Quando Garibaldi arrivò
a Napoli nel 1860, ad accoglierlo tra i primi, con lo scialle sulle e
il pugnale alla cintura, c’era Marianna De Crescenzo, detta la
Sangiovannara, patriota combattente, che era stata a capo di uno
squadrone di armati durante l’insurrezione. Nel suo esercito
peraltro aveva combattuto non solo Anita, ma anche Tonina Marinello
Masanello, accorsa volontaria dal Veneto con il marito (decorata sul
campo), come Colomba Antonietti nella difesa della Repubblica romana
del ‘49, che si scoprì essere donna solo dopo la morte. E pure la
nobildonna Felicita Bevilacqua avrebbe voluto esser tra i Mille, se
il futuro marito, Giuseppe La Masa, non glielo avesse impedito,
imponendole - come essa gli rimproverava nelle lettere - di
«sacrificare» i suoi slanci e le sue volontà più profonde.
Sono alcuni dei volti e
dei fatti che vengono messi in luce dai vari libri dedicati alle
donne e Risorgimento, usciti in occasione delle celebrazioni dei 150
anni: biografie del tutto cancellate da una rappresentazione storica
che aveva marginalizzato le donne, offuscandone la presenza, o
rimodellandone gli aspetti divergenti, in una operazione di vera e
propria «plastica biografica» tesa a riportare la partecipazione
femminile entro i canoni dei modelli tradizionali, confermando
precise gerarchie di genere anche nella costruzione dello stato
nazionale. Al centro della scena risorgimentale erano rimasti solo i
«fratelli», con le loro spade «affilate nell’ombra», uniti dal
giuramento di libertà o morte, lanciati in battaglia a offrire i
loro corpi in sacrificio alla madre-patria; mentre le «sorelle»
stavano intente a pregare ai piedi dell’altare o chiuse nelle case
a cucire le loro divise e le bandiere, come le raffigurano i pittori
macchiatoli.
Riscritture
radicali
Una rappresentazione
cementata da un’enfasi retorica (analizzata alcuni anni fa da
Alberto M. Banfi) che ha pervaso la nostra cultura otto-novecentesca,
dalla letteratura alle arti, dalla lirica al teatro, arrivando quasi
intatta fino agli anni Sessanta, complice una corrente storiografica
ben radicata in Italia, che privilegiava gli aspetti
politico-militare-diplomatico (contraddistinti appunto da una
presenza monosessuale maschile), rispetto a quelli sociali e
culturali.
Nulla di nuovo certo
nella storia delle donne: a stupire è semmai la pervasività di un
processo di marginalizzazione che riflette le gerarchie e l’ordine
simbolico su cui si fonda il patriarcato. E tuttavia di questo
passaggio storico non può sfuggire la particolare rilevanza
simbolica e i riflessi in termini di cittadinanza Perché la
marginalità delle donne dall’atto fondativo dello stato nazionale
diventa presupposto e pretesto di una loro marginalità dalla sfera
politica, come apparve chiaro fin da subito all’indomani
dell’Unità, con l’esclusione delle donne dalla cittadinanza
politica, intrecciata a una netta subordinazione nella sfera
familiare, sancita dai codici, funzionale a questo stesso ordine,
essendo lo stato concepito appunto come aggregazione di famiglie più
che di singoli.
La riscrittura radicale
di questo importante capitolo di storia in un’ottica di genere, non
è cominciata in questi giorni - è bene precisarlo; è iniziata in
sede storica e filosofica con quella «critica femminista alla
storia» avviata dal movimento delle donne negli anni Settanta, volta
non ad aggiungere qualche capitolo mancante alla storia generale, ma
a ridisegnare integralmente la rappresentazione storica alla luce
della differenza. Vanta una tradizione di studi e di ricerche più
che ventennali.
Aspettative di
genere
Tuttavia un merito di
questa ricorrenza è quello di averne accelerato alcuni percorsi, di
averla valorizzata e divulgata con la promozione di eventi,
spettacoli teatrali o mostre storico-documentarie; di aver animato un
dibattito che si è articolato in centinaia di seminari e convegni,
organizzati un po’ dovunque sul territorio nazionale, dentro e
fuori l’università; di aver fatto fiorire opere destinate ad un
pubblico più vasto [Donne del Risorgimento e due volumi con lo
stesso titolo, Sorelle d’Italia). Tutto ciò malgrado le scarse
risorse e lo sbilanciamento nella destinazione dei fondi per il 150°,
che ancora una volta ha penalizzato le associazioni femminili.
