Da La ragazza del secolo scorso, l’autobiografia politica di Rossana Rossanda riprendo (tagliando una digressione su complotti e complottiamo che mi pare marginale) una pagina sul Pci milanese alla metà degli anni 50. L’elemento centrale del racconto è l’arrivo nella capitale lombarda di Pietro Secchia. Rossanda nega recisamente che il dirigente comunista retrocesso fosse un amante della lotta armata, come vuole la leggenda alimentata dalla malevola biografia di Miriam Mafai ed esprime un giudizio sostanzialmente negativo, ma umanamente comprensivo. (S.L.L.)
Pietro Secchia |
Che Seniga fosse una piccola mente è chiaro, che Secchia coltivasse qualche tendenza insurrezionale è più conclamato che certo. Non sono i suoi diari, che chi ha vissuto qualche anno sotto la sua direzione a Milano trova sorprendenti per le lacune, a dare lumi. Nei momenti di scontro sociale e politico, e ce ne furono - come dopo l'attentato a Togliatti, o nel 1960 - frenò sempre, frenò nel comitato centrale, e se negli anni settanta coltivò alcuni frammenti di estremismo fu con ambiguità. Non era certo uno sciocco. Quel che non nascondeva nei contatti personali era la sfiducia in Togliatti, condivisa da altri «vecchi», ma inespressa dovunque tutto il partito la potesse avvertire.
Era un uomo sofferente, a Milano arrivò pieno di risentimento e si chiuse in una specie di fortezza. Noi eravamo avvezzi a frequentare il regionale ma con Secchia non lo si poté più fare, e fu una differenza, perché ai vecchi compagni come Colombi, Alberganti, Brambilla, Vaja, che erano certo più d'accordo con lui che con Togliatti, si acccedeva senza formalismi, con loro si parlava in permanenza. Non erano sprezzanti, credevano in un militantismo tutto d'un pezzo (eccezion fatta per le avventure galanti, ma faceva parte dell'essere tutti d'un pezzo, Alberganti era un bellissimo uomo), dubbi non ne manifestavano, teme vano il nemico e le sue influenze. E anche quando impedivano questo o quello, noi più giovani dissentivamo da loro più con impazienza che con rabbia. Secchia invece era distante e senza curiosità, perché la sua amarezza era grande.
Cominciavo a misurare come gli uomini, comunisti o no, fossero fatti di tensioni e vulnerabilità. Un paio di giorni prima di morire a Massa Lombarda, passò da Milano Ruggero Grieco, scese alla Casa della cultura. Era stanchissimo, e appoggiandosi alla parete - eravamo soli e non c'era fra noi confidenza - disse improvvisamente qualcosa come «stanno tradendo tutto». Molto tempo dopo, parlando della riunione del 1926 dove l'Internazionale era venuta a rimettere in riga il partito italiano e Grieco aveva dovuto sostituire Gramsci, Togliatti mi disse con una punta di malevolenza: «Ma se ci fosse stato Gramsci al posto di Grieco non avrebbe mollato». Eppure lui, Togliatti, pensava che Gramsci avesse torto. La lotta per il potere non è più morbida quando si crede fermamente in una certa strada, e in quella generazione dovette essere tremenda. Secchia l'aveva provata. Ma se faceva intendere che Togliatti era troppo parlamentarista, non amò né i cinesi che glielo rimproveravano, né i movimenti, fu duro con il '68 e non dimentico come chiedesse l'espulsione del «manifesto». Se intervenne a Milano fu per tagliar fuori qualsiasi problematica avanzasse.
da La regazza del secolo scorso, Einaudi 2005
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