Trump con Conte |
Nel 1970 Donald Trump
viveva nel Queens, il quartiere in cui il padre Fred aveva costruito
la propria fortuna immobiliare. La sua ambizione era però quella di
entrare nei giri delle élite di Manhattan che frequentavano il Le
Club, il più esclusivo tra i locali notturni di New York, e che
erano soliti chiamare la gente dei sobborghi come Donald “bridge
and tunnel people”, per rimarcare una distanza scritta anche nella
conformazione geografica della città. Il giovane Trump fu respinto
diverse volte alla porta d'ingresso, ma non si scoraggiò e anzi il
rifiuto non fece che accrescere la sua motivazione. E siccome
nell'idea di America portata avanti dal futuro presidente, e non solo
da lui purtroppo, è sufficiente essere davvero convinti di qualcosa
per ottenerla, riuscì in virtù della propria straordinaria forza di
volontà, stando alla versione riportata nell'Arte di fare affari,
a convincere i buttafuori a lasciarlo entrare. Da quel giorno diventò
un cliente abituale del Le Club, dimostrando di essersi meritato il
proprio posto nell'alta società. A colmare il baratro tra volere e
potere fu quasi certamente la disponibilità economica di “The
Donald”, alla lunga ben più importante dello scarso gusto e dei
modi rozzi che facevano arricciare il naso alla raffinata clientela
dell'isola di Manhattan.
A interessarci di
quell'ambiente è un personaggio che Trump incontrò nel buio molto
esclusivo di quelle stanze nell'East Side, un uomo che avrebbe
contribuito a plasmarlo e sarebbe diventato, ancora secondo le sue
parole, un mentore e un padre putativo: Roy Cohn. Cohn era all'epoca
un noto avvocato legato ad alcune delle più importanti famiglie
mafiose di New York, che avrebbero in futuro aiutato Trump a ottenere
favori molto utili sia nel campo delle costruzioni sia nel business
dei casinò. Ma non si diventa padre di qualcuno soltanto facendo ciò
che uno tra i tanti avvocati newyorkesi vicini alla mafia avrebbe
potuto fare. C'è qualcosa di più profondo, e di profondamente
americano, ad aver attratto Cohn e Trump: un'affinità elettiva che
risiede nel mondo che il primo ha contribuito a preparare per il
secondo. Cohn occupava infatti un posto rilevante nella storia degli
Usa, e del cinema hollywoodiano, ben prima di incontrare Donald
Trump. Nel 1951, dopo essersi distinto per i metodi d'interrogatorio
particolarmente convincenti nel processo che aveva portato alla
condanna a morte dei coniugi Rosenberg, era entrato a far parte, su
consiglio di Edgard J. Hoover, della squadra di avvocati schierata da
Joseph McCarthy per stanare i comunisti nascosti nel paese,
diventando in poco tempo il braccio destro del senatore del
Wisconsin. Spesso si associano l'House Committee on Un-American
Activities (Huac) e l'Homeland Security Committee (guidato da
McCarthy) a un'irrazionale fobia nei confronti dei comunisti sorta
agli inizi della guerra fredda, oppure alla follia di un singolo
invasato. In realtà il lavoro congiunto di entrambe le commissioni
ha radici ben più capillari, che affondano nella reazione a una
serie di cambiamenti radicali avvenuti in America durante gli anni
trenta. Il legame tra Cohn e Trump si annida in quello che McCarthy e
l'Huac andarono a definire, in maniera programmatica, come
“antiamericano”, e nel modo in cui i loro interrogatori avrebbero
mutato il paese nel decennio successivo e nel resto del secolo.
