Si può discutere,
naturalmente, sulla riuscita di un telequiz come L’eredità.
A me piace, e appena
posso lo guardo volentieri, cerco di rispondere alle domande, impreco
contro i concorrenti che mostrano una cultura meno che elementare
(sono parecchi), quelli che collocano il Monte Bianco in Sardegna e
il Muro del pianto a Berlino o quelli che ritengono che Hitler sia
diventato cancelliere nel 1948 (o nel 1964 o nel 1978, come hanno
risposto a raffica tre concorrenti successivi). Liberissimi, in casa
propria, di confondere un pronome con un gerundio, ma mi chiedo con
che faccia tosta ci si presenti all’Eredità privi di un
minimo di cultura generale.
Viceversa, ammiro quei
pochi che esibiscono ampie competenze di musica, sport, scienze,
grammatica, letteratura, storia e geografia. Tifo per quelli che
arrivano al quiz finale dove bisogna individuare la parola che
accomuna i cinque vocaboli rimasti in gioco. Non è semplice: ci
vuole intuito, cultura, capacità associativa, concentrazione.
Apprezzavo la leggerezza
un po’ fanciullesca di Fabrizio Frizzi: mi piace molto meno la
chiacchiera invadente e il tono sempre alterato e sopra le righe di
Flavio Insinna. Ma quel che mi deprime è il ruolo delle «nostre
meravigliose Professoresse!», quattro belle ragazze-vallette
chiamate a esibire colpi d’anca, rotazioni di chiome e di braccia,
oltre a leggere ogni tanto una decina di righe esplicative (per
questo si chiamano Professoresse ma sembrano scolarette) e in
chiusura alzare il calice dello sponsor con il vincitore. Mi chiedo
come facciano a non deprimersi loro per prime, essendo lì per
«proporre la simpatia, i sorrisi e le pillole di curiosità» (dal
sito Rai), accompagnate dalla caciara del conduttore.
Sarà una questione di
ironia, la presenza delle sexy Professoresse sculettanti e
sorridenti? Post o neo ragazze coccodè, parodie di una parodia
oppure goffa ripetizione di un’idea nazionalpopolare della donna
sciocca e decorativa, mentre sull’altro canale fa dolceamara mostra
di sé l’impegno civile dandiniano. Ci si chiede, nell’anno del
Me Too, se per una tv pubblica non ci sia una dignitosa via di mezzo
tra la retorica patetica e la persistenza sfacciata del cliché. E
rimane il dubbio se la trave di Weinstein & Co sia tanto più
scandalosa della pagliuzza quotidiana televisiva.
Corriere della Sera, 18
dicembre 2018
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