2.5.12

Giorgio Caproni e la Bestia (di Elisa Donzelli)

Il 7 gennaio di cent’anni fa nasceva Giorgio Caproni.
Amava definirsi ‘genovese di Livorno’ perché nel capoluogo ligure era arrivato all’età di dieci anni trascorrendo parte dell’infanzia e la giovinezza tra gli studi di violino e i primi esperimenti poetici.
Ma il 1° novembre del 1938, fresco dei versi pubblicati in due brevi raccolte, aveva lasciato la casa dei genitori e si era trasferito a Roma per insegnare nelle scuole elementari. Dopo la guerra «penetrata nell’ossa», dalla Val Trebbia era tornato nella Capitale senza immaginare che proprio qui, «purtroppo o per fortuna», avrebbe abitato per tutto il resto della sua vita, sino al 22 gennaio del 1990. Alla «luce rossa di Roma», ai suoi ponti, ai suoi quartieri Caproni ha dedicato alcuni dei versi più alti del Novecento nutrendo per lei un affetto assai più contraddittorio e intermittente (e ancora poco indagato) rispetto a quello per la Livorno di sua madre «Annina» e per la sua «Genova di tutta la vita».
Proprio a Roma nel quartiere Marconi, a qualche isolato da una delle scuole in cui il poeta aveva insegnato e dalla casa di via dei Quattro Venti, si trova il Fondo della Biblioteca privata di Caproni.
Sono state le Biblioteche di Roma ad acquisire, nel 2000, quasi cinquemila volumi provenienti dall’abitazione romana di via Pio Foà e poi spostati nei locali della Biblioteca «Guglielmo Marconi». In pochi lo sanno perché chi cerca tra le carte del poeta spesso preferisce visitare gli archivi di Firenze dove sono conservati i suoi manoscritti e i suoi dattiloscritti. E invece è a Roma che bisogna venire per condividere con il poeta le letture che lo avevano accompagnato nel tempo.
Il «baco della letteratura» Caproni diceva di averlo preso alle elementari, anni di «miseria nera» durante i quali leggeva Dante in un’edizione a dispense comprata dal padre in edicola.
Giovanissimo, oltre ai classici e ai contemporanei, aveva scoperto i filosofi cui si era unita la passione precoce per la poesia straniera. L’elenco sarebbe lungo ma, tra gli autori annoverati nella vigile bibliografia caproniana di Adele Dei, spicca il nome di un poeta francese della generazione di Ungaretti, Pierre Jean Jouve, cui in Italia non si presta grande attenzione.
Tra gli scaffali del Fondo Marconi è nascosto un libretto di Jouve, Per esser gai come Titania, che Aldo Capasso aveva pubblicato nel 1935 traducendo alcuni dei versi più incisivi del poeta di Arras.
Dico nascosto perché il profilo sottile della Collezione degli «Scrittori Nuovi» di Emiliano degli Orfini (la stessa che nel 1936 avrebbe accolto, grazie a Capasso, l’esordio poetico di Caproni Come un’allegoria e, nel 1938, la poesia ariosa delle nozze con Rina Ballo a Fontanigorda) rischia di essere messo in ombra da volumi più corposi soprattutto per chi avesse frequentato solo di scorcio la poesia poco rassicurante di un grande autore del Novecento francese. Ci sono cinque libri di Jouve nel Fondo romano ma quell’edizione curata da Capasso ha qualcosa in più rispetto agli altri volumi della Biblioteca. Chi si appresta a sfogliarla troverà tra le pagine ingiallite alcuni appunti che Caproni aveva segnato a margine dei testi. Fino a qui nulla di nuovo perché i libri del Fondo Marconi si presentano proprio così: note, pensieri, versi interrotti e scritti a mano con una grafia cuneiforme. Ma nel libretto di Jouve accanto alla poesia diciassettesima, sotto la traccia sbiadita di un rossetto rosso depositato sul margine del foglio, Caproni aveva scritto a matita un appunto veloce che a tentare di rileggerlo appare più o meno così: «Il segno rosso è un bacio di Olga datovi a Neiron[…] in una giornata di serenità. Perché cadde proprio in questa poesia? E per di più è 17esima (17 febbraio amandoti, 27 febbraio peggiorando, 7 marzo morta a 27 anni!)».
