17.2.19

Stendhal cronista. Passioni assolute con conseguenze ferali (Rossana Rossanda)

             
Negli archivi di Palazzo Caetani, a Roma, lo scrittore francese trovò, nell'inverno1833-34, una raccolta di testi redatti da anonimi, tra il XVI e il XVII secolo. Erano scritti «in una specie di gergo», lui li copiò e li tradusse fedelmente, trascinato dalle storie d'amore e dagli intrighi pontifici. Nella collana i Grandi Testi, che ci accompagna da una vita, Garzanti pubblica le Cronache italiane di Stendhal, a cura di Lanfranco Binni, mettendo in appendice due dei manoscritti cinquecenteschi, ora alla Bibliothèque Nationale di Parigi, dai quali alcune Cronache sono tratte. Peccato che non siano tutte, e soltanto, quelle.
Le Chroniques sono una raccolta postuma, e si può dubitare che Stendhal l'avrebbe approvata. Aveva trovato i manoscritti verso la fatale cinquantina, ne aveva letto molti ma «tradotto» e mandato alla “Revue des Deux Mondes” soltanto tre di quelle «historiettes», Vittoria Accoramboni, L'Abbesse de Castro e Les Cenci. E aveva firmato con uno pseudonimo, perché i papi non vi fanno bella figura e finché restava negli Stati Pontifici, console a Civitavecchia, prendeva le sue precauzioni. Le pubblicava tutte tre a suo nome soltanto nel 1839 (Dumont) per ragioni pecuniarie.


Sollecitazioni della fantasia
Ma le note di sua mano su quei vecchi fogli indicano che aveva pensato di pubblicarne diverse, per ordine cronologico; aveva preparato piani e prefazioni e titoli (forse «Tragici racconti»), e annotato saporosi commenti a margine. Quelle storie gli sollecitano la fantasia: da Vittoria Accoramboni, arrampicatrice sociale che finisce malissimo, pensa che si potrebbe trarre qualcosa di simile a That of Julien (Sorel de Il Rosso e il Nero) e da un abbozzo per la storia dei Farnese progetta un «romanzetto», e sarà niente meno che La Certosa di Parma.
Soltanto ventitré anni dopo la sua morte, un'edizione dà il nome di Chroniques italiennes ai tre racconti da lui pubblicati, ma vi aggiunge La duchesse de Palliano, che non lo soddisfaceva («Chi non sa limitarsi non sa scrivere») e l'incompiuto Trop de faveur tue, ambedue tratti dai manoscritti. Ma anche racconti che con essi non hanno nulla a che fare; un'ingarbugliata e gotica Suora Scolastica, storia settecentesca narratagli più tardi a Napoli dall'amico Domenico Fiore («ieri sera al Café Anglais») e due scritte prima del 1833, San Francesco a Ripa (originariamente «Santa Maria Romana») e Vanina Vanini; vicenda contemporanea di carbonari.
A giustificare la raccolta di materiali, così diversi per tempo e struttura, sarebbe un tema comune: l'assolutezza delle passioni di cui sono capaci gli italiani, con esiti perlopiù ferali, mentre per i frivoli francesi conta soprattutto l'apparire. Tesi che Stendhal aveva sviluppato fin dal 1819 nel saggio De l'amour, del quale poco dopo San Francesco a Ripa sembra l'illustrazione: una depressiva principessa romana si vendica di un amato incostistente cavaliere francese facendolo assistere al suo proprio funerale prima di cadere steso a schioppettate.
Ammesso che abbia senso una scelta come quella delle Chroniques, è certo che essa offusca l'essenziale, l'essere il lavoro sui manoscritti cinquecenteschi un osservatorio prezioso del processo creativo in Stendhal. Quelli che ha utilizzato, quel «tradurli» tagliando e aggiungendo, i progetti irrealizzati, meriterebbero di essere pubblicati a parte. Vi ha lavorato per anni, prendendoli e lasciandoli, persuaso che quel linguaggio grezzo, cancellieresco o popolare («non sanno descrivere un fatto orribile senza spiegare che è orribile») ha un impatto che manca a materiali più elaborati. Il che non impedisce che a momenti lo annoino, se una volta, nelle divertenti note bilingui per sé, gli scappa di definirli «these coglionerie».
E tuttavia non le mollerà mai, quelle coglionerie, perché lo affascinano non solo i fedelissimi amori - lui è stato lasciato da tutte le donne cui teneva - ma gli intrighi delle corti, soprattutto pontificie, che ne sono lo sfondo. La pervasività della chiesa eccita il suo anticlericalismo. Se dovesse scegliere fra i documenti che desidererebbe conoscere, a tutti preferirebbe le carte dei processi indetti dai vescovi. Chissà che avrebbe fatto di quello di Virginia de Leyva e Gianpaolo Osio, pochi anni prima concesso in lettura al suo contemporaneo Manzoni. La monacazione forzata di diverse sue eroine è la stessa subita dalla Signora di Monza, esse se ne dolgono con gli stessi argomenti e se sgarrano finiscono ugualmente murate negli «in pace» dei monasteri. E quando non sono spedite in convento, sono recluse da mariti o padri, e facilmente fatte fuori da esecuzioni pubbliche, come Beatrice Cenci, o private, come la Duchessa di Palliano o Vittoria Accoramboni.
È così forte per Stendhal il fascino dei chiaroscuri italiani, dei quali l'incarico di Civitavecchia gli permette di osservare gli ultimi fuochi - è passato Napoleone e parte dell'Italia cambierà -, che nel 1838 sta lavorando alla Badessa di Castro quando si interrompe per scrivere torrenzialmente, in ottobre e novembre, la Chartreuse de Parme che uscirà nell'aprile seguente: quando si dice un instant book. Il paesaggio è, più che quello di Parma, dell'amata Lombardia, ma alla corte dei Farnese non mancano intrighi pari a quelli romani, cospirazioni, fughe, assassini, nascondimenti, abati e vescovi, ricatti, prigioni - di tutto e di troppo, una supercronaca italiana. Sulla quale si stagliano tre figure moderne: il giovane Fabrizio del Dongo sempre in corsa verso un essenziale che gli sfugge, l'invidiabile conte Mosca, la splendida Sanseverina, che non ha precedenti né troppi seguaci nelle figure letterarie femminili.

