Talvolta le coincidenze
possono rivelarsi davvero significative. Il 18 febbraio del 1745, nel
periodo in cui il fisico tedesco Ewald Jürgen Georg von Kleist
scopriva e metteva a punto il primo condensatore elettrico passato
poi agli annali della scienza col nome di «bottiglia di Leida»,
nella tranquilla e sorniona cittadina di Como nasceva Alessandro
Volta, che allo studio dei fenomeni elettrici avrebbe apportato un
contributo di non poco conto. Figlio di un ex gesuita che, per
«vocazione» mondana, dopo undici anni trascorsi nella Compagnia
aveva rimesso i voti e si era sposato con una nobildonna appartenente
alla casata dei conti Inzaghi, per ben trenta mesi Alessandro era
stato «messo a balia» da una montanara di Brunate. Se si dà
credito alle testimonianze, la donna era stravagante e solitaria,
affetta forse da quel briciolo di follia popolare che un paio di
secoli prima l'avrebbe portata diritta al rogo; ma di certo i primi
anni di vita non dovettero essere troppo duri per lui se fu proprio
nella bottega del marito della balia, un artigiano che per campare
costruiva barometri, che assieme ai primi giochi Volta iniziò a
prendere dimistichezza con quegli strumenti che lo avrebbero
accompagnato in tutta una vita dedicata alla ricerca. Nel novembre
del 1778, quando l'Università di Pavia gli assegnò la cattedra di
fisica sperimentale, Alessandro Volta era già un fisico molto noto,
ma l'ambiente del Lario gli stava oramai troppo stretto.
Prese quindi a viaggiare,
spinto oltre che dalle nuove possibilità offerte dal suo status di
professore e dalla sua indubbia capacità di tessere relazioni e
amicizie, anche da una precisa considerazione: sarebbe stato alquanto
difficile «mantenersi leibniziano a Como». Pavia era allora una
cittadina di soli ventisettemila abitanti, ma la sua università,
grazie alle riforme di Maria Teresa d'Austria, si presentava come uno
dei poli scientifici più importanti dell'intera Europa. Nell'Impero
asburgico, il primato se lo contendeva ormai solo con la capitale
Vienna. Lazzaro Spallanzani, Gregorio Fontana, Giovanni Antonio
Scoboli su tutti costituivano un'invidiata «comunità di savants
celebri, spesso in conflitto tra di loro». Come giustamente osserva
Paolo Mazzarello, nel suo documentato volume che è anche una bella
prova di scrittura, Volta possedeva però tutte le qualità che ne
potevano decretare, e di fatto ne decretarono, il successo mondano. I
salotti se lo contendevano per la sua giovialità, per l'eloquio
vivace e forbito, ma anche per quella sua prontezza di spirito che ne
faceva un vero e proprio maestro dei doppi sensi, «del calembour e
della sociabilité galante e non, così diffusa nel secolo dei Lumi».
Al tempo, l'elettricità era ancora un fenomeno «misterioso» che
non infiammava soltanto la mente di naturalisti e scienziati, ma
suscitava anche i discorsi più strambi. Di quella forza misteriosa
che nasceva dallo strofinamento di resine, tessuti o vetro e
procurava un certo brivido alle signore del bel mondo, Volta sapeva
dare un saggio incomparabile, attraverso esperimenti elettrici spesso
al limite della ciarlataneria.
Volta, scriverà il
fisico-filosofo Georg Christoph Lichtenberg in una lettera datata 10
febbraio 1785, «è un vero pensatore, oltre che uomo bello e
attraente: un vero cuscinetto da strofinamento per le dame. Discute
con animazione, bestemmia quando i suoi esperimenti non vogliono
andare per il verso giusto, ma ride in maniera indescrivibilmente
piacevole quando questi riescono».
Cosa accadde, dunque,
nella primavera del 1789? Che cosa fece perdere il senno, creando un
vero e proprio incidente diplomatico e di costume nel quale si
immischiarono persino il Governo di Milano, la Chiesa e l'imperatore
Leopoldo II? Semplicemente Volta, il geniale tombeur de femmes,
il signore incontrastato della mondanità lombarda, perse la testa
per una giovane cantante. Fatto ancora più sconcertante, la perse a
tal punto che volle prenderla in sposa. Un gesto, allora,
inammissibile: come poteva, infatti, uno stimato e autorevole
scienziato, scapolo incallito ma con dei doveri di forma nei
confronti della sua istituzione, decidere di sposare una donna che
esercitava una professione a dir poco «licenziosa» cantando nei
teatri, notoriamente luoghi di malaffare?
Da sempre amante del
teatro, non solo della teatralità mondana, Alessandro Volta ne era
al tempo stesso attratto e intimorito, tanto da avere dedicato un
sonetto proprio alla Corruzione del teatro. Marianna, questo
il nome della cantante, lo portò oltre il limite, alimentando ogni
genere di diceria sul suo conto e gettandolo in uno stato di
prostrazione profonda. Come documenta Paolo Mazzarello (Il
professore e la cantante. La grande storia d'amore di Alessandro
Volta, Bollati-Boringhieri, 2009), nell'ambiente tutto sommato
provinciale e conservatore di Pavia la notizia che uno stimato
accademico avesse perso completamente la testa per una cantante
neppure troppo avvenente ebbe un effetto dirompente, rivelando anche
invidie e inimicizie represse. La vicenda raccontata da Mazzarello
(che ha abituato il lettore a queste scrupolose e godibilissime
incursioni nelle bizzarrie che spesso accompagnano la storia della
scienza: da ricordare anche i suoi libri precedenti su Spallanzani,
Golgi e Lombroso, dal Genio e l'alienista al Nobel dimenticato, tutti
per Bollati-Boringhieri), ha però una fine. Considerarla lieta o
meno lieta, dipende dai punti di vista. Dopo avere scatenato ogni
sorta di maldicenza, rotto tutte le convenzioni e le etichette,
Alessandro Volta si ritrovò solo, nell'impossibiltà di sposare
marianna con rito formale e pubblico. Furono gli esperimenti di
Galvani a riportarlo nei ranghi e a ricondurlo a scienza e ragione,
mentre alla giovane cantante, abbandonata dopo tre anni di tormentata
relazione, non restò che perdersi nel «rumore indistinto della
storia».
Il manifesto, 8 marzo
2009
Nessun commento:
Posta un commento