Edoardo Sanguineti, Umberto Eco e Furio Colombo a Palermo, per il convegno del Gruppo 63 |
In principio fu il Verri.
Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956, a Milano, quando Anceschi
mi ha telefonato. Io lo conoscevo di fama, ma cosa poteva sapere lui
di me? Che mi ero laureato da meno di due anni, lavoravo alla Rai e
stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi.
Voleva dare vita a una rivista e non cercava nomi famosi (li aveva
già), ma intendeva mettere insieme dei giovani, affinché parlassero
tra loro.
Rievocavo un giorno
l'episodio con un collega universitario, e gli domandavo: «Ma uno di
noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che c'è in
città un giovane che si è laureato in un'altra università,
andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?». L'altro mi aveva
risposto: «Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!».
Anceschi non si barricava mai. Mi introdusse ai misteri del Blu Bar
di Piazza Meda, dove in una saletta tutti i sabati verso le sei
arrivavano, a chiacchierare di letteratura, Montale, Gatto, Sereni,
Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio. Carlo Bo
dominava la scena coi suoi silenzi omerici.
Noi giovanissimi abbiamo
contribuito a una lenta trasformazione del clima. Ci passavamo le
poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i
dattiloscritti dei suoi primi saggi su Joyce, Giuseppe Guglielmi ci
leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove
rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres «anifructus
brunito per la cena». Il Verri stava per pubblicare una poesia che
parlava di merda, sia pure in latino. Nel Verri, dal 1956 in avanti
troviamo poesie di Giuseppe Guglielmi, Erba, Cattafi e Giuliani,
Sereni accanto a Balestrini (due generazioni a confronto), Risi,
Pasolini, Antonio Porta che si firmava ancora Leo Paolazzi. C'erano
antologie di nuovi poeti americani, francesi (appare Yves Bonnefoy),
tedeschi (Paul Celan, Hollerer, Ingeborg Bachmann), russi e spagnoli,
racconti di Pontiggia e Calvino. Saggi su Pound, Dylan Thomas,
Wallace Stevens, testi di Robbe-Grillet, e Giuliani dava subito
notizia del Laborintus di Sanguineti. Ma Sanguineti si
occupava di Dante, Montale rileggeva Gozzano, Fausto Curi rileggeva
Govoni, veniva riservata un'attenzione rispettosa alle Storie
Ferraresi di Bassani e al Gattopardo, a Luzi e alle Ceneri
di Gramsci di Pasolini.
Nel numero 1 del 1960
appare uno scritto di Barilli, in cui si regolano i conti con
Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Guglielmi in cui si apre a
Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini
s'intestardiscono a fare gli uomini di qualità. Una nuova vis
polemica batte alle porte.
Nello stesso periodo a
Milano, ancora nel 1956, era stato fischiato Schonberg alla Scala.
Alla prima di Passaggio, con musica di Luciano Berio e testo
di Edoardo Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito
che, per condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato:
«centro-sinistra!». Allo Studio di Fonologia musicale della Rai,
diretto da Berio e Maderna, passavano a smanettare con i nuovi
strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry
Pousseur, ed era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà
tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate
sull'Almanacco Bompiani 1962, su calcolatori elettronici e
arti - e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape
Mark I di Nanni Balestrini. Nel 1960 usciva finalmente in Italia
l'Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto
Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle
onomatopee del capitolo 11 dell'opera, Omaggio a Joyce - un
tentativo di capire i significati lavorando sui significanti. Nel
1962 Bruno Munari organizzava a Milano la prima mostra di arte
cinetica e programmata, e nel 1963 Eugenio Battisti faceva nascere a
Genova il Marcatré, magazzino di molte nuove esperienze.
Molti di quei fermenti
erano espressione di un "illuminismo settentrionale", anche
se a questo clima appartenevano il siciliano Vittorini o il
napoletano Abbagnano, e la prima riunione del Gruppo 63 avviene a
Palermo nel corso di un festival musicale e teatrale di ampia
apertura europea. Ma non per caso Anceschi aveva intitolato a Verri
la sua rivista, così come anni prima Vittorini aveva preso a
prestito il titolo del suo Politecnico da Cattaneo. Il Verri nasceva
in quella Milano in cui le edizioni Rosa e Ballo avevano fatto
conoscere i testi di Brecht, Yeats, gli espressionisti tedeschi e il
primo Joyce, Bompiani su consiglio di Antonio Banfi, nella collana
Idee Nuove, aveva pubblicato testi filosofici che erano stati
ignorati dalla cultura idealistica, mentre da Torino Frassinelli ci
aveva fatto conoscere Melville, il Portrait joyciano, e Kafka.