Il laboratorio
sperimentale dell'attività dell'Huac e delle udienze presiedute da
McCarthy fu Hollywood; non c'è luogo migliore del cinema per dare un
corpo meno allegorico a una strega rossa. E non ci sono parole più
efficaci per svelarlo di quelle di Ronald Reagan, allora attore in
film non proprio tra i più memorabili del periodo. Reagan non si
limitò, come molti, a collaborare con le commissioni d'inchiesta ma
prese anche parte a una spontanea mobilitazione in difesa dei valori
della tradizione statunitense, dichiarando che non si sarebbero più
dovute vedere sullo schermo tante storie con dei falliti come
protagonisti. Rivelando che la colpa di molti registi, sceneggiatori
e produttori non era quella di aver preso la tessera del Pcus dopo
troppi martini cocktail a una festa di Beverly Hills. Così come non
davano fastidio i pochi film che direttamente mostravano simpatia per
“i rossi”; spesso invece costruiti secondo una retorica
individualista piuttosto rassicurante. A finire sotto accusa furono
soprattutto una serie di personalità colpevoli di aver portato a
Hollywood un malinconico senso di sconforto che nel corso del
decennio 1930-1940 si era diffuso dalla cultura alta a molti ambiti
della cultura di massa. L'obiettivo delle indagini era estirpare
dalla coscienza nazionale quanto la Grande Depressione e la
presidenza Roosevelt avevano insegnato all'America, ovvero accettare
il fallimento non come un peccato da espiare ma come una condizione
esistenziale con la quale più o meno tutti dovevano fare i conti. Il
disegno della Huac e di McCarthy andava oltre il contesto
hollywoodiano ed era volto a cancellare l'eredità della Depressione
e del New Deal, si trattasse dei personaggi disillusi dei noir oppure
dei funzionari che avevano svolto un ruolo rilevante nelle agenzie di
sostegno statale all'economia. I falliti negli anni cinquanta non
avrebbero dovuto più avere diritto di cittadinanza, politico o
simbolico, in America, e sarebbero tornati ai margini da cui erano
stati in parte liberati; per la felicità di Reagan che contribuì
poi da presidente alla criminalizzazione del fallimento grazie alla
sua strenua crociata contro la droga, che all'atto pratico contribuì
solo a riempire oltre ogni limite le carceri americane di piccoli
spacciatori e consumatori, “disperati” e perlopiù, casualmente,
neri (a questo proposito si veda il meraviglioso documentario
candidato agli Oscar del 2017 XIII emendamento di Ava DuVernay
disponibile su Netflix).
Tornando alla New York
degli anni settanta quando Cohn parlò con Trump per la prima volta
al Le Club capì di trovarsi davanti a un frutto dello zelante lavoro
svolto da lui e dal senatore McCarthy. Un giovane rampante divorato
da una smisurata ambizione, figlio di un imprenditore arricchitosi
speculando sulle macerie del sistema di edilizia popolare immaginato
dall'amministrazione Roosevelt e distrutto da chi era venuto dopo. Un
prodotto confezionato alla perfezione dagli anni cinquanta.
L'avvocato Cohn a quella “sua creazione” impartì due lezioni che
gli sarebbero state utili in ogni situazione, dalle tante cause
legali intentate contro di lui alla campagna elettorale: non
mostrarti mai debole e rivendica il tuo successo prima di ogni cosa.
Cohn sapeva che tutti sarebbero caduti in quello che Frederick Exley
ha definito, parlando proprio degli anni cinquanta in Appunti di un
tifoso, l'errore americano di far coincidere la realizzazione
personale con una qualche qualità morale; lo sapeva perché aveva
contribuito lui stesso a ristabilire quell'ordine etico. La vita da
affarista di Trump, così come la sua corsa alla presidenza, sono
state caratterizzate da una continua auto-apologia della propria
affermazione, di fronte alla quale nessuno ha saputo opporre alcuna
significativa resistenza. Non lo hanno fatto le banche disposte a
chiudere più di un occhio davanti a debiti multimilionari. Non lo
hanno fatto le commissioni federali per il gioco d'azzardo. Ma
soprattutto non lo hanno fatto i suoi avversari politici, che al
massimo sono stati capaci di storcere il naso come i raffinati
avventori del Le Club, limitandosi a rimarcare quanto fosse volgare e
inadeguato l'ospite inatteso. In un paese che ha perso il proprio
posto al centro del mondo e prova una paura di precipitare che
nessuna statistica economica può esprimere (lo possono però fare,
molto bene, i reportage di George Packer raccolti in I frantumi
dell'America), e a un candidato presidente il cui insulto
preferito è “loser”, gli avversari di Trump in campagna
elettorale non hanno saputo far altro che raccontare un'altra
versione della sua favola (L'America è già grande). Perché quelli
che sono stati chiamati a opporsi al “mostro” sono in fondo figli
della stessa dismissione dell'eredità politica e retorica del New
Deal, che negli ultimi cinquant'anni anche i democratici hanno
stigmatizzato come un fardello illiberale e populista da cui
liberarsi (si veda a questo proposito il lucido articolo Democrats
Killed Their Populist Soul dello storico dell'economia Matt
Stoller su “The Atlantic”). Ripetendo come un mantra il titolo di
un romanzo distopico di Sinclair Lewis, in molti prima delle elezioni
americane si sono detti “non può accadere qui”; e hanno
continuato a farlo dopo, a caccia di paragoni distanti e complotti
che li rassicurassero. Ma forse era tutto già successo, proprio in
America, e proprio a partire dal cuore dell'immaginario di un secolo
dato per chiuso con troppo anticipo.
L'Indice, Marzo 2017
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