Per “Il Saggiatore”
uscì nel 2011, a un anno dalla morte, una antologia di saggi di
Lucio Magri che copriva un arco temporale piuttosto lungo, dal 1962
(l'intervento al convegno sul neocapitalismo in cui discuteva e
polemizzava alla pari con Giorgio Amendola) al 1993 (la Relazione al
Congresso di Rifondazione Comunista del 1993, di fatto ignorata
dall'Assemlea che avrebbe incoronato Bertinotti, al tempo innamorato
del subcomandante Marcos). La scelta tende a rivendicare per Magri
una sostanziale linearità, a presentare la sua esperienza di
intellettuale e dirigente comunista come una ricerca travagliata e
non priva di intoppi ma, nondimeno, coerente e tenace. È una lettura
che non condivido del tutto, ma che è alla base del titolo del volume: Alla ricerca di un altro comunismo.
I
testi sono preceduti da una intervista a Lucio Magri di Aldo Garzia e
Famiano Crucianelli, suoi amici e compagni, una sorta di “ultima
conversazione”, più bilancio che testamento prima dell'addio alla
vita e da una prefazione di Luciana Castellina, che è molto più di
una prefazione. È un contributo importante, tanto affettuoso quanto
denso di notizie a molti sconosciute, alla biografia di un dirigente
atipico, ma importante del comunismo italiano, certamente una delle intelligenze più vive di un movimento che di intelligenza, a mio
avviso, non mancava affatto.
Dallo scritto di Luciana Castellina
riprendo alcune pagine che raccontano le origini cattoliche e
“democristiane” dell'impegno politico di Lucio Magri e, con lui,
di altri importanti figure della nostra storia comunista. (S.L.L.)
Fra i suoi difetti Lucio
aveva anche l’intransigenza. Rigidissima, non integralismo, perché,
anzi, era capace di continue autocritiche politiche; ma non
sopportava l’incoerenza, l’eclettismo, l’assenza di rigore.
Tutto doveva avere una logica e si arrabbiava con chi non riusciva a
spiegare come da un certo inizio si sarebbe arrivati a certe
conseguenze. Poiché in politica questo esercizio è assai frequente
ha finito per litigare con molte persone.
Non si trattava,
naturalmente, di integralismo religioso. Se le origini della sua
formazione avevano radici nelle organizzazioni cattoliche era solo
perché a Bergamo la sinistra era difficile incontrarla. Non c'era
quasi. «I preti e i comunisti» che - come constatarono gli
americani appena sbarcati, erano gli esclusivi abitanti dell’Italia
- erano geograficamente aggregati, in regioni bianche e rosse. E
Bergamo era fra le province più bianche. La dialettica politica
postbellica, che era quanto a Lucio interessava dalla prima
giovinezza, si esauriva dunque nella sventagliata galassia della
Democrazia cristiana, che allora comprendeva, oltre a una destra
consistente, anche una sinistra rilevante, l’ala dossettiana. E fu
cosi che Lucio Magri cominciò con l’essere un dirigente dei gruppi
giovanili Dc, che più di ogni altro settore di quel partito cresceva
all’ombra del deputato che poi abbandonò tutto, in opposizione
alla definitiva scelta neocapitalista della Dc di Fanfani; e si fece
prete, presto esiliandosi a Gerusalemme.
I gruppi giovanili erano
allora guidati da Franco Maria Malfatti, in seguito ministro e
addirittura presidente della Commissione europea, che però all’epoca
scriveva sulla rivista ufficiale dell’organizzazione – “Per
l'Azione”, diretta da Bartolo Ciccardini - «non credo di sbagliare
se dico che l'uscita delle opere di Gramsci ha rappresentato un
avvenimento atteso e un lievito culturale importantissimo per la
gioventù Dc». Malfatti aveva grande stima di Lucio e, quando a nome
di Enrico Berlinguer gli andai a chiedere di andare a Varsavia come
osservatore al Congresso dell'Unione internazionale degli studenti
(entro cui si era ormai consumata la rottura con le organizzazioni
non socialcomuniste), mi rispose che per lui, delegato nazionale, era
impossibile, ma che vi avrebbe mandato una persona di sua piena
fiducia, uno di Bergamo, Lucio Magri. Le circostanze in cui si
stabilì questo accordo furono curiose: allora, era il ’53 e la
guerra fredda imperava, che io andassi nel suo ufficio in piazza del
Gesù, o che lui venisse nella sede della Fgci, a Botteghe Oscure,
era impensabile. Terreni neutri non ce n’erano, tantomeno era
adatto un bar. E fu così che salii sulla macchina di Malfatti e
andammo a parlare, chiusi nella vettura, in piazza del Quirinale,
disturbati da un ambulante che voleva mi comprasse una rosa, che
infatti, per togliercelo di torno, mi regalò.