Più e meno di un ricordo
È come se Stendhal dovesse essere impressionato da qualcosa di esterno per liberarsi nella scrittura. Nella Vie de Henri Brulard, che è poi la sua infanzia e giovinezza, gli sfuggono le date e si confonde sui tempi, ma la sensazione ricevuta resta viva e perfetta. Come la vista su Roma, un certo giorno trasparente, da San Pietro in Montorio, nettissima e impossibile, fra saputo e immaginato, più e meno d'un ricordo. Come il saltare della gaia giovane madre oltre il suo giaciglio di bimbetto, adorata mamma che perderà a sette anni. Delle sue eroine, osserva Beatrice Didier (Parigi 1977), non descrive un solo lineamento, le fa bellissime per la gaiezza insopprimibile finché sono fanciulle, prima che qualcuno le soffochi in senso proprio o figurato. Tutte hanno il fascino e il guizzo delle movenze materne. Poi resterà loro l'orgoglio.
È soltanto questo che trova nei manoscritti, in Beatrice Cenci, nella Felize del Trop de faveur tue, nella duchessa di Palliano, persino in Vittoria Accoramboni. E se per caso non c'è, Stendahl ve lo mette. Per i Cenci ha abbondante materiale, anche se ricama sull'orrido padre, ma insiste sulla coraggiosa parricida, tirata a tanto per capelli, e sulla sanguinosa festa di morte romana. È però sulla Badessa di Castro che il confronto con il manoscritto è stupefacente: quello consiste in poche pagine sulla relazione fra la badessa e un vescovo. Lei ammette, il Vescovo nega, allora lei nega, poi riammette, è tutto un via vai di interrogatori e tratti di corda. Ambedue finiscono in un carcere, perendovi rapidamente.
Che cosa ha attratto Stendhal di questa storiaccia? Nella sua «traduzione» i fatti narrati dal manoscritto occupano sì e no dieci pagine su cento, mentre le altre novanta ci dispiegano un'incantevole fanciulla, i suoi innocenti amori con un bandito (e vasta digressione sul fenomeno), il patetico giuramento fra i due al suono dell'Ave Maria, l'uccisione del fratello di lei da parte dell'amato, i rapporti con le armate del principe Fabrizio Colonna, lei che torna in convento, lui che espugna con i suoi bravi il convento ma finisce male, lei lo crede morto, lui va a combattere per il re di Spagna, mentre la madre di lei mette su tutto un marchingegno per farle credere che è morto davvero, per cui disperata lei si dà alle vanità e al potere, facendo comprare per sé la carica di badessa. Si attira allora nel letto il vescovo che disprezza - e soltanto qui entra il manocritto che si conclude con l'inchiesta e il carcere.

Da un inesistente manoscritto
Ma Stendhal no: invece di morire subito, l'ex badessa scopre che il suo amore è vivo e coperto di gloria, per cui, sconvolta per avergli mancato di fede, e mentre la madre sbuca da una galleria scavata sotto Roma per salvarla, si infigge una daga nel cuore. Stendhal inventa un inesistente manoscritto fiorentino per giustificare il tutto. Si capisce che per strada abbia deciso di depurare tutta questa italianeria nella Certosa. Dopo non la lascia né la porta a termine. Già la Duchessa di Palliano lo stufa, e Suora Scolastica sarebbe stata anche peggio, con quelle monache avvelenate che si contorcono per terra sotto gli occhi del cardinale Cybo. Altre volte a dargli voglia sono le battute, rare e brevi, dei manoscritti. La duchessa di Palliano non batte ciglio quando il fratello le comunica che viene a strangolarla per l'onore della famiglia. La nobildonna si confessa, si comunica, si aggiusta sugli occhi il fazzoletto che il fratello le ha messo in capo. Ma lui si imbroglia tra funi e legni e lei, con calma assoluta: «Che famo?». E Stendhal: «Eh bien, que faisons nous?». Insomma, che facciamo? Quell'icasticità lo incanta talmente che la assegna anche al papa, il quale, informato che il duca di Palliano ha ucciso l'amante, commenta laconico: «E della duchessa che si è fatto?». E all'orrido cardinal Carafa che, visto arrivare quello che lo strangolerà, si siede e dice: «Fate».
Anche in San Francesco a Ripa mortali erano le parole, tanto più in quanto la leggerezza francese non le intende. Ma conta di più la scrittura che le peripezie, attraenti e repellenti, di nobili e coraggiose donne. Stendhal era ormai un uomo maturo nel pieno Ottocento, scettico e dubbioso e ironico. Una Vanina Vanini non l'avrebbe scritta più.

"il manifesto", 4 febbraio 2009

Nessun commento:

statistiche