Benché risalga a quasi
due anni fa, l'articolo che segue, e che prende spunto da un libro di
Balibar, mi sembra contenere una proposta politica attualissima,
sulla quale sollecito una riflessione. (S.L.L.)
Ida Domimijanni |
Scrive Roberto Esposito
(Da fuori, Einaudi 2016) che nel corso della sua storia
l'Europa ha sempre risolto - o tagliato - i nodi aggrovigliati della
sua identità sporgendosi su un “fuori”, o in forza
dell'irruzione di un “fuori” nei suoi confini. L'accelerazione
impressa alla crisi europea dall'elezione di Donald Trump alla
presidenza americana sembra confermare questa tesi, avvalorata del
resto, e a maggior ragione, dall'impatto esplosivo sulle nostre
democrazie di un altro fuori, quello delle masse di rifugiati e
migranti che non smettono di riversarsi nel vecchio continente a
dispetto dei muri innalzati, o minacciati o fantasticati, contro di
loro. Senonché si tratta, in entrambi i casi, di due “fuori” per
modo di dire, che emergono in realtà dentro l'Europa, se è vero che
Trump è il corrispettivo americano delle derive
nazional-protezioniste che minacciano dall'interno la costruzione
dell'Unione, e che l'immigrazione è l'effetto della sciagurata
storia del colonialismo e della politica mediorientale europee. Sì
che si potrebbe ipotizzare, portando alle estreme conseguenze la tesi
di Esposito, che se l'Europa di oggi non scioglie e non taglia i suoi
nodi interni è perché nel mondo globale un fuori non c'è più:
qualunque esterno è anche un interno, il primo confine a saltare
essendo precisamente quello fra fuori e dentro. Tanto più nel caso
dell'Europa: un continente che non ha frontiere ma è essa stessa una
frontiera, porosa, in cui irrompono tutte le contraddizioni della
globalizzazione.
Una borderland,
come la definisce Étienne Balibar in Crisi e fine dell'Europa?
(Bollati Boringhieri, Torino 2016), un volume che raccoglie i suoi
interventi sulla crisi della costruzione europea scritti nel vivo
degli eventi degli ultimi sei anni: prima fra tutti, per il suo
carattere sintomatico, la crisi greca, ma anche quella italiana del
2011, quella innescata dalla brexit, quella in cui si dibatte la
Francia duramente provata dal terrorismo.
Una lettura filosofica
della cronaca che sviluppa le categorie già elaborate da Balibar in
precedenza (cfr. almeno Noi, cittadini d'Europa?,
manifestolibri, 2004 e La Proposition de l'égaliberté, Puf,
2010), smontando le contraddizioni e le ripetizioni in cui il
dibattito pubblico sui destini dell'Europa resta impantanato mentre
si celebra il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma.
Che si prospetti per la
Ue un futuro a due velocità come ha fatto di recente Angela Merkel,
o che si reagisca al protezionismo di Trump ribadendo l'intangibilità
dell'impianto liberoscambista dei trattati come ha fatto Mario
Draghi, non cambia infatti la lingua, interamente contrassegnata dal
codice economico, del discorso europeista mainstream. Manca la
prospettiva storica, e con essa l'autocritica della politica: la
sequenza delle tre fasi della costruzione europea (dalla Ceca alla
crisi petrolifera del 1973, dal 1973 all'unificazione tedesca nel
1990, dall'allargamento a Est alla crisi economico-finanziaria del
2007) mostra infatti in modo incontrovertibile il sodalizio fra
economia e politica che ha dato all'Europa il profilo ordoliberale
che tuttora la connota, spostandone progressivamente l'asse dal
welfare e dalle costituzioni del dopoguerra al principio della
concorrenza fra stati e fra popolazioni, un principio diventato dogma
dopo il crollo del socialismo reale e puntellato nell'ultimo decennio
dal ricatto del debito e dalla disciplina dell'austerità (si veda,
su questa sequenza storica e sul ruolo giocato al suo interno
dall'ordoliberismo nell'imporre l'egemonia del modello tedesco, il
recente Rottamare Maastricht, a cura di Leonardo Paggi,
Deriveapprodi, 2016).
Manca soprattutto, nel
discorso europeista mainstream, il criterio democratico come
metro di misura dello stato dell'Unione. Che è invece il criterio
centrale del discorso di Balibar, dove la malattia dell'Europa ha un
nome preciso, deficit di legittimazione, e si può curare solo con un
movimento di democratizzazione che coinvolga contemporaneamente la
dimensione nazionale e quella sovranazionale, e travolga quei confini
esterni e interni, territoriali, nazionali, identitari, che le
attuali derive sovraniste puntano invece a ripristinare.
Intendiamoci, “democrazia” è oggi, come tutti i lemmi del
lessico politico moderno, una parola usurata e scivolosa, e infatti
Balibar ci mette subito in guardia dall'uso contraddittorio che può
esserne fatto nel tempo in cui i concetti correlati di “politica”,
“stato”, “rappresentanza” rinviano a realtà in profonda e
ambivalente trasformazione. Si tratta perciò di ripensare, anzi di
reinventare la democrazia europea guardando senza paraocchi questa
trasformazione.