Già dagli anni Cinquanta vi si leggevano Pound ed Eliot, da Bologna
il Mulino ci faceva conoscere attraverso La teoria della
letteratura di Wellek e Warren i formalisti russi e il New
Criticism, l'Einaudi, la Feltrinelli e poi il Saggiatore avrebbero
tradotto Husserl, Merleau Ponty, Jakobson o Wittgenstein.
Questi fermenti si
scontravano con la cultura ufficiale del Pci. Non la cultura
marxista, che accoglieva anche Geymonat o Galvano della Volpe, ma una
linea di partito che cercava di tradurre i dettami del realismo
socialista in termini di un nazional-popolare, non estraneo alle
esperienze del modernismo ma attento più ai contenuti che alle forme
(Guttuso, Pratolini, il primo Visconti, o le Ceneri di Gramsci
di Pasolini). Nascevano dibattiti su ortodossie e deviazionismi a
proposito del Metello di Pratolini o Senso di Visconti.
Grande gelo di fronte ai film di Antonioni, che qualcuno assolveva
solo perché mettevano in scena, sia pure sotto forma di drammi
privati, quella che allora si chiamava l'alienazione del mondo
capitalistico. Ma l'altro aspetto per cui la cultura ufficiale di
sinistra si trovava ostile all'illuminismo padano era che la
formazione culturale dei suoi quadri era ancora fondamentalmente
crociana e idealistica, mentre l'ambiente dell'illuminismo
settentrionale si caratterizzava per un rifiuto della cultura
crociana e della mitologia dell'intuizione lirica. Ricordiamo gli
sforzi fatti da Vittorini, già eretico sin dai tempi del Politecnico
(un altro richiamo all'illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel
1962 aveva operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961
Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura sul mondo
industriale, ma aveva deciso di dedicare il Menabò 5 alle nuove
tendenze linguistiche in un mondo dominato dalla tecnologia.
Vittorini proponeva prove narrative di Edoardo Sanguineti, Nanni
Filippini e Furio Colombo. Vi appariva anche un saggio,
apparentemente polemico, ma sotterraneamente complice, di Italo
Calvino (La sfida al labirinto), che allora mi aveva detto:
«Scusa, ma Vittorini ha ritenuto prudente che stendessi intorno a
voi un cordone sanitario». Caro e amabile Calvino che in futuro
avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si
biforcano e con gli sperimentalismi dell' Oulipo.
Insomma, i nuovi
scrittori, che ritenevano che l'impegno stesse nel linguaggio e non
nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del
neocapitalismo, anche se tra di loro vi erano molti schierati a
sinistra. Quando nel 1962 era uscito il mio Opera Aperta, su
“Paese Sera” si parafrasava un inciso di Montale (che si era
dimostrato sempre attento benché dubbioso lettore, incuriosito e
preoccupato dalle nuove esperienze): «Dite a quel giovane saggista
che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o
governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi
alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste,
diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto» (il che per
fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei
alunni non dovessero leggere decine di riviste). Su “Il Punto” si
parlava di un libro «che ha galvanizzato le più torpide
intelligenze critiche italiane». “L'Unità” avvertiva un
pericoloso ritorno al decadentismo, “Filmcritica”, allora di
ispirazione paleomarxista (ne era nume tutelare il futuro senatore
missino Armando Plebe) parlava di «opera aperta come opera assurda».
Sull'“Espresso”, ancora fortezza degli ultimi difensori
dell'intuizione lirica che si battevano come gli ultimi giapponesi
sulle isole del Pacifico, si affermava indignati che «le più
potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che
difendano le loro maggiori stravaganze». “Rinascita” intitolava
«L'opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco». L' “Avanti!”
rilevava come «Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi
narratori d'avanguardia». Sino a che un giorno è nata l'idea di
ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che
vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri
testi.