Occorreva, per Magri, il
visto per la Polonia e così la prima volta che lo vidi in faccia fu
attraverso le foto tessera e il passaporto che mi inviò a Roma
affinché portassi a buon fine la pratica. Dovetti recapitarglielo a
Milano, in tempo perché prendesse il treno di mezzanotte per
Varsavia, mentre io non potei partire perché all’ultimo il
questore di Roma mi negò per l’ennesima volta il passaporto,
essendo io già una pluriarrestata. Ci incontrammo al bar Zucca, in
galleria, e la conoscenza ebbe come quasi tutti sanno qualche
seguito: politico, perché è insieme che abbiamo fatto “il
manifesto”, e sentimentale, perché anni dopo e per parecchio
tempo, siamo stati compagni di vita. Non prima, ovviamente, che lui
si fosse iscritto al Pci, altrimenti sarebbe stato impensabile per
ambedue.
I giovani Dc, così come
la corrente dossettiana da cui traevano ispirazione, erano dominati
dalla questione comunista: aprire al Pci era considerato il solo modo
di avviare una politica anticapitalista e contrastare la scelta
borghese ormai compiuta dai fanfaniani. Le incertezze che ancora in
quegli anni percorrevano il mondo cattolico spiegano come sia stato
possibile che su “Per l’Azione” siano potuti apparire articoli
impensabili solo qualche anno dopo. E così troviamo proprio in
quelle pagine un articolo di Lucio Magri, intitolato I limiti del
riformismo, più o meno lo stesso di un saggio scritto vent’anni
dopo sul “manifesto”, in cui è detto: «La nostra dimensione
rivoluzionaria è stata crudelmente compromessa dal ricatto di una
politica angusta, che ci obbliga a una spossante attesa del futuro».
Com’era evidente la Dc
fanfaniana non poteva sopportare una organizzazione giovanile di
questo tipo e infatti il suo esecutivo venne sciolto, alla vigilia
del congresso del partito, nel giugno del ’54 a Napoli. Magri, che
dal ’53 era succeduto a Ciccardini alla direzione di “Per
l’Azione”, non era riuscito a far uscire neppure un numero della
rivista: ogni bozza venne da Fanfani gettata nel cestino, fino a
quando la rivista stessa non cessò le sue pubblicazioni.
E però una parte dei
giovani Dc non si rassegnò: consumata la separazione con chi fra
loro aveva scelto di adeguarsi e intraprendere brillanti carriere
governative, promosse altre pubblicazioni: "Il ribelle e il
conformista", diretta da un altro bergamasco, Carlo Leidi, molti anni
dopo militante del manifesto. E poi la rivista “Prospettive”, in
cui ritroviamo i nomi di tutti coloro che alla fine abbandonarono la
Dc per approdare nelle file comuniste: Chiarante, Baduel, Guerzoni e
tanti altri. Ciccardini e Baget Bozzo dettero invece vita a “Terza
generazione”, in cui un ruolo importante fu giocato da Felice
Balbo, una rivista che per una breve fase cercò di collocarsi fuori
dalla De ma non contro di essa.
La vicenda dei gruppi
giovanili Dc non fu un caso anomalo. Una crisi analoga subì la ben
più corposa Gioventù dell’Azione cattolica, la Giac, i cui
presidenti, Carlo Caretto e poi Mario Rossi, furono obbligati a
dimettersi in contrasto con la linea integralista e fortemente
anticomunista di Gedda, ambedue seguendo la strada di un appartato
sacerdozio missionario, già imboccata da Dossetti.
Il Pci, e tanto più la
Fgci, non capirono il travaglio della nuova generazione cattolica.
Continuarono a proporre riduttive tematiche rivendicazioniste (i
campi sportivi per i proletari, la riduzione delle tasse
universitarie per gli studenti) come terreno di incontro, laddove il
problema posto dal gruppo di giovani Dc che alla fine abbandonò il
partito conteneva una domanda assai più ampia e strategica. Lucio
Magri fu molto ferito da questa incomprensione, lo racconta anche
nella conversazione con Garzia e Crucianelli, quando riferisce del
deludente incontro che lui e Chiarante ebbero, proprio a casa mia,
con Enrico Berlinguer. E sulla questione cattolica è poi tornato
spesso, sia quando entrò nel Pci, sia, in seguito, quando divenne
segretario del Pdup, come prova un convegno promosso sulla questione
nel ’75. Una problematica anomala rispetto alla cultura molto
«classista» della nuova sinistra, in cui peraltro finirono per
militare molti ragazzi provenienti dalle organizzazione cattoliche.
