Una vecchia, poco nota e
bellissima intervista a una grande storica dell'arte, dal
“manifesto”, quotidiano comunista. Il ritaglio è senza data, ma
l'anno è certamente il 1986. (S.L.L.)
Nicole Dacos (Bruxelles 1939 - Roma 2014) |
Studiando l'affascinante
vortice di osservazioni critiche, di dati, di idee, raccolte da Ernst
H. Gombrich in Il senso dell’ordine (Einaudi) succede di
leggere il nome della studiosa Nicole Dacos. Il grande storico
dell’arte parlando della grottesca dice:«È ben noto che la
fonte più ricca di tali motivi si trovava nelle stanze e nei
corridoi della cosiddetta Domus Aurea di Nerone, tanto
profondamente seppelliti nel terreno da esser noti come le grotte.
Il diffondersi della grottesca può essere seguito quasi passo per
passo, e così è stato di fatto seguito in uno studio ammirevole di
Nicole Dacos». In una nota Gombrich ripete: «Ho seguito da vicino
Dacos».
Decorazione della Domus Aurea neroniana |
L’occasione dei lavori
di restauro in corso alla Domus Aurea ci ha riportato alla
grottesca, a quel «motivo mostruoso o buffo», ma soprattutto a quel
nome di storico dell’arte capace di studiare un argomento «passo
per passo». Così siamo arrivati a Nicole Dacos.
«La mia prima laurea —
dice la Dacos — è in filologia classica, ma già mentre ero
impegnata in quel genere di studi sentivo di essere attratta verso
altro, insomma verso la storia dell’arte, l’archeologia. Però,
dal momento che ero partita dalla filologia era necessario, prima di
ogni altra scelta, chiudere quel capitolo. Dopo, cioè dopo questa
formazione molto accademica, ho sentito l’urgenza di rivolgermi a
cose profondamente diverse. Avendo letto i libri di Ranuccio Bianchi
Bandinelli, fui spinta a lasciare il Belgio e a venire in Italia per
seguire i corsi, i seminari, tenuti da questo grande archeologo».
Ad un certo punto della
nostra lunga conversazione è stato fatto il nome di Marguerite
Yourcenar, un’altra donna partita da Bruxelles, un’altra infanzia
fiamminga. Spesso nelle pagine della scrittrice troviamo indicato il
momento in cui avvengono strani miscugli, quelli che poi consentono
che dalla semplice conoscenza si passi all’immaginazione,
dall’archivio al romanzo. L’arida filologia certamente non ha mai
chiuso nessun argomento per la Yourcenar, meravigliosa indagatrice di
storia e di archeologia. Le sculture, quanto ora noi chiamiamo in
questo modo, hanno veramente conosciuto una lunga «avventura» che
provoca la scrittrice.
Gli elementi naturali o
gli uomini le hanno consunte, mutilate, sfigurate. Osservando ciò
che è rimasto «intimamente unito all’avventura» di una statua,
non si può che dire: «Ogni sua ferita ci aiuta a ricostruire un
crimine e a volte a risalire alle sue cause». Così,
nell’archeologia e nell’andar per favole, la scrittrice riafferra
la storia.
Dunque risalire
l’avventura e per imparare a far questo la giovane Dacos da
Bruxelles va a Roma.
«Con Bianchi Bandinelli
ho imparato il valore di un metodo basato sulla attenta lettura delle
opere, mai disgiunta però dalla conoscenza di altre e diverse
discipline: artistiche, letterarie, filosofiche, storiche,
sociologiche».
La giovane studiosa belga
segue le lezioni di Bianchi Bandinelli perché lì trovano conferma i
suoi sospetti contro la filologia. E assieme alla Dacos torniamo per
un momento al fascino e alle parole di una di quelle lezioni:
«Occorre dunque ripetere ciò che abbiamo detto già molte volte.
Forse lo abbiamo detto con poca chiarezza o con non sufficiente
determinanzione. Forse è vero quello che diceva un vecchio scrittore
— Gide, mi pare — che bisogna ripetere sempre le stesse cose,
perché nessuno sta ad ascoltare — gli archeologi e i filologi
classici meno che mai. E forse proprio nel campo specifico della
cultura classica, tra filologi e archeologi, vi è una particolare
ottusità e diffidenza verso i problemi generali e un particolare
distacco dalla cultura viva: ma ciò è imputabile non alla scienza
che essi professano, bensì soltanto a chi la rappresenta. Occorre
dunque ripetere che anche negli studi di antichità bisogna
distinguere i due momenti, le due istanze: l’una specifica,
tecnica; e l’altra universale, formativa, culturale; e che i due
morpenti vanno, sì tenuti distinti; ma che il secondo deve rimanere
presente alla mente dello studioso quale fine ultimo e scopo
sostanziale della indagine specifica: altrimenti viene a mancare,
come tante volte è accaduto, la capacità, e la possibilità
addirittura, di distinguere tra problemi veri e problemi fittizi.