Il quadro che ne emerge
ridisegna radicalmente la rappresentazione tradizionale, anche se la
tendenza a fare una storia aggiuntiva, scandita da medaglioni,
risulta ancora lunga a morire, pure al di là delle intenzioni, come
risulta dallo stesso sito ufficiale del cento cinquantenario. La
ricerca storica, oltre a correggere svarioni biografici e illuminare
presenze marginalizzate (come quella di Cristina di Belgiojoso, la
Prima donna d’Italia), si è piuttosto interrogata sulle modalità
collettive di partecipazione delle donne al Risorgimento, sui
processi messi in atto in termini di soggettività, sulle aspettative
di genere intrecciate alla creazione dello stato nazionale, sulle
varietà e le differenze interne al mondo femminile. Tutto ciò a
partire dall’assunto di un Risorgimento inteso in primis come
percorso di rinnovamento civile e culturale, da inquadrare nel
Romanticismo europeo, come processo di formazione di identità
nazionale, linguaggi, culti e simboli (come sottolineato da Banfi e
Ginsborg). E ancora come azione di popolo, non solo di ministri o
generali, con una attenzione particolare all’«altro risorgimento»:
quello democratico-insurrezionale.
È all’interno di
questa prospettiva che la presenza delle donne emerge con evidenza e
acquista una rilevanza cruciale, perché questi furono i campi
precipui della loro azione: dall’educazione alla diffusione dei
sentimenti e delle emozioni (così importanti in questa, come in
altre rivoluzioni); della salvaguardia delle memorie al culto della
patria, dalla testimonianza alla costruzione di reti associative, le
patriote profusero un’azione capillare e incisiva, quanto sommersa,
che andò a smuovere l’immobilità, a disegnare una diversa
prospettiva civile e politica, a tessere l’unità a partire dalla
quotidianità, a costruire l’alfabeto della comunità nazionale.
Basta pensare al valore
politico (più che letterario) di tanta produzione poetica femminile,
all’uso sociale di questa poesia patriottica, all’organizzazione
di circoli femminili (come le poetesse Sebezie di Napoli),
all’indefessa attività e al successo di improvvisatrici come
Giannina Milli, ricostruiti nel libro di Maria Teresa Mori (Figlie
d’Italia). Basta leggere le pagine di diario, gli appelli, i
proclami, gli articoli di giornale, le lettere pubblicate nelle
recenti raccolte di documenti, per veder illuminata questa
rivoluzione silenziosa che attraversava le famiglie, le genealogie,
le reti di vicinato (come aveva ben evidenziato nell’Ottocento la
scrittrice Luigia Codemo, nel romanzo La rivoluzione in casa).
Sguardi e parole
E tuttavia sarebbe
sbagliato e riduttivo circoscrivere la partecipazione delle donne al
Risorgimento al solo piano culturale, riproponendo in veste
aggiornata antichi stereotipi. Le donne ebbero una presenza attiva
anche nella cospirazione e nell’attività insurrezionale:
«giardiniere» prima e affiliate alla Giovane Italia poi, furono
l’anima delle insurrezioni, mobilitate assieme agli uomini, a
costruire barricate, a fare da vivandiere, a confezionare cartucce,
ad allestire infermerie e ospedali da campo appena al di là del
linee di combattimento, a promuovere collette patriottiche.
L’importante ricerca
sulle fonti femminili condotta negli archivi milanesi, anche sui
processi politici (Gli archivi delle donne 1814-1859, a cura
di Maria Canella e Paola Zotti), ha portato alla luce centinaia di
nomi di inquisite per attività cospirativa, a dimostrazione di
quanto fertile e ancora in parte inesplorato risulti il terreno delle
ricerche d’archivio. E quanto significativa sia stata la presenza
delle donne nelle repubbliche, lo ha ben evidenziato, ad esempio, la
mostra organizzata a Venezia dal Consiglio regionale del Veneto,
sotto la direzione di Mario Isnenghi (ora nel catalogo La
differenza repubblicana. Volti e luoghi del '48-'49 a Venezia e nel
Veneto).
