14.2.19

Dimentica e ricorda (Italo Calvino)

Un testo importante. Può apparire una recensione ma è, nella sua brevità, una lezione sulla memoria e l'identità, degna di figurare accanto alle più celebri lezioni americane. (S.L.L.)

Il nodo del problema - esplicito o implicito in ogni discussione della cultura del nostro secolo - è questo: se la storia sia una, come affermazione d'una scala di valori universale, svolgimento lineare d'un discorso traducibile in ogni lingua, oppure se i valori veri risiedano in ciò che è particolare d'una cultura e linguaggio, in ciò che è inassimilabile, irriducibile al corso d'una storia che pretenda d'essere univoca, e se cercati nell'ambito dell'individuo, si trovino nell'esplorazione dell'io più intimo ed esclusivo, nell'espressione di ciò che è al di là della parola o almeno del discorso pubblico.
Tra questi due poli, con innumerevoli gradazioni intermedie, si possono situare le proposte intellettuali che hanno più contato nel corso della nostra vita. Questo nodo problematico è rappresentato in modo esemplare in Octavio Paz. Le sue meditazioni sull'identità messicana nel Labirinto della solitudine l'hanno portato a rivendicare insieme i valori delle civiltà preispaniche dell'America Centrale e quelli d'una cultura universale dell'era moderna, sia nel senso della vocazione universalista di una parte della cultura spagnola, sia nel senso della cultura europea, e francese in particolare, che trae origine dai Lumi e dalla Rivoluzione francese. Valorizzando il tesoro nascosto nelle antiche mitologie dei popoli del Messico (e poi anche in quelle dell'India dove egli è vissuto a lungo come ambasciatore del suo paese) e la funzionalità delle loro strutture sociali autoctone, l'opera saggistica di Octavio Paz si situa nel filone della critica dell'idea di progresso lineare ed eurocentrica e tecnocratica. Ma per far questo egli svolge un discorso che ha la Storia come sua spina dorsale, e ciò lo rende particolarmente vicino a noi italiani, dato che la nostra cultura, almeno fino a ieri, è stata fatta - si può dire - esclusivamente di interpretazioni storiche o prospettive storiche. (Forse non è un caso che questa preferenza per il discorso storico accomuni popoli che hanno avuto bisogno di definire la propria identità attraverso uno sforzo di costruzione intellettuale).
Nello stesso tempo va tenuto presente che Octavio Paz è innanzitutto un poeta e che l'esperienza della poesia è il tema di gran parte dei suoi saggi. Tra i lineamenti del suo profilo intellettuale vanno dunque considerate la fluidità lussureggiante, barocca e poi simbolista, d'una tradizione ispanica e ispano-americana, e nello stesso tempo la lucida densità filosofica di Suor Juana Inès de la Cruz, il tutto proiettato sull'orizzonte della poesia mondiale contemporanea, della grande rivoluzione nell'uso della mente e del linguaggio che è l'eredità di Rimbaud, Mallarmè, Apollinaire e poi del surrealismo. Il senso complessivo del suo discorso potrebbe dunque essere definito così: come le mitologie extraeuropee, così le punte estreme della poesia e dell'arte contemporanee provano che il pensiero razionale, storico, scientifico lascia fuori modi d'essere e di sapere insostituibili. Detto questo, bisogna anche osservare che il discorso di Paz, tanto nel ricercare le radici autoctone profonde quanto nel vivere le esperienze più avanzate della letteratura e dell'arte internazionale, è sempre pensato ed espresso nel linguaggio del rigore razionale e della consapevolezza storica. (La storia della cultura è sempre presente quando Paz definisce un'esperienza intellettuale, sia come continuità ideale, per esempio tra J.J. Rousseau e Andrè Breton, sia come analogie o contrasti suggestivi, per esempio tra Giordano Bruno e Marcel Duchamp).
Solo il rispetto delle singolarità - nella natura e storia d'ogni singolo ambiente e individuo - può salvarci dalla imposizione di modelli che pretendono d'essere universali e che finiscono per essere universalmente oppressivi. Così il modello di rivoluzione che - nonostante la ricorrente illusione d'una rivoluzione diversa dalle altre, coerente allo spirito autoctono - risulta sboccare nella uniformità senza via d'uscita del totalitarismo poliziesco. Le riflessioni di Octavio Paz su questo problema, in particolare quelle degli ultimi anni, sono una confutazione rigorosa di queste illusioni e del mito d'una palingenesi rivoluzionaria latino-americana, mito che porta direttamente all'accettazione del peggiore modello di potere assoluto. Anche le ragioni più sacrosante da cui una rivoluzione può nascere, e la spinta alla soluzione di problemi reali che una rivoluzione porta con sè, vengono presto soffocate dalla estranea corazza di ferro dell'adesione a un sistema di potere che risponde solo alla logica della propria conservazione.
Cosa proporre come alternativa? Appartengo a una generazione che si è tormentata per molti anni cercando una soluzione a questi problemi, sia pur nelle forme diverse che essi assumono nel cuore della vecchia Europa. Oggi credo che più che inseguire soluzioni generali che non esistono, conta essere preparati a riconoscere che il mondo è sempre più vasto e molteplice e diverso di quel che noi crediamo, e tra tante verità parziali che il mondo ci propone è importante capire qual è la propria parte di verità e tenersi a quella, senza sentirsi obbligati a far proprie verità che non ci appartengono, come spesso i giovani si sentono in obbligo di fare, per conformismo o anticonformismo. Come mia tendenza dominante sono sempre stato proiettato più verso il futuro che verso il passato, e il futuro ha avuto sempre per me un'immagine metropolitana, tecnologica, cosmopolita. La nostalgia dell'arcaico, del paesano, del dialettale (o anche soltanto del mondo della propria infanzia), atteggiamento molto diffuso nella cultura in cui mi sono formato, l'ho sentita più come una limitazione d'orizzonte che come uno stimolo poetico e intellettuale. D'altro canto so, soprattutto oggi, che il poeta, lo scrittore, il filosofo, lo storico, sono e devono essere coloro che ricordano il passato, in un mondo che sembra andar avanti senza sapere dove lo portano i suoi passi e quali rischi si aprono sul suo cammino. Dico il passato in quanto esperienza di valori, o meglio in quanto scelta di valori da salvare da quella immensa somma d'esperienze negative che è la Storia.
È questo il passato che, volando verso il futuro, guarda l'angelo di Klee caro a Walter Benjamin. Ma non vorrei che questo sguardo sul passato fosse inteso come un attaccamento a quanto è più vicino, familiare e facile. Al contrario direi questo, anche basandomi sull' esperienza della letteratura: più ci si allontana dai territori dei propri predecessori diretti, più ci si sentirà in sintonia con chi apriva nuove vie in epoche più lontane, anche a distanza di secoli: come se rifiutando la continuità con la tradizione recente per ricercare il nuovo, si ristabilisca una continuità con una tradizione più profonda e più fruttuosa. Il rifiuto del passato prossimo è la condizione necessaria per il recupero del passato dimenticato, il solo che favorisca l'espressione del nuovo. Ricordare è necessario, ma dimenticare è una funzione altrettanto vitale per il pensiero. Il vero compito dell'intellettuale è quello di aiutare a ricordare il dimenticato, ma per far questo deve prima aiutare a dimenticare ciò che ricordiamo troppo: idee ricevute, parole ricevute, immagini ricevute, che ci impediscono di vedere e pensare e dire il nuovo. Non è un compito da poco: dimenticare e ricordare sono entrambe operazioni estremamente difficili, e nella scelta di cosa dimenticare e cosa ricordare, le possibilità di sbagliare sono innumerevoli; mentre un singolo atto di giusto oblio o un singolo recupero della memoria giusta già basterebbe a giustificare una vita.