In polemica con la
cultura laico-radicale Magri insistette nella sua relazione su un
dialogo che si fondi su valori e bisogni, quelli di una riforma
intellettuale e morale. Contro la rimasticatura di un’etica
individualistica, contro un punto di vista anarchico libertario, di
mera insubordinazione in cui si va involgendo la spinta del ’68.
Scrive Del Noce, in
merito a questa vicenda rimasta assai in ombra nella storiografia che
racconta i primi anni cinquanta (in Genesi e significato della
prima sinistra cattolica italiana post-fascista), che si trattò
di «un fenomeno singolarissimo, di cui l’esempio senza paragone
più importante sta nella vicenda della sinistra Dc di Dossetti in
cui il capo abbandonava, per rigorosa coerenza intellettuale, e per
nient’altro, la politica. Ora la gioventù Dc era stata influenzata
in maniera decisiva da questo indirizzo. A chi rivolgersi ormai dopo
il silenzio politico del maestro? Sta di fatto che negli anni
approssimativamente tra il ’53 e il ’58, l’unico pensatore
cattolico che ebbe udienza presso la gioventù Dc fu Felice Balbo. Né
può essere sottovalutata l’importanza che ebbe la rivista “Terza
generazione”, ispirata da lui anche se la sua durata fu breve».
In realtà l’incontro
con Balbo fu importante soprattutto perché fu attraverso di lui che
la parte più decisa dei Gruppi giovanili entrò in contatto con il
leggendario Franco Rodano, indiscussa autorità dei cattolici
comunisti ma anche assai influente presso il Pci stesso, sebbene
Rodano sia rimasto sempre appartato. E però con Balbo i giovani Dc
si trovarono su una soglia attraverso la quale stavano procedendo in
direzione inversa: un gruppo importante di catto-comunisti (Balbo,
Fedostiani e altri) abbandonava il Pci, loro andavano alla sua
scoperta.
E così che Magri,
assieme a Baduel e a Chiarante, approda al “Dibattito politico”,
il settimanale (in seguito quindicinale) diretto da Mario Melloni
(futuro Fortebraccio, il popolarissimo corsivista dell’Unità)
e Ugo Bartesaghi, deputati Dc espulsi dal partito per avere votato
contro la creazione della Ueo (riarmo europeo), ma di fatto da Franco
Rodano.
La pubblicazione, in cui
Magri scrive moltissimo (e con una molteplicità di pseudonimi) di
tematiche sempre più connesse con il confronto politico e teorico
interno al Pci, ebbe una sorte singolare: pensata come sede di
dialogo fra cattolici e comunisti, finì per avere grande influenza
nelle file stesse del Pci, dove si cominciava a discutere
dell’ipotesi di centro-sinistra, un’opzione cui Rodano era
fortemente contrario. Egli sospettava infatti del rapporto Dc-Psi e
forze laico-borghesi, privilegiando un rapporto diretto Dc-Pci,
fondato sul fatto che gli appariva assai più anticapitalista, per
valori e interessi sociali, la base popolare e ancora contadina di
quel partito rispetto ai ceti medi borghesi rappresentati da Psi,
Pri, Psdi. Una posizione, questa, che si incontrava per molti versi
con quella della sinistra comunista e che però portò Rodano, molti
anni più tardi, a sostenere il compromesso storico, che era in
realtà tutt’altra cosa.
È un fatto che in quegli
anni Lucio Magri si trovò così a essere un eretico del Pci ancor
prima di iscriversi a quel partito, cui avrebbe voluto aderire già
subito e non potè. Come racconta lui stesso a Garzia e Crucianelli,
resterà fuori dal Pci più a lungo di quanto avrebbe auspicato
perché gli stessi dirigenti del partito, in nome di un accorgimento
tattico un po’ miope, preferivano di gran lunga che si occupasse di
dialogare con la sinistra Dc piuttosto che vederlo intromettersi nei
propri delicati confronti interni.
Ci riesce, finalmente,
nel 1958. E subito decide di abbandonare Roma per affrontare una
prova sul terreno, nella piccola Federazione della sua città,
Bergamo.
Lucio Magri, Alla ricerca di un altro comunismo, A cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Aldo Garzia, Il Saggiatore, 2011
Nessun commento:
Posta un commento