Sarebbe come se, nella
trama di un racconto poliziesco, ci si perdesse nella raccolta dei
dati e degli indizi e si dimenticasse che lo scopo finale è la
scoperta dell’autore del delitto».
Nicole Dacos nasce, in
quanto studiosa, dall’accettazione proprio di questo passaggio,
identico sia per la Yourcenar, scrittrice-archeologa, che per Bianchi
Bandinelli, archeologo colto, la scoperta dell’autore del delitto.
E dopo Ranuccio Bianchi
Bandinelli?
«Cerco di orientarmi
sempre più verso la storia dell’arte e allora inizio a occuparmi
della Domus Aurea. Entro cioè in quel mondo sotterraneo frequentato
molto attentamente da Pinturicchio, Signorelli, Aspertini, Giovanni
da Udine, e poi ancora da tanti altri pittori europei durante il
Cinquecento. Per questo motivo, a quel punto, mi avvicino a Roberto
Longhi.
Se con Bianchi Bandinelli
ho avuto un rapporto molto amichevole, quasi familiare, andare da
Longhi invece era una specie di esame. Mi faceva una grande
impressione. Ma da Longhi ho imparato la vera storia dell’arte,
quella senza chiacchiere».
La storia dell’arte
senza chiacchiere, intanto, si stava trasferendo nelle prime
pubblicazioni, dava impulso a nuovi studi. “Ma venendo comunque da
una formazione di filoioga classica — dice Dacos — sentivo il
desiderio di fare alcune verifiche, di appronfondire gli elementi dei
miei studi. Così sono andata all’istituto Warburg di Londra. Lì
ho portato le mie ricerche sulla Domus Aurea».
Siamo dunque giunti nel
tempio Warburg, nel mitico luogo. Qual è il suo giudizio su Warburg?
«Fu un grande
stimolatore e una persona molto affascinante. Ma era un dilettante,
dotato però di una grandissima cultura, soprattutto di tipo
filologico. Oggi mi pare che in certi ambienti ci sia un eccessivo
entusiasmo verso questo studioso. Chi volesse imitare Warburg
correrebbe seri rischi nel caso non possedesse la sua notevole
cultura filologica. Senza la cultura di Warburg c’è il pericolo di
scrivere saggi da salotto, perché il limite che vedo in questo
complesso personaggio è dovuto al negativo di un’erudizione che
non porta a nulla. Insomma: è il caso di un’erudizione scollegata
dalla storia. D’altra parte lo stesso Gombrich ha avuto più di una
difficoltà nel sistemare il pianeta Warburg».
Da quel pianeta però, da
Aby Warburg (1866-1929), dai suoi studi iconologici e mitologici,
dalla sua astrologia, sono usciti interrogativi come il seguente che
pur devono avere interessato Nicole Dacos: «Ecco il problema: che
cosa significa l’influsso degli antichi per la civiltà artistica
del primo Ri-nascimento?» O non era questa la domanda di fronte agli
affreschi della Domus Aurea dipinti dai pittori di Nerone?
Nicole Dacos è anche
l’autrice di libri come Le Logge di Raffaello, maestro e bottega
di fronte all’antico (indagando sulla decorazione delle logge
del Vaticano la studiosa scopre quali sono stati gli allievi di
Raffaello che vi hanno lavorato; scopre che Giorgio Vasari ha scritto
il vero dicendo che non furono solo otto gli autori raffaelleschi; dà
un nome anche agli anonimi, che allinea accanto a Giovanni da Udine,
Giulio Romano, Gianfrancesco Penni, Perin Del Vaga, Polidoro da
Caravaggio). Altri suoi studi: i pittori romanisti, i rapporti
artistici tra i Paesi Bassi e l’Italia durante il Rinascimento.
Ma quali e quanti furono
gli artisti che si calarono nelle grotte della Domus Aurea?
«A partire dagli anni
Ottanta del XV secolo e per quasi tutto il Cinquecento non c’è
artista importante che non conosca le pitture della Domus Aurea.
Parlo dei pittori che realizzarono la Cappella Sistina prima di
Michelangelo, cioè di quelli attorno al Perugino. Dopo ci sono i
raffaelleschi, e dopo ancora i pittori fiamminghi che giungono a
Roma, come Heemskerck o Hermannus Posthumus. E fino al 1540 si scende
nella Domus Aurea per copiare. Si deve sapere che prima di allora gli
artisti non conoscevano la pittura, i colori, dell’antico. Nel
vedere tutte quelle frivolezze, quelle stranezze, gli artisti del
tardo Quattrocento e del Cinquecento, trovano la prova di
un’antichità libera, ricca di spunti anticlassici. Per loro le
grottesche della Domus Aurea sono l’universo della fantasia,
il libro dell’inconscio. Quel luogo ha avuto il compito di
stimolare la fantasia. È un rifugio nell’immaginario per chi
possedeva già un grande bagaglio di conoscenze classiche, diciamo di
tipo vetruviano».
