Si intitolava
semplicemente Come mio padre venne all'antropologia criminale,
il saggio che Gina Ferrero-Lombroso dedicò al padre Cesare e al suo
programma di positivismo applicato all'ambito sociologico, prima
elogiato e infine vituperato dalla comunità scientifica. Pubblicate
nel 1921 dall'editore Bocca di Milano - e subito riprese, come era
d'uso all'epoca, con altro titolo e da altro editore - le note di
Gina ripercorrevano le «scoperte» dello scienziato nato a Verona il
6 novembre del 1835, che, nel corso delle sue ricerche, sosteneva di
avere individuato segreto, origine e misteri della natura criminale.
Fu osservando il cranio del bandito calabrese Giuseppe Villela -
ricorda Gina, divulgatrice di rango che con la sua prosa semplice e
ricca di informazioni stupì persino Filippo Turati - che Cesare
Lombroso maturò una delle sue pricipali convinzioni: l'indice del
potenziale criminogeno e dell'atavismo che rendevano alcuni individui
«delinquenti per natura», quindi insofferenti alla pacifica
comunità dei «normali» si trovava nella fossetta occipitale.
La teoria
dell'atavismo
Nel 1872, quando effettuò
l'autopsia sul cadavere di Vilella, Lombroso riscontrò un'anomalia
nella conformazione cranica del brigante allora settantenne: una
piccola cavità localizzata nella zona dell'occipite. Ne dedusse che
la «fossetta» - non presente a suo dire negli individui comuni -
costituisse una prova di pazzia, di delinquenza o di atavica
brutalità selvaggia. L'atavismo era un'altra delle parole che
Lombroso contribuì a far circolare, sovradeterminandola di
aspettative e di senso, nel panorama scientifico del tardo XIX
secolo. Per la teoria dell'atavismo, certe caratteristiche somatiche,
psichiche e comportamentali dell'individuo si trasmetterebbero di
generazione in generazione, attestando il legame tra il «delinquente
moderno» e uno stadio primitivo e «selvatico» dell'umanità. Come
un Rousseau alla rovescia, impregnato di medicina sperimentale e di
letture darwiniste, Lombroso ricorda - è sempre Gina a riportarne le
parole - come alla vista della conformazione cranica di Vilella,
avendo riscontrato la presenza della tanto vituperata fossetta
occipitale, «il problema della natura del delinquente mi apparve
subitamente illuminato come una vasta pianura sotto un cielo
infinito». Era così giunto alla conclusione - importante per lui,
ma determinante anche per i riflessi e gli echi irriflessi sul
dibattito e le pratiche di un'epoca intera e persino oltre - che
«l'uomo delinquente non era altro che il rappresentate attuale
dell'uomo primitivo e anche dei suoi predecessori».
Nell'atavismo, che più
di una ipotesi era per lui una incontestabile e «scientificamente»
incontrovertibile certezza, Cesare Lombroso segnava il passo di un
progresso che, nelle discipline criminologiche e sociali, cercava
spesso maldestramente di liberarsi dalla metafisica di matrice
religiosa, servendosi a suo modo di Darwin e delle ricerche
sull'evoluzionismo, mischiate con non poca ingenuità e confusione
all'influentissima «legge biogenetica fondamentale» enunciata dal
naturalista tedesco Ernst Heinrich Haeckel. Secondo la legge di
Haeckel, l'atavismo poteva infatti leggersi come derivazione - ai
nostri occhi distorta fin che si vuole - del rapporto tra ontogenesi
e filogenesi dove, semplificando, lo sviluppo di ciascun individuo
ricapitolerebbe lo sviluppo complessivo della specie.
Ogni individuo, preso in
se stesso ma in quanto appartenente alla specie, ricapitolerebbe lo
sviluppo della specie stessa cui appartiene, anche se - e qui sta il
punto - persino in quella umana permarrebbero alcuni individui,
delinquenti e pazzi su tutti, rimasti indietro rispetto al percorso
della specie stessa. Era possibile dunque isolare preventivamente
questi soggetti, individuandone attraverso screening antropometrici
conformazioni craniche e tratti somatici (stigmate) che ne
attesterebbero l'appartenenza a uno stadio regressivo dell'evoluzione
della specie e, di conseguenza, intervenire anche sul piano del
controllo sociale e della repressione. I delinquenti non esercitavano
dunque, secondo Lombroso e la sua «scuola positiva», la loro
«criminalità» per un deliberato atto di scelta morale, ma perché
spinti da una congenita indifferenza il cui indice principale era
l'assoluta insensibilità al dolore, proprio e altrui, e la tendenza
a tatuarsi il corpo, come nei selvaggi.
