche giorno fa, a Davos, in un incontro sui
paradisi fiscali. È allora che sono stati presentati i risultati di
uno studio pubblicato due mesi fa da tre economisti: Thomas Tørsløv
e Ludvig Wier dell’Università di Copenaghen, insieme a Gabriel
Zucman dell’Università di California a Berkeley. I tre hanno
appena portato a termine un lavoro da veri e propri detective del
sistema di contabilità internazionale. Il loro obiettivo era
calcolare l’impatto dell’elusione da parte di grandi gruppi come
Apple, Facebook, Amazon, Google-Alphabet o Nike. Non è un compito
facile, che infatti sfugge in gran parte agli stessi governi.
Risultano infatti invisibili molti degli spostamenti ad arte di utili
dal Paese in cui sono stati realizzati a un Paese che offre aliquote
effettive quasi a zero, in primo luogo perché vengono registrati
come proventi da attività intangibili: brevetti, ricerca e sviluppo,
importazione di servizi. Non per niente, i tre studiosi notano alcuni
paradossi nella contabilità di Nike, Facebook, Apple e Google. In
ciascuno di questi gruppi, la somma dei profitti realizzati dalle
società controllate - così come visibile nella banca dati Orbis di
Bureau Van Dijk-Moody’s - bizzarramente risulta pari a una frazione
minima dei profitti consolidati globali. Il caso più estremo è
Facebook, i cui profitti del 2015 sono di circa 11 miliardi di euro
ma la somma dei ricavi tassabili di tutte le sussidiarie resta a
zero.
Per individuare la reale
situazione Tørsløv, Wier e Zucman cercano indizi nella quantità di
ricavi tassabili in proporzione al monte-salari dei dipendenti in
ogni dato Paese: i profitti trasferiti artificialmente infatti
gonfiano il bilancio, ma non il numero dei dipendenti. I tre indagano
anche per capire in quali Paesi risultano la quota di profitti in
mano agli stranieri sia curiosamente fuori proporzione e studiano le
comunicazioni (obbligatorie) a Eurostat di tutti i Paesi europei
sulla contabilità aggregata delle imprese.
Le accuse
all’Olanda
Alla fine vengono fuori
conferme impressionanti sui soliti sospetti. Il Lussemburgo, con
aliquote bassissime su una base imponibile tanto artificiale quanto
sterminata, presenta profitti societari tassabili pari a sette volte
le medie europee (in rapporto al monte-salari). Del tutto fuori linea
anche Irlanda e Olanda. Questi tre Paesi nel 2015 pesano da soli per
293 miliardi di euro di base imponibile societaria sottratta al resto
del mondo, più di cento miliardi ciascuna per Irlanda e Olanda. Poco
importa che proprio il governo dell’Aia sia stato in prima linea
dall’inizio della crisi nell’esigere rigore di bilancio agli
stessi Paesi ai quali nel frattempo sottraeva decine di miliardi di
entrate fiscali. Ai grandi gruppi bastava registrare nei Paesi Bassi
profitti realizzati nel resto d’Europa sulla vendita di servizi
definiti «intangibili», perché digitali. Questi ricavi fatti
apparire in Olanda con aliquote quasi a zero sono così vasti che
l’avanzo estero del piccolo Paese sull’estero (80 miliardi di
dollari) si avvicina ormai a quello della Cina (120 miliardi).
Il paradosso di
Dublino
Dell’Irlanda era
presente all’incontro di Davos il ministro delle Finanze Paschal
Donohoe. Davide Serra, il fondatore del fondo Algebris, gli ha
presentato le proprie stime sulla contabilità dei rapporti di
Dublino con l’Unione europea dal momento dell’ingresso 40 anni
fa: si contano 150 milioni di euro di trasferimenti netti
dall’Irlanda al resto d’Europa, attraverso il bilancio
comunitario; e 200 miliardi di elusione innescata da Dublino a danno
degli altri Paesi. È celebre il caso di Apple, la cui aliquota
effettiva ritagliata ad hoc era dello 0,005% nel 2014 (il gruppo di
Cupertino di recente ha accettato una transazione). Meno noto invece
il caso di Google, presentato da Serra a Davos. Nel 2015 il gruppo di
Menlo Park ha realizzato ricavi per 22,6 miliardi in Europa, Medio
Oriente e Africa. Tutte le entrate sono emerse contabilmente in
Irlanda. Tuttavia, fra «diritti di proprietà intellettuale» pagati
a altre controllate dello stesso gruppo e varie deduzioni, alla fine
Google ha pagato solo 48 milioni di tasse all’Irlanda e quasi zero
a chiunque altro. Si tratta un’aliquota effettiva dello 0,2% sui
redditi. Sono operazioni del genere, secondo i tre studiosi di
Copenaghen e Berkeley, a produrre ormai distorsioni immense: due
terzi dei profitti esteri delle multinazionali americane nel 2015 (e
il 45% di quelle di tutto il mondo) slittano verso i paradisi
fiscali. E sulle spalle dei contribuenti ordinari degli Stati Uniti e
dell’Europa pesano 60 miliardi di euro in più da pagare al posto
di chi elude.
Corriere della Sera, 29
gennaio 2018
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