Orazio e Vitruvio, ci
ricorda Dacos, non amano le follie, le frivolezze. Nelle parole di
Orazio la condanna di ciò che invece è proprio la pittura della
Domus Aurea: «Se un pittore scegliesse di aggiungere un collo
di cavallo a una testa umana e di far crescere piume multicolori
ovunque su un miscuglio di membra, così che quanto in cima è una
bella donna finisca in basso in un brutto pesce oscuro - amici, a
questa vista, cercate di non ridere. Pittori e poeti hanno sempre il
privilegio di osare qualsiasi cosa... ma non fino al punto di unire
il dolce al selvaggio, o che i serpenti si ac-coppiino con gli
uccelli, gli agnelli con le tigri». Esattamente ciò, che a loro
modo, fecero Pinturicchio, Ghirlandaio, Giovanni da Udine, ecc.
«Attenzione però —
avverte Dacos — copiano ma si apprestano a inventare altro. Sono
stimoli per discorsi assolutamente nuovi».
Nicole Dacos, che per
anni è vissuta nei sotterranei della Domus Aurea, dopo avere scovato
tutte le firme graffite dagli artisti su quelle superfici, ora
davanti a noi in condizioni di estremo degrado, frugando in archivi,
biblioteche, musei, collezioni pubbliche e private, ha individuato
ciò che quegli artisti disegnarono o dipinsero a partire dagli
affreschi della Domus Aurea.
Dunque, ogni volta, è
avvenuta «la scoperta dell’autore del delitto». È come se Amico
Aspertini (1475-1552) o il Pinturicchio fossero stati colti «con le
mani nel sacco» e qualcuno li avesse riportati nella casa di Nerone
e sottoposti all’evidenza che tutte le loro invenzioni, le loro
grottesche, soltanto in quel luogo avevano avuto origine.
E Nicole Dacos ha avuto
anche l’immensa gioia di scoprire un quadro che fotografa la scena
del delitto, cioè il momento in cui alcuni pittori con delle torce
in mano stanno per calarsi nelle grotte della Domus Aurea. In una di
quelle, nella grotta nera per l’esattezza, alcuni anni fa Dacos
decifra diverse firme graffite sulla volta. Appartengono a quei
pittori provenienti dai Paesi Bassi e attivi a Roma attorno al 1536.
I graffiti sono la testimonianza del passaggio nella Domus Aurea
di Martin van Heemskerck, Lamberto d’Amsterdam, Herman Postma. Ed è
il nome latinizzato di quest’ultimo, cioè di Hermannus Posthumus,
che Dacos legge a firma di un quadro, solo un paio d’anni fa
apparso misteriosamente nelle collezioni del principe di
Liechtenstein.
L’opera rappresenta una
fantasia archeologica sul tema «Il tempo divoratore delle cose» e
ciò che colpisce di questo fantastico paesaggio, molto moderno per
l’epoca in cui fu dipinto (1536), è la presenza di un universo di
frammenti archeologici, di sculture e architetture, teste colossali,
rovine di templi, capitelli, urne, anfore, ma soprattutto ad
emozionarci è la visione di alcuni artisti, che studiano e prendono
le misure di quelle reliquie dell’antico o che si apprestano a
discendere nella Domus Aurea per copiare l’immaginario
colorato dei pittori di Nerone.
Abbiamo detto che Nicole
Dacos si occupa dei pittori cosiddetti romanisti, artisti cioè che
lavorarono tra i Paesi Bassi e l’Italia e che nessuno storico
dell’arte di formazione accademica studia, perché si tratta di
materia dalla problematica collocazione. Sono pittori
«italianizzanti» e che durante il XVI secolo, sia nei Paesi Bassi
che in Spagna, sono «impregnati di cultura italiana». Dice Dacos:
«Essi appaiono come degli eterni stranieri e sono 'sospettati’ sia
dagli storici dell’arte fiamminga che da quelli dell’arte
italiana. Lo studio di questi artisti in effetti presuppone la
conoscenza della pittura dei Paesi Bassi, ma anche dalla pittura
italiana».
Ma più precisamente cosa
spinge Nicole Dacos a questo genere di studi? — «M’interesso
alle terre di nessuno — è la risposta — alle culture ibride,
cioè doppie, Paesi Bassi e Italia, l’antico e il rinascimento».
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