Ma per mettere a fuoco
pienamente questa presenza, lo sguardo e le motivazioni che
l’accompagnavano, occorre partire dai soggetti stessi: dai loro
sguardi e dalle loro parole. Non è un caso che ben quattro dei
volumi pubblicati si presentino come raccolte di testimonianze e voci
delle protagoniste (documenti e opere letterarie, accompagnate da
ritratti e fonti iconografiche): quello curato da Laura Guidi per il
sud (Il Risorgimento invisibile), dalla sottoscritta e Liviana
Gazzetta per il Veneto (L’altra metà del Risorgimento), da
Marina D’Amelia (Oh dolce patria), da Alberto M. Banfi (Nel
nome dell’Italia), dove le voci femminili s’intrecciano a
quelle maschili e quelle di personaggi famosi ad altri sconosciuti.
Differenti
declinazioni
Queste raccolte di fonti,
oltre a mettere in luce un’acuta capacità di giudizio politico,
consentono anche di analizzare più adeguatamente due aspetti che
sono al centro della riflessione storica recente: le aspettative di
genere legate alla costruzione dello stato nazionale e le differenze
interne al mondo femminile, troppo spesso presupposto come omogeneo e
monocorde (altro stereotipo lungo a morire!).
Che la partecipazione al
Risorgimento sia stata per molte liberali fattore di innesco di nuove
forme di identità e consapevolezza di diritti, è un dato da tempo
assodato e confermato dalle ricerche, ma le differenze anche tra le
patriote risultano assai più profonde di quanto ipotizzato. Se per
tutte a incarnare il nuovo modello femminile è la figura della
madre-cittadina (un modello alla cui costruzione esse stesse
concorrono attivamente), le sue declinazioni politiche si divaricano
in direzioni diverse: per molte il rilievo civile e morale di questa
figura rimane circoscritto alla sfera familiare e alla funzione
educativa, pur nella rilevanza che questa acquista nel nuovo stato
liberale; per altre (poche) questa figura diventa leva di
rivendicazione di diritti civili e politici, in un’ottica che
intreccia autorevolezza morale e parità giuridica, differenza e
uguaglianza.
Diritti rivendicati
Si tratta di prospettive
divergenti, sulle quali incidono molteplici fattori: appartenenze
politiche, genealogie familiari, ma anche vicende e esperienze
particolari, contesti e luoghi. La «differenza repubblicana» emerge
qui con forza, non solo come orientamento di pensiero, ma come spinta
a una mobilitazione popolare che porta sulla scena pubblica donne di
diverse classi sociali, a sperimentare forme di azione e
partecipazione e perfino incarichi pubblici (come succede per
l’assistenza ai feriti a Venezia, con Elisabetta Michiel Giustinian
e Teresa Mosconi Papadopoli o a Roma, con Cristina di Belgiojoso ed
Enrichetta Di Lorenzo). Non è un caso che in queste esperienze del
1848/49 fioriscano i primi giornali scritti interamente da donne,
dalla «Tribuna delle donne» (Palermo), a «Il Circolo delle donne
italiane» (Venezia), a riprova di come l’impegno politico si
traduca anche in consapevolezza e rivendicazioni di diritti, in un
«risorgimento delle donne e della nazione», come scrivono le
palermitane.
Né è accidentale il
fatto che proprio a Venezia si organizzi la prima manifestazione
suffragista d’Italia, in occasione del plebiscito del 1866, con
tanto di documenti di protesta inviati al re, o che i primi Comitati
per l’emancipazione delle donne italiane siano stati promossi da
repubblicane (come quello di Napoli, a sostegno dei disegni di legge
per l’estensione del suffragio di Salvatore Morelli).
Dalle fonti traspare
anche un altro aspetto importante: il rapporto che lega le masse
femminili alla Chiesa e il suoi riflessi nella storia delle donne e
del Risorgimento: dall’entusiasmo iniziale per le aperture di Pio
IX, il «papa liberale», che smuove le incerte e prefigura come
«santa» la guerra di liberazione, al disorientamento di fronte al
suo voltafaccia, che spinge alcune a una riflessione più articolata
sulle necessità di rinnovamento spirituale della Chiesa; altre
invece (come Nina Serego Allighieri o Giulia Caracciolo) verso un
anticlericalismo più marcato (altro aspetto poco indagato).
Ma interrogarsi sul
Risorgimento vuol dire anche fare i conti con l'antirisorgimento
delle donne: con le cattoliche non liberali, per le quali l’unico
riferimento rimase la Chiesa e l’unica patria quella celeste, o le
brigantesse, che furono - come sottolinea Laura Guidi - non solo
«manutengole», ma componenti a pieno titolo delle bande.
