4.5.12

Una spartana tra i mafiosi (Salvatore Lo Leggio)


Elena (con Paride) in un celebre quadro di David
Tra i contadini del mio paese si cantava, ancora nei primi anni Sessanta, una sorta di “epopea mafiosa”, un canto di prigionia di cui si conosce l’autore, il capomafia Calogero (Caliddu) Sferrazza. 
Il canto mirava a distruggere la reputazione di un tal Calogero (Caliddu) Vella, l’“infame”, che aveva consegnato lo Sferrazza agli sbirri del prefetto Mori.

La prima strofe, la più conosciuta, fa:
Caliddu Vedda comu ti cangiasti
di malandrinu ‘nfami addivintasti;
di malandrinu ‘nfami addivintasti
la prima ‘nfamità mi la facisti.

Calogero Vella come sei cambiato
da malandrino sei diventato infame;
da malandrino sei diventato infame
e la più grande infamità me l’hai già fatta.

Quel verso centrale ripetuto è il cuore ideologico di tutto il poema, ma fin da bambino (lo cantavano i bacchiatori durante la raccolta delle mandorle in campagna da mio nonno) mi attirava di più la seconda strofa, un po’ piccante, nella quale Sferrazza metteva in piazza le magagne della madre del rivale. Avrebbe proseguito nelle strofe successive con la sorella e con la moglie di Vella. L’infame doveva di necessità essere “cornuto”, meglio ancora se curnutu cu li corna ‘n tri maneri / di matri, di soru e di mugghieri (cornuto con le corna di tre tipi/ di madre, di sorella e di moglie). La figura umana del traditore doveva essere sporcata anche sul versante più sacro, quello dell’onore familiare.

La seconda strofe, in ogni caso, così recita:
To matri è la vilunna Gisippina
chi gran pezzu di fimmina spartana.
Tu lu sa unni iva ogni matina
a farisi prufumari la suttana.
Di li fimmini tinti fu rigina
e, ora ca è vecchia, fa la ruffiana.

Tua madre è la bionda Giuseppina
che gran pezzo di femmina spartana.
Sai bene dove andava ogni mattina
a farsi profumare la sottana.
Delle cattive donne fu regina
e, ora che è vecchia, fa la ruffiana.

Tutto chiaro salvo una cosa. Che cosa c’entra la morigerata Sparta con le abitudini della bionda Giuseppina?
Per decenni ho pensato che Sferrazza si riferisse alla fierezza del portamento finché in vecchio ritaglio di “Repubblica” non ho trovato una spiegazione più convincente.
In un articolo del 1° settembre 1984 (di cui “posterò” altrove un ampio stralcio) Lidia Storoni parla degli Spartani. Vi si può leggere tra l’altro quanto segue: “Alle competizioni atletiche prendevano parte anche le donne. Quell'attività sportiva, che doveva irrobustire creature utili soltanto per la procreazione, scandalizzava gli ateniesi, che tenevano mogli e figlie chiuse nel gineceo: Aristotele denuncia quella libertà tra le cause della decadenza di Sparta nel IV secolo. Il pregiudizio trapela nei due personaggi femminili più famosi della letteratura greca, le due grandi peccatrici, nate tutte e due da Sparta: Elena, l'adultera che provocò la guerra di Troia e fu causa di tanti lutti, e sua sorella Clitemnestra che, d'accordo con l'amante, trucidò il marito, Agamennone, non appena ebbe messo piede in casa, tornando dalla guerra”. 
A questo tipo di “spartanità” alludeva quasi certamente il capomafia. 
Resta qualche domanda. L’aggettivo era in uso nel dialetto del paese? oppure apparteneva al gergo malavitoso? oppure, ancora, era una citazione dotta? In quest’ultimo caso, che mi sembra il più probabile, mi piacerebbe conoscere la fonte del poeta. È noto che i caporioni mafiosi sono lettori appassionati della Bibbia, com’è nota nella tradizione paesana la predilezione di Sferrazza per Dante, della cui Commedia si dice conoscesse a memoria alcuni canti; ma, nel considerare quella bionda di paese una compatriota di Elena e Clitennestra, il criminale verseggiatore probabilmente ci ha messo del suo.

Vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2012/05/sparta-problema-mito-e-miraggio-di.html

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