P.S. Avevo appena spedito questo testo al convegno messicano, quando ho letto sull' ultimo numero (5/6) di “Linea d'ombra” uno scritto molto bello di Francesco Ciafaloni sulla vita paesana nell'Abruzzo d'oggi, in cui si parla della positività del dimenticare, in modo che mi convince che il mio argomento dovrebbe essere sviluppato secondo un'altra angolazione. Infatti non ho toccato il punto più importante che Ciafaloni mette in luce: come solo il "dimenticare" renda possibile la trasposizione d'un'eredità di valori in altri ambienti, tempi, contesti culturali, ma con una "potenzialità universalistica che è il contrario del vuoto". Partendo da un'affermazione di Ernest Gellner, "una volta per essere gentiluomini non occorreva sapere davvero il greco e il latino, ma averli dimenticati", Ciafaloni scrive: "A me sembrava, e sembra, che le mie particolarità culturali, quelle che potrebbero rendermi diverso, anche se leggo presumibilmente testi analoghi, da un australiano o da un canadese, non sia il ricordare e il difendere la società e i valori della montagna abruzzese, ma l'averli dimenticati, l'averli trasformati al punto che sono oggi riconoscibili solo a me". Così resi astratti e non più legati a un clan, acquistano, solo allora, un potere di convergenza universale.

“la Repubblica”, 11 settembre 1984

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