L’involuzione
moderata
Il mondo silenzioso delle
prime è attraversato da un fremito quando la «questione romana» si
pone con forza e il Sillabo Quanta (1864) sancisce una spaccatura
radicale con lo stato liberale; si fanno esercito attivo in difesa
della Chiesa, dando vita, in molte realtà del Veneto all’inizio
degli anni ‘70, alle Società delle donne cattoliche per gli
interessi cattolici e promuovendo ovunque iniziative devozionali ed
educative volte a contrastare il processo di secolarizzazione.
Muove da qui quella
divisione interna al mondo femminile destinata ad avere così pesanti
ripercussioni anche sul movimento di emancipazione italiano, e a
sfociare nella spaccatura del Congresso nazionale delle donne
italiane del 1908, seguita dalla creazione dell’Unione Donne
cattoliche, voluta da Pio X in funzione anti-emancipazionista.
Tuttavia anche molte liberali, conclusa la fase risorgimentale («il tempo della poesia», come scriveva Erminia Fuà Fusinato), divenute parte della classe dirigente, si attesteranno su posizioni moderate, assumendo un ruolo pubblico di educazione sì, ma anche di disciplinamento delle donne, che incanalale istanze di cambiamento serpeggianti nel mondo femminile in forme più domestiche e consone ai ruoli sessuali prefigurati dal codice civile Pisanelli. Eccole dunque a distinguere tra patriottismo e politica, disegnando campi d’azione diversificati per genere; eccole a delimitare il concetto di emancipazione entro precisi steccati prefigurati da differenze «naturali» stabilite dalla Provvidenza; a redarguire come «scalmanate emancipatrici» quante avevano l’ardire di rivendicare pienamente i diritti civili e politici, da Anna Maria Mozzoni a Gualberta Alaide Beccari.
Tuttavia anche molte liberali, conclusa la fase risorgimentale («il tempo della poesia», come scriveva Erminia Fuà Fusinato), divenute parte della classe dirigente, si attesteranno su posizioni moderate, assumendo un ruolo pubblico di educazione sì, ma anche di disciplinamento delle donne, che incanalale istanze di cambiamento serpeggianti nel mondo femminile in forme più domestiche e consone ai ruoli sessuali prefigurati dal codice civile Pisanelli. Eccole dunque a distinguere tra patriottismo e politica, disegnando campi d’azione diversificati per genere; eccole a delimitare il concetto di emancipazione entro precisi steccati prefigurati da differenze «naturali» stabilite dalla Provvidenza; a redarguire come «scalmanate emancipatrici» quante avevano l’ardire di rivendicare pienamente i diritti civili e politici, da Anna Maria Mozzoni a Gualberta Alaide Beccari.
Quanto abbia pesato in
questa involuzione moderata l'esser divenute parte della classe
dirigente, con incarichi pubblici anche rilevanti nel campo
dell’educazione, un’omologazione al nuovo clima politico, e
perfino una lettura del pensiero di Mazzini in chiave conservatrice,
decisamente sbilanciata sui doveri (come sembra suggerire la lettura
del recente libro di Simon Levis Sullam, L’Apostolo a brandelli.
L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, 2010),
rimangono interrogativi del tutto aperti. La debolezza dell’Italia
nel panorama emancipazionista europeo invece resta un dato di fatto
fino allo snodo del secolo, come sottolineava con amarezza Sibilla
Aleramo.
Progressi e
regressi
Quello che è certo è
che il significato e il valore di questa fase storica cruciale non
può essere pienamente colto e analizzato in un’ottica di genere,
se non inquadrandolo in una prospettiva diacronica che consenta di
cogliere alla distanza guadagni e perdite, radici e sviluppi,
assonanze e contrapposizioni, progressi e regressi nel succedersi
delle generazioni. È quanto ha cercato di fare la Società Italiana
delle Storiche nell’importante convegno nazionale Di generazione
in generazione. Le italiane dall’Unità ad oggi (Firenze, 24-25
novembre 2011), mettendo a confronto storici/che, sociologi/ghe,
lettera-ti/e. Perché è da questo percorso complessivo che bisogna
partire per capire meglio il presente.
il manifesto, 11 febbraio 2012
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