Di Olga Franzoni, prima fidanzata del poeta morta in Val Trebbia nel 1936, la critica ha parlato molto. A quella ragazza, da poco scomparsa, Caproni aveva dedicato la prima edizione di Come un’allegoria e l’ultima poesia di Ballo a Fontanigorda. L’episodio della sua morte l’aveva ricordato nel racconto Il gelo della mattina, iniziato nel 1937 e simile allo Jouve di Dans les années profondes del 1935. Poi il nome di Olga era scomparso ma la sua ombra era tornata a vivere nei Sonetti dell’anniversario del 1942 e nei versi di E lo spazio era un fuoco entrambi ambientati in una Roma di rovine e macerie dove il rossetto di quella ragazza spargeva, in incognita, i suoi segni febbrili: «Rivedo / i tuoi netti confini / d’iridata fanciulla / – il fuoco sulla bocca / d’una chiusa rincorsa». Nel segno di Olga erano nate queste poesie della «stagione rossa» di Cronistoria rispetto alle quali la critica caproniana ha saputo dare i suoi migliori frutti. Oggi, grazie al libretto di Jouve conservato nel Fondo Marconi, la sua immagine di ragazza-lettrice scavalca ulteriormente l’eterno femminino della tradizione lirica italiana per mostrare una nuova natura camaleontica.
Secondo Ungaretti in Jouve «l’amore si converte in morte spaccato dal peccato» e Risi (che molto lo ha tradotto dopo Capasso) ha aggiunto che per salvarsi l’uomo «esteriorizza i fantasmi che lo divorano». Lo confermano i bestiari jouviani che riesumano la cerva di Petrarca e che inscenano il passaggio di una misteriosa bestia: «Una bestia ammirabile dalla coscia segreta / Passa sulla terra infinitamente ferita – / Piaga di sangue spumeggiante e fresco – / Esso mi trascina, lo sento, fuori della città». Di questa poesia, scoperta da Capasso, Caproni aveva parlato sul «Popolo di Sicilia» nel 1937: «La donna, ecco ‘la bestia ammirabile’ […]. Qui sembrerebbero i cardini della poesia di Jouve: una sensualità gaudiosa, che drammaticamente è in lotta, straziandosene, con l’idea di peccato». Insieme alla caccia la Bestia con la ‘B’maiuscola, si sa, è uno dei grandi temi dell’ultima stagione poetica caproniana ma, rileggendo questo articolo, viene il sospetto che all’anagrafe proprio lei, «(l’ónoma) che niente arresta», fosse stata registrata sotto il nome di Jouve.
Chi è la Bestia? si chiedeva il poeta di Livorno in un’intervista rilasciata a la Repubblica nel1986. Una risposta quell’anno aveva provato a darla tramite i versi del Conte di Kevenhüller: «La Bestia assassina. / La Bestia che nessuno mai vide. / La Bestia che sotterraneamente / – falsamente mastina – / Ogni giorno ti elide. / La Bestia che ti vivifica e uccide… / Io solo, con un nodo in gola, / sapevo. / È dietro la parola». Verso il 1990, quell’animale erratico si era spostato nei territori «disabitanti» della poesia postuma di Res amissa. Ma la sua presenza ferina affondava le radici molto lontano nel tempo. Molteplici erano state le sue metamorfosi, ancora più evidenti le sue eclissi.
In origine, con Jouve, era stata «bestia ammirabile» e, dopo l’intervallo della poesia di Finzioni, si era manifestata ‘dentro’ la città di Roma nelle poesie di Cronistoria. Nel 1962 con René Char, tradotto da Caproni per Feltrinelli, si era trasformata nella «Bête innommable» interpretata da Maurice Blanchot come «parola che dona voce all’assenza» nel saggio La Bête de Lascaux del 1958 (le pitture rupestri di Lascaux, manifesto della nascita dell’arte e del congedo dell’uomo dal suo passato animale). Caproni, che nelle interviste non ha confessato proprio tutto su Blanchot, quel saggio lo conosceva bene e lo possedeva sin dal 1961 (negli anni del Congedo del viaggiatore cerimonioso) perché era stato Char a inviarglielo. Il libretto è conservato nel Fondo romano e lo ha segnalato con attenzione Michela Baldini.
Quante e quali sono le Bestie nell’opera di Giorgio Caproni? È questo l’oggetto di uno studio che mi riservo di descrivere a fondo in sede critica. Basti dire per ora che qualcosa distingue il poeta di Livorno da altri scrittori della stessa generazione. Molto per lui è stato fatto (talvolta «con punte di culto» avverte Mengaldo) e molto resta da fare. Già nel 1980 lo aveva segnalato Sereni: «alla poesia di Caproni bisognerà anzitutto invidiare la sorte piuttosto rara (perché non equivoca) del suo circolare ed essere letta, ossia del suo parlare ad altri anche indipendentemente dal rapporto delle definizioni critiche e dal gioco dei confronti e delle poetiche contrapposte». E prima ancora lo aveva capito Pasolini che, venuto ad abitare a Roma nel 1950, dieci anni più tardi, avrebbe dedicato A Caproni questi versi: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».

“alias domenica”, 22 gennaio 2012

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