Che cos'è oggi, intanto,
l'Unione europea, la sua costituzione formale e materiale? E che
cos'è la crisi del progetto europeo? Si tratta di una crisi, o
piuttosto di una fine? “La fine è già avvenuta”, scrive senza
infingimenti Balibar: nelle sue forme attuali, l'Europa è diventata
di fatto ingovernabile, perché se per un verso non è mai decollata
la costruzione istituzionale di una democrazia sovranazionale, per
l'altro verso la governance neoliberale che ha preteso di sostituirla
non riesce più a imporsi come “rivoluzione dall'alto” su un
continente devastato dalla crisi economica, sociale, politica.
All'esito dei suoi sessant'anni di storia, l'unione (non) è
governata da un potere occulto e informale, “introvabile”, con
una Commissione incapace di iniziativa politica e di mediazione, un
parlamento senza voce, un Eurogruppo privo di legittimità formale:
un regime post-democratico, come lo ha definito Jurgen Habermas,
senza rappresentanza, partecipazione e controllo dei cittadini; uno
“pseudofederalismo” con la faccia odiosa di uno statalismo senza
stato, incapace di contenere le potenti spinte disgregatrici
innescate dalle crisi del debito e dei migranti. Due crisi
interconnesse, perché se la prima porta a compimento la
precarizzazione delle società nazionali realizzata da decenni di
politiche neoliberiste, la seconda canalizza questo disfacimento del
legame sociale nella guerra degli insider contro gli outsider, degli
inclusi contro gli esclusi, dei nativi contro i nomadi.
La radiografia
dell'Europa restituisce dunque un processo accelerato di
de-democratizzazione, per usare un termine caro a una studiosa
americana del neoliberalismo e dei suoi effetti come Wendy Brown
(Undoing the Demos, Zone Books, 2015). E l'invocazione del
demos europeo, che ha accompagnato i tentativi minoritari e
fallimentari di dare all'Unione un assetto istituzionale coerente con
il costituzionalismo dei paesi fondatori, suona oggi fuori tempo
massimo: il demos europeo manca perché ne è stata
programmaticamente impedita la costruzione dalla “lunga resistenza
conservatrice” che ha concepito l'Unione come una macchina
tecnocratica alimentata dal carburante neoliberista, una macchina che
ha disfatto i popoli nazionali cementati dallo stato sociale
novecentesco impedendo al contempo - fra l'altro con l'assenza di
politiche formative, prima fra tutte una politica di apprendimento e
socializzazione delle lingue - la crescita di un popolo
sovranazionale in grado di esercitare un qualche controllo dal basso
sulla macchina di Bruxelles. Sì che oggi il problema si presenta
rovesciato: la costruzione del demos europeo resta all'ordine del
giorno, ma deve confrontarsi con i populismi neo-sovranisti e
neo-nazionalisti che pretendono di ripristinare l'allineamento fra
popolo, nazione e stato spezzato irreversibilmente dalla
globalizzazione.
La democratizzazione
dell'Europa, “l'invenzione democratica” che Balibar auspica, deve
dunque passare attraverso due mosse preliminari, concettuali e
politiche. La prima: separare l'istanza popolare di voce,
rappresentanza e partecipazione dalla connotazione nazionalista e
xenofoba che essa assume nei movimenti populisti e nazionalisti che
oggi affollano la scena europea, contrapponendo a questi ultimi un
contropopulismo - così lo chiama Balibar - transnazionale, cioè una
mobilitazione di cittadinanza attiva imperniata non sul ripristino ma
sull'attraversamento dei confini, dove si gioca oggi - con i migranti
da un lato e con l'internazionalizzazione necessaria delle lotte per
il lavoro, l'ambiente, i diritti dall'altro - il vero allargamento
demografico e democratico dell'Unione.
La seconda mossa consiste
nello smontare la falsa opposizione fra il federalismo degli
europeisti e il sovranismo degli antieuropeisti: due discorsi
immaginari, il primo perché si appella a un federalismo a venire
rimuovendo i guasti dello pseudofederalismo realizzato, il secondo
perché coltiva l'illusione di uno stato nazionale tuttora garante
della cittadinanza sociale, laddove esso funziona ormai “come
spettatore impotente del suo degrado o come strumento zelante della
sua decostruzione”. L'idea di un ritorno alla sovranità nazionale,
agitata oggi da destra e da sinistra come via d'uscita dalla gabbia
dell'Unione, è dunque infondata e pericolosa: dalla costruzione
europea, per quanto impantanata essa sia, non si torna indietro (come
non si torna indietro dalla moneta unica: “l'euro ordoliberista
distrugge l'Europa, l'abolizione dell'euro la distruggerebbe
ugualmente”).
Il vecchio continente si
trova dunque oggi nella situazione che Gramsci, ricorda Balibar,
avrebbe definito “di interregno”, in cui il vecchio muore ma il
nuovo stenta a nascere. Spostare all'indietro le lancette
dell'orologio è illusorio, così come è illusorio, a livello
mondiale, sperare che sia una improbabile de-globalizzazione a
risolvere i problemi del mondo globale. Restare fermi significa
arrendersi alla deriva di auto-dissoluzione dell'Unione, alimentata
dai “fronti del rifiuto” che crescono al suo interno. È
necessario un salto in avanti: non meno ma più Europa, ma non un di
più di questa Europa. Ancora non si vede all'orizzonte il soggetto
politico in grado di assumersene la sfida, eppure “un'altra Europa,
solidale e democratica, è possibile”, vive nei movimenti di
resistenza alla disciplina del debito e dell'austerità, ed è “fra
gli strumenti di cui abbiamo bisogno per agire controcorrente nella e
sulla globalizzazione”.
L'Indice, marzo 2017
Nessun commento:
Posta un commento