Lo studio del
criminale-nato, osserverà Lombroso tra le pagine di uno dei suoi
lavori più noti e influenti, L'uomo delinquente, poteva dar luogo a
un «progresso» contro l'oscurantismo metafisico delle scienze
criminali e umane in genere. Come? Semplicemente sottraendo allo
studio e alla repressione del «delitto astratto», l'individuazione
e lo studio del «delinquente», intervendo non sulla mistica della
«malvagità» del reo, ma su una a questo punto ben più concreta
«pericolosità sociale» preventiva. «L'esame del delinquente fatto
dall'antropologia criminale» - scriveva a questo proposito Lombroso
- «ha stabilito trovarsi in questi, massime nel suo tipo più
caratteristico, una quantità di caratteri abnormi, anatomici,
biologici e psicologici, molti dei quali hanno significato atavico,
perché ripetono le forme proprie degli antenati anche pre-umani
dell'uomo. E siccome a questi caratteri atavici si associano tendenze
e manifestazioni criminose, e queste sono normali e frequentissime
negli animali e nei popoli primitivi e selvaggi, così è legittimo
concludere che anche nei criminali queste tendenze siano naturali,
nel senso che dipendono necessariamente dalla loro organizzazione,
analoga, per inferiorità di struttura e di funzioni fisiche e
psichiche, a quella dei popoli primitivi e dei selvaggi e qualche
volta degli animali».
Comunque lo si voglia
giudicare, per quanto caricaturali appaiano certe sue posizioni, sia
nel campo delle scienze criminologiche, sia in quello della
psicologia sociale tout court Lombroso rappresenta a tutt'oggi un
nervo scoperto per un certo positivismo mal compreso. Progressista
nelle intenzioni, probabilmente reazionario nei fatti, nel corso di
un decennio Lombroso suscitò un vero e proprio «movimento» di
individuazione, catalogazione e analisi delle stigmate della devianza
(fossette occipitali e tatuaggi su tutti) che, oltre a essere
osservati sul corpo di detenuti, briganti, camorristi o semplici
«imbecilli», venivano debitamente fotografati e ritagliati dai
cadaveri, puntati su tavolette con degli spilli e inviate a Torino,
nel museo a cui lo stesso Lombroso stava dando vita.
In mostra i corpi
del reato
Fondato da Lombroso nel
1876, l'anno della prima edizione dell'Uomo delinquente, il Museo di
antropologia criminale di Torino nacque come collezione privata e fu
allestito al numero 18 di via Po, nelle sale del Laboratorio di
Medicina legale dell'Università. Il primo nucleo della collezione,
avrebbe scritto Lombroso in un articolo pubblicato sulla
«Illustrazione italiana» nel 1906, risaliva proprio ai suoi studi
degli anni sessanta del XIX secolo e prese i suoi modelli
dall'esercito:«avendovi vissuto parecchi anni come medico militare,
prima nel '59 e nel '66 ebbi campo di misurare craniologicamente
migliaia di soldati italiani e raccoglierne inoltre crani e
cervelli». Lombroso non esiterà a descrivere i materiali reperiti
nelle carceri, nei manicomi e negli obitori - circonferenze craniche,
pugnali camuffati da crocifissi, nodi scorsoi, ma anche bellissimi
mobili intarsiati da mattoidi, vasi, ricostruzioni di scene del
crimine e insospettabili «corpi del reato», ma anche feti e lembi
di pelle tatuata, il cui stato di conservazione è alquanto
problematico - come «poveri trofei», raccolti «prima in una camera
da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una
specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino.
E finalmente nel '99
nelle ampie sale del Museo Psichiatrico criminale, nei nuovi
laboratori biologici nella Università di Torino». Riaperto il 27
novembre scorso in occasione del centenario della morte di Lombroso,
dopo anni di lavori, fra le sue collezioni il Museo di Antropologia
Criminale oggi situato in via Pietro Giuria 15, e sovrainteso da
Silvano Montaldo raccoglie preparati anatomici, disegni, fotografie,
scritti e manufatti di internati nei manicomi e nelle carceri del
Regno d'Italia, presentandosi quasi come un palinsesto della
mentalità dell'epoca e della mente di uno dei suoi più illustri e,
al tempo stesso, più contraddittori interpreti. Ironia della sorte,
tra i molti reperti conservati, non ultimo è lo stigma dello stesso
Lombroso, che per testamento dispose la propria decapitazione
post-mortem e la conservazione del proprio cervello in una teca
ricolma di positivissima formalina.
“il manifesto”, 5
gennaio 2010
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