Di questo ha già parlato
ieri su questo giornale Nello Ajello e ha ricordato i riti
dell'incontro palermitano, dando anche un sapido schizzo della
società letteraria dell'epoca. Non è vero che non avessero fatto la
loro gita a Chiasso, per tornare all'allegoria arbasiniana, perché
Pavese aveva pur tradotto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini
gli autori pubblicati in Americana. Ma è certo che per la nostra
generazione il mondo si era allargato. Non avevamo bisogno di andare
neppure a Chiasso, perché si andava e veniva da Parigi e da Londra
in aereo. Noi, nati intorno agli anni Trenta, appartenevamo a una
generazione fortunata. I nostri fratelli maggiori erano stati
distrutti dalla guerra, alcuni erano finiti a Coltano, altri avevano
sacrificato i loro anni migliori in montagna. I sopravvissuti erano
tornati a una vita normale con dieci anni di ritardo. Noi eravamo
arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese consapevoli
abbastanza per aver capito quello che era accaduto, innocenti perché
non avevamo avuto il tempo di comprometterci, quando tutte le
opportunità erano aperte. Eravamo pronti a ogni rischio ma - diciamo
la verità - sapendo che non dovevamo pagar pegno. Non eravamo
obbligati a soffrire per conquiste impossibili, esprimevamo una
nostra forma di impudente gaiezza, e ciò faceva soffrire lo
scrittore d'antan che per definizione si voleva sofferente ed
escluso. Non eravamo giovani bohemien che vivevano in soffitta
e davano la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ciascuno di
noi aveva già pubblicato uno o due libri, ed era ormai inserito
nelle case editrici, nei giornali, nella Rai, nell' università.
Il Gruppo 63 non ha
rappresentato una rivolta dall'esterno ma dall'interno. Il Gruppo 63
irritava la cultura "impegnata" perché credeva più al
gesto rivoluzionario, quello dei futuristi che scandalizzavano i
buoni borghesi. Aveva ormai capito che questi gesti eversivi, nella
nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così
duttile e smaliziata da fagocitare ogni proposta di eversione
immettendola nel mercato culturale. L' eversione artistica non poteva
più assimilarsi all' eversione politica. Si tentava di aggiustare il
tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali,
difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di
guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le
soluzioni dell' arte, una visione diversa della società in cui ci si
muoveva. Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e
sperimentalismo aveva avvertito che, se l'avanguardia storica era
stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo.
Se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia,
scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. La
maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più
dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell'avanguardia
storica. Per questo avevo allora parlato di una Generazione di
Nettuno, opposta a quella di Vulcano. Non eravamo una banda di
corsari che dava l'assalto alla Maracaibo della letteratura.
Scrivevo: «Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati: un giorno
verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le
teste. Ma per intanto Jenny... scruta nel volto gli avventori, ne
mima i gesti ... Come sono fatti i piatti ? Di quale legno i letti? E
c'è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura
degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello
sbarco?». Mi chiedevo: «Ma il gesto sperimentale non potrà
attardarsi su se stesso - nella sequenza delle ricerche successive
non si perderà di vista il fine?... Di qui la necessità di un
controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma
mentre l'opera si fa.... Poiché la verifica non è più data dallo
scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la
verifica comune, l'incontro e il controllo delle triangolazioni.
Certo, nulla più dell'effusione lirica individuale sfugge a ogni
triangolazione: segno che la generazione non crede all'effusione
lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che
la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a
qualcos'altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome».
Immaginatevi se
l'estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili
affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società
letteraria era stata una diversa disposizione al confronto. I nostri
maggiori si erano impegnati a mantenere intatto il loro unico
capitale, l'idea sacrale dello scrittore. Nascondevano il dissenso
nel silenzio e, alla pubblica stroncatura, preferivano la malignità
sussurrata al bar. Invece a Palermo i presenti si leggevano i loro
lavori più recenti e si criticavano spietatamente l'un l'altro. Lo
facevano perché avevano in comune (oltre a tante nuove letture)
questa volontà di dialogo rissoso, ma erano diversissimi tra loro.
Che cosa rendeva simili Giuliani e Leonetti, che cosa avevano in
comune, come stile e come poetica, Marmori e Amelia Rosselli,
Pagliarani e Manganelli o, quanto a valutazione sul marxismo,
Sanguineti e Barilli? Sull'opera aperta Guglielmi aveva opinioni
diverse dalle mie, si opponevano diverse valutazioni dell'opera di
Moravia. Eppure tutti erano tenuti insieme dal proposito di
confrontarsi senza pietà e senza cineserie. Nell'ambito di una
società letteraria apollinea, queste divergenze avrebbero segnato la
fine di una bella amicizia. A Palermo il dissenso generava amicizia.
Questo era stato il messaggio offensivo lanciato dal gruppo. Oserei
dire che la visibilità del Gruppo è stata dovuta a chi se ne è
sentito offeso.
