La poesia bucolica ebbe
come padre il poeta siracusano Teocrito. Antiche fonti confermano,
ricordando comunque che il genere pastorale fu una creazione dorica
legata al canto popolare. Il leggendario mandriano Dafni, per
esempio, nasce prima dell’opera teocritea e compare in un altro
siciliano, Stesicoro, vissuto tra il VII e il VI secolo avanti la
nostra era. Di certo possiamo ripetere quanto sostenne Anthony W.
Bulloch nel primo volume di The Cambridge History ofClassical
Literature (1985): «Teocrito costituì la base di ogni successiva
impresa poetica di carattere pastorale». In che misura, poi, fosse
debitore di predecessori, «nessuno oggi è in grado di stabilirlo».
Il genere bucolico,
tradizionalmente inteso come artificio letterario, a volte
interpretato in chiave simbolica (rifugio campestre) o addirittura
accostato alla filosofia di Epicuro, trova in Teocrito - sottolinea
Bulloch - «un maestro dell’illusione sempre ricreata». Già, le
illusioni. Nei versi che dedica all’amore si avverte la sua
confidenza con esse: si pensi all’idillio conosciuto con il titolo
di Tirsi, dove Dafni invoca Pan proferendo: «Ah, sono preda di Eros,
nel gorgo del Nulla». L’illusione si tocca con i sogni, diventando
una forza che alimenta la poesia; crea il senso del tempo e degli
spazi, invitando con suadenza il lettore a fame parte.
Sappiamo che Teocrito
lasciò Siracusa per trasferirsi ad Alessandria d’Egitto poco dopo
il 275-4 a. C. Qui conobbe Callimaco e gli esponenti della cultura
che gravitavano intorno alla corte. E qui divenne il poeta che lasciò
impronta indelebile nel genere pastorale, recando lo spirito della
propria terra.
Ora un saggio di Emanuele
Lelli, pubblicato dalla tedesca Olms (trovabile su Amazon o in una
libreria di Londra o Berlino), dal titolo Pastori antichi e
moderni, studia attraverso il grande siracusano le origini
popolari della poesia bucolica. La tesi sostenuta merita attenzione:
Teocrito si avvalse di tradizioni, già antiche al suo tempo, comuni
al meridione d’Italia. Sia il poeta accolto ad Alessandria, sia il
folklore del nostro Sud (qualcuno parlerebbe di demoetnoantropologia,
ma il termine è cacofonico) hanno comuni radici nell’antica
dimensione agro-pastorale greca. Esse si possono ritrovare in
credenze e superstizioni, proverbi, canti, leggende o favole, persino
nella medicina popolare praticata con le erbe. Molto di questo si
avverte anche nei lirici arcaici e nella tragedia: lì pulsano storie
primitive che Lelli ha ritrovato conversando con un allevatore del
Salento o un agricoltore di Cos, con campagnoli siciliani o calabresi
d’oggi. È tornato nella Magna Grecia seguendo voci di
contemporanei e, grazie a essi, ha riletto in termini folklorici
alcuni idilli di Teocrito.
Qualcuno dira che dopo
Lévi-Strauss non si dovrebbe più usare il termine “primitivo”:
andrebbe sostituito con società semplice o qualcosa del genere. Il
problema è che Lelli ha scoperto il sito vivente delle emozioni
bucoliche, tra lacerti greci e versi di Teocrito. Ha anche trovato
tracce di queste “primitività” parlando con pescatori e
contadini e poi traducendo, con Giuliano Pisani, i Moralia di
Plutarco, soprattutto in quell’opera che tratta dell’intelligenza
degli animali. Tali affinità convivono nella cultura popolare che ne
ha trattenuti i valori e in quella del colto sacerdote del tempio di
Delfi che noi conosciamo come Plutarco. Il medesimo che ha riassunto
lo spirito greco e romano scrivendo le Vite e che ha lasciato
una summa di etica pagana: i Moralia, appunto.
“Il Sole 24 Ore”
Domenica 5 agosto 2018
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