Rimane tipica la faccenda
delle Liale 63. Come era nata la battuta? Non ricordo, forse era
ingiusta, almeno rispetto a Bassani (ma all'epoca molto severo col
Giardino dei Finzi-Contini era stato proprio Vittorini). Ma se
avesse circolato come una delle tante boutades messe in giro
da Flaiano o Mazzacurati, saremmo rimasti all'aneddoto. Invece fu
proprio Bassani, evidentemente impreparato al gioco dell'invettiva, a
protestare accoratamente su “Paese Sera”, contribuendo ad
allargare lo scandalo a macchia d'olio. Passati i primi furori, le
opposizioni alla neo-avanguardia hanno preso un'altra strada: si è
detto che il gruppo aveva espresso molte belle teorie ma nessuna
opera valida. Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto (e
cito solo gli scomparsi) la grandezza di Porta, Amelia Rosselli,
Germano Lombardi, Manganelli o Emilio Tadini allora si è detto: «Sì,
ma costoro non appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di
passaggio».
Ora è ovvio che, se io
denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi cita Orson Welles o
John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, a ogni nome io rispondo che
però quelli non erano veramente americani nel senso più profondo
del termine, alla fine il cinema americano si riduce a Gianni e
Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è fatto e ancora si
sta facendo su varie gazzette. Quella del Gruppo 63 non è stata una
stagione dogmatica.
Nel corso degli anni il Gruppo ha saputo
rimettere in questione molte idee iniziali. Nella riunione del 1965,
Renato Barilli si trovava a fare i conti col nuovo Robbe-Grillet, e
con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto Roussel, che amava
Verne. E diceva che sino ad allora si era privilegiata la fine dell'intreccio, e il blocco dell'azione nell'epifania e nell'estasi
materialistica, ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa
con la rivalutazione dell'azione, sia pure di un'azione autre.
In quei giorni era stato proiettato un collage cinematografico di
Baruchello e Grifi, Verifica incerta, fatto con spezzoni di
situazioni standard del cinema commerciale. Il pubblico aveva reagito
con maggior piacere proprio nei punti che pochi anni prima avrebbero
provocato scandalo, dove le conseguenze logiche e temporali dell'
azione tradizionale venivano eluse (l' avanguardia stava diventando
tradizione), ma soprattutto apprezzava la rivisitazione ironica e
critica di un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso
istante in cui veniva messo in crisi. In quei giorni era stata
discussa la insorgente poetica del post-moderno, solo che all' epoca
il termine non circolava ancora. Quale è stata la contraddizione che
a condotto il Gruppo 63 al suicidio? Renato Poggioli nella sua Teoria
dell' arte d' avanguardia aveva fissato le caratteristiche delle
avanguardie storiche. Erano: attivismo, antagonismo, nichilismo,
culto della giovinezza, ludicità, prevalenza della poetica sull'
opera, autopropaganda, rivoluzionarismo e terrorismo (in senso
culturale) e infine agonismo, come tendenza agonica all'olocausto e
gusto della propria catastrofe. L'avanguardia agita una poetica,
rinunciando per amor suo alle opere, mentre lo sperimentalismo
produce l' opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga
una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al
circuito dell' intertestualità, l'avanguardia a una provocazione
esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela
bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una
scatoletta con merda d'artista faceva della provocazione
avanguardistica. Ora nel Gruppo 63 esistevano le due anime, e l'
anima avanguardistica è quella che è stata colta dai mass media.
Ma, se tanti testi ancora rimangono, i gesti non potevano che vivere
una breve stagione. Il momento in cui il Gruppo 63 ha scelto
esplicitamente la strategia dell'attacco è stato paradossalmente
quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul linguaggio, all'impegno pubblico e politico. E' stata la stagione di "Quindici", che ha
visto drammatiche conversioni all'utopia sessantottesca, o sofferte
resistenze, e alla fine ha portato il Gruppo a togliersi la vita -
proprio nel senso dell' agonismo di Poggioli. Confrontandosi con le
tensioni immediate di un periodo storico tra i più contraddittori,
il Gruppo si è accorto che una mancanza di unità ideologica - che
all' inizio aveva fatto la sua forza interna, e la sua energia
provocatoria - ora ne sanciva la giusta estinzione. Fu vera gloria? A
tutti, meno che ai sopravvissuti, l'ardua sentenza. E nostalgia solo
per i tanti amici scomparsi nel corso di questi quattro decenni.
la Repubblica, 